Secondo Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED)[1], in questo momento nel mondo si stanno combattendo cinquantanove conflitti.
La maggior parte di questi sono in corso da molti anni; si tratta di conflitti definiti locali, a bassa intensità, guerre civili, che ogni anno provocano migliaia e migliaia di vittime. La guerra in Ucraina è soltanto l’ultimo evento di uno scenario che già nel 2014 Papa Francesco aveva definito “la terza guerra mondiale a pezzi”, e che soltanto adesso – dopo l’invasione russa in Ucraina del 24 febbraio scorso – viene rappresentato pubblicamente.
In realtà, gli altri conflitti continuano ad essere ignorati, mentre è la guerra in Ucraina che sta occupando da oltre quattro mesi la scena pubblica, per l’impatto che inevitabilmente produce sull’intera Europa, in termini di migrazioni, crisi energetica e crisi economica.
Questa guerra, per come è scoppiata, narrata, e gestita, parla molto di ciò che è diventato l’Occidente, e ancora di più di cosa è l’Europa di fronte ad un conflitto militare che la investe direttamente.
In queste pagine, mi limito a focalizzare soltanto alcuni punti di una riflessione che ha bisogno di essere sviluppata in una dimensione multidisciplinare, che attraversi almeno filosofia, teoria politica, diritto e morale.
1.Nel corso di pochi mesi, siamo passati, senza soluzione di continuità, dall’emergenza pandemica all’emergenza bellica. Due anni fa la pandemia da Covid-19 ci aveva scoperto globalmente vulnerabili, come mai prima nella storia. Certamente, non siamo stati egualmente vulnerabili, perché le diseguaglianze sociali, di genere, generazionali e territoriali hanno colpito in modo diverso gli esseri umani; ma tutti, nello stesso tempo e nello stesso spazio del globo, siamo stati esposti ad una minaccia sinora sconosciuta, ipercontagiosa e mortale. In quel momento, siamo stati permeati dal pessimismo della ragione, impreparata all’inedita minaccia, e dall’ottimismo della volontà, che volgeva lo sguardo ad una umanità più consapevole dei propri limiti e più unita nel proprio destino. “Ne usciremo migliori”, dicevano gli ottimisti della volontà.
Alle soglie del superamento dello stato di emergenza pandemica, le posizioni si sono come rovesciate. La ragione, pur cautamente, è diventata ottimista. In tempi relativamente brevi, la scienza ci ha dotato degli strumenti per prevenire e guarire dal virus. La volontà, invece, è crollata nella nuova emergenza della guerra, che, a differenza del virus, dipende interamente da noi, dalla nostra cattiva volontà.
Le avvisaglie, in verità, c’erano state tutte. Il sintomo più evidente, e oggi potremmo dire preveggente, risiedeva nel linguaggio bellico utilizzato per raccontare la pandemia. Espressioni come “la guerra al virus”, “sconfiggere il virus”, “le armi contro il virus” costituivano la narrazione ideologica di una realtà antropomorfizzata; nonostante il virus non fosse un nemico con obiettivi militari e di conquista, ma semplicemente usava noi per riprodursi e diffondersi biologicamente, la rappresentazione bellica è servita a compattare tutti gli individui chiamati a sopportare le dure restrizioni del lockdown.
Questa campagna martellante ha lasciato il segno; l’attuale rappresentazione bellica della realtà mira a unificare l’opinione pubblica attorno all’individuazione delle cause e delle responsabilità del nuovo nemico, e alle modalità con le quali combattere una guerra, che pure noi europei non abbiamo mai dichiarato. Ma quella che si combatte in Ucraina è una guerra vera, dove si muore sotto le bombe, le persone scappano, le città sono distrutte; lo vediamo sui media, partecipiamo a distanza all’orrore, ascoltiamo esperti di geopolitica e di strategie militari come se da sempre fossimo usi ad apprendere simili informazioni e a farsi un’opinione sullo stato delle relazioni internazionali.
2.Il nostro rapporto con la guerra è cambiato rispetto a pochi decenni fa. Sto parlando dei governi e dei parlamenti europei, che ancora all’inizio del millennio riuscivano a prendere le distanze rispetto all’ingerenza degli Stati Uniti nei paesi del Golfo (in ultimo, la guerra in Iraq del 2003, che abbiamo recentemente verificato essersi fondata sulla menzogna della presenza di armi chimiche), intervenivano per ripristinare il cessate il fuoco tra ebrei e palestinesi nella Striscia di Gaza, ma che ora si sono dimostrati incapaci non solo di intraprendere, ma persino di pensare una via alternativa a quella militare per fermare l’invasione russa. Dal febbraio scorso, l’Europa, nel raccontare ogni giorno le battaglie sul campo e la valorosa resistenza ucraina, ha come riscoperto l’esaltazione e la bellezza della guerra, di cui aveva parlato pochi anni fa Alessandro Baricco evocando l’Iliade[2]. Nell’Iliade la guerra è uno sbocco quasi naturale della convivenza civile; il poema canta la bellezza della guerra e ci ricorda che per millenni la guerra è stata per gli uomini la circostanza in cui l’intensità della vita si sprigionava in tutta la sua potenza e verità. E ancora oggi, dice Baricco, si continua con guerre combattute per procura “tradendo una sostanziale incapacità a trovare un senso, nella vita, che possa fare a meno di quel momento di verità”. Anche adesso, siamo immersi nella “bellezza” e nella “verità” di questa guerra per procura, che sembra però necessaria a dare senso all’esistenza di noi europei, minacciati nel nostro primo valore della libertà.
3.“Si vis pacem, para bellum”, si è tornati a dire con gli antichi latini, come se decenni di pensiero e pratica della pace non fossero mai esistiti. Non solo. Parlare di pace è diventato nel migliore dei casi utopia di anime belle; nel peggiore, è sostegno all’aggressore e complicità col nemico. Chi non apprezza questa guerra, è traditore dei valori democratici e occidentali. Esprimere dissenso significa essere equidistanti, chiedere la resa dell’Ucraina, assumere una posizione di “comodo terzismo”, essere filoputiniani (le liste di proscrizione di coloro che osano anche solo alimentare il dubbio si sprecano sui grandi giornali italiani), avere nostalgia dell’URSS, essere la solita sinistra antiamericana che guarda al passato. Potremmo continuare a lungo con i cahiers di denigrazioni che portano diretti alla censura.
La deformazione strumentale del pensiero della pace, operata da questi nuovi stereotipi della politica europea, è sconcertante. Infatti, chiunque abbia studiato e/o praticato operazioni di peace-building e peace-keeping sa quanto queste pratiche non siano mai uguali tra loro, quanto sia importante conoscere la storia e le reali condizioni di un conflitto, come sia deleterio guardare indietro. Un operatore di pace sa che, davanti ai morti di una guerra, rivendicare altre aggressioni e altre vittime non serve a niente; al contrario, è proprio chi vuole la guerra