Il riformismo in Italia non ha mai avuto grossa fortuna e, oltremodo, lo stesso termine è stato spesso offuscato da una lettura distorta, sia all’interno del suo campo politico naturale, la sinistra, sia nel campo politico avversario, la destra. Una destra alla quale una sinistra chiusa a riccio su sé stessa, ha consentito non di rado di spacciare per riformismo il solo fatto di promuovere riforme legislative che, nella sostanza, si sono manifestate essere delle vere controriforme.
Non è necessario scomodare la storia e risalire fino al gennaio 1921, al XVII Congresso di Livorno del Partito Socialista Italiano nel quale si concretizzò la scissione della corrente rivoluzionaria che costituì il Partito Comunista d’Italia, per rendersi conto come a sinistra il riformismo abbia, con una buona dose di miopia, assunto le tinte del nemico di classe, subalterno alla borghesia, quindi da combattere. Neanche la pur evidente, seppur troppo lenta, evoluzione in senso riformista dello stesso PCI ha consentito al riformismo di legittimarsi come espressione di una sinistra concreta, pragmatica, capace di stare al passo con l’evoluzione dei tempi e di rappresentare un vasto campo progressista alternativo alla destra e alla sinistra radicale.
Il PCI e il PSI furono dei grandi partiti della sinistra che incisero profondamente nel tessuto politico sociale dell’Italia, nella nascita e nel consolidamento della democrazia. Tuttavia la loro presenza nella politica italiana, anziché trasformarsi in un soggetto riformista moderno, si esaurì quando vennero messi alla prova della fine delle ideologie, il primo, e della capacità di tradurre in responsabilità i princìpi dell’etica politica, il secondo.
Già Giorgio Amendola, a metà degli anni ’60, prendendo atto del sostanziale fallimento della contrapposizione politica fra PSI e PCI, parlava di un superamento della divisione fra socialisti e comunisti per fare nascere un partito saldamente riformista, che fosse espressione unitaria del movimento operaio, ma non solo del movimento operaio. Un appello caduto nel vuoto. Come cadde nel vuoto quella visione riformista, ben rappresentata da Norberto Bobbio, che vedeva nella convergenza delle culture liberal-democratica, cattolico-democratica e socialista, il punto di partenza per dare vita a un partito riformista, a vocazione maggioritaria.
Per trovare le tracce di un tentativo politico di riunire le forze di matrice riformista in un unico partito dobbiamo arrivare al 14 ottobre 2007, giorno al quale risale la fondazione del Partito Democratico. Un tentativo che, purtroppo, si è trasformato in un esperimento di laboratorio mal riuscito dando luogo alla “fusione a freddo” delle oligarchie di DS e Margherita, e non certo al “partito nuovo” del riformismo italiano.
Il PD: un partito che ho convintamente contribuito a fondare e nel quale, per più di dieci anni, mi sono battuto per fare prevalere al suo interno il confronto fra le idee a discapito dello smodato scontro fra le appartenenze alle correnti, che, fra successi e insuccessi, non ha saputo cogliere la missione storica per diventare il riferimento di tutti i riformisti.
Questo mancato obiettivo rappresenta una delle cause, non certo la sola, che hanno contribuito ad allontanare i cittadini dalla politica e ad aprire le porte del Parlamento alla destra sovranista e al populismo grillino.
In particolare il grillismo è proprio il figlio del fallimento dell’offerta politica della sinistra. Una sinistra che, persi i riferimenti ideologici del XX Secolo, anziché rinnovarsi per essere in grado di governare i tumultuosi processi della globalizzazione e i relativi impatti sociali che hanno creato nuove povertà ed emarginazione, si è ripiegata su sé stessa diventando, perlopiù, il luogo autoreferenziale dei salotti buoni del narcisismo radical-chic e degli iper-garantiti.
In questo contesto, l’assenza di una visione politica autenticamente riformista in grado di contrastare la destra sovranista con le idee e il consenso dei cittadini, nonostante i vergognosi insulti ricevuti dal M5S, ha troppo spesso spinto il centrosinistra a guardare con favore a questo movimento, nella spasmodica ricerca di creare un’alleanza “contro qualcuno” e non “per fare vincere una proposta politica”.
Il misero fallimento del secondo Governo Conte, la necessità di chiamare al Governo un tecnico della levatura di Mario Draghi che fosse in grado ridare una credibilità internazionale al Paese, l’incapacità di trovare una soluzione condivisa per l’elezione del Presidente della Repubblica che non imponesse, per la seconda volta della storia repubblicana, la rielezione del Presidente in carica, ben dimostrano il fallimento di tutta la politica. Non curante di aver consegnato il Paese al disastro grillino, anziché privilegiare le competenze e le capacità, la politica continua a crogiolarsi nel cercare soluzioni che rappresentino il meno peggio, dando così la possibilità ai dei “nani” della politica di esprimersi nello splendore della loro vacuità.
Di questa dura realtà occorre prenderne atto per riprendere i fili dell’intricata matassa del riformismo italiano e iniziare a tessere la tela di quel soggetto riformista moderno, forte, coeso, tanto atteso, ma mai nato, espressione di un nuovo riformismo che, nella sostanza della sua proposta politica, faccia delle competenze, della coerenza e del pragmatismo il suo stile operativo.
Beninteso, nulla che abbia a che vedere con un indistinto e sbiadito centro politico refugium peccatorum di riciclati della politica, pronti a fare e a disfare partiti e coalizioni, a utilizzarli come dei bus sui quali salire o scendere alle diverse soste elettorali a seconda delle opportunità e delle convenienze personali.
Mi riferisco a un riformismo che non si adagi a prescrivere le ricette novecentesche, sperando che esse siano anche in grado di curare i mali di oggi e con esse poter così sventolare la bandiera del progresso.
Nel XXI Secolo il progresso è tutt’altra cosa. Oggi la sfida dei progressisti non può essere quella che si basa sulla sola azione della redistribuzione della ricchezza. In un contesto geopolitico mondiale che vede l’Italia essere “vaso di coccio fra vasi di ferro”, la sfida che bisogna vincere è innanzitutto quella di crearla la ricchezza. Viceversa sarà possibile redistribuire solo povertà e la ricchezza continuerà ad essere appannaggio di pochi. E insieme alla ricchezza occorre essere capaci di creare opportunità di crescita sociale diffusa, escludendo qualsiasi forma di crescita economica che, sull’altare dell’innovazione fine a sé stessa, discrimini ed emargini.
È una grande sfida che si vince solo con la volontà di affrontarla e di vincerla. Ma affinché questa volontà si manifesti realmente occorre bandire dal dibattito politico ogni narcisismo egocentrico, ogni tentazioni di segnare il territorio con bandierine di parte, ogni forma di cedimento all’ormai stantio conservatorismo che ancora alberga in larghe parti della sinistra. Per essere chiaro, mi riferisco a quel conservatorismo ben rappresentato da chi continua a correre volgendo perennemente lo sguardo ai fantasmi del suo passato e, forte delle tutele sociali e delle posizioni acquisite, guarda con sufficienza e un pizzico di moralistica compassione a quella moltitudine di persone sprovviste di tutele sociali; a quel conservatorismo di sinistra che continua a derubricare a soli fenomeni di devianza sociale le pericolose derive violente che, sempre di più, investono le nostre città colpendo i cittadini più deboli e indifesi. Comportamenti che, oltre a non esprimere nulla di sinistra, gettano nelle mani della destra intere fasce di popolazione in cerca di rappresentanza politica.
Le forze in campo ci sono, sono ben radicare nella società. Partendo dal basso, dai piccoli centri, dai quartieri delle città, occorre lavorare per unirle in un percorso politico che, ponendo fine alla loro frammentazione e diaspora, vada oltre le appartenenze e le singole storie. Lo richiede l’urgenza di impegnare la politica a discutere e decidere su quei grandi temi che da troppo tempo sono elusi. Ne cito alcuni: una politica energetica che concorra a diminuire la nostra dipendenza dai mercati internazionali, un programma di riconversione industriale in sintonia con una transizione ecologica che non sia demagogica e garantisca gli interessi economici del Paese, una transizione digitale che contribuisca a ridurre e non ad aumentare le differenze sociali e generazionali, una prevenzione dei rischi naturali con la conseguente messa in sicurezza del territorio, il potenziamento e l’ammodernamento tecnologico delle strutture sanitarie territoriali, in particolare in quelle aree ove è alta la dispersione della popolazione sul territorio, una maggiore efficienza dei servizi erogati a cittadini e imprese da parte della Pubblica amministrazione, un fisco equo che non favorisca l’elusione e l’evasione, che sia corretto con gli onesti e inflessibile con i disonesti. Potrei andare avanti elencando parecchi altri temi (scuola, sicurezza, giustizia, opportunità di lavoro per i giovani, ecc.), ma mi fermo qui in quanto penso di aver ben chiarito quale deve essere la differenza fra l’attuale livello della politica e ciò che serve al Paese.
Temi che, a tutti i livelli istituzionali, solo con un approccio riformista pragmatico, non dogmatico, libero da ogni forma di contrapposizione ideologica e dalla seduzione delle sirene populiste, possono e devono essere affrontati e inquadrati in soluzioni strutturali, di lungo periodo.
La partita è aperta. Chi è interessato a giocarla è necessario si attrezzi per farlo.
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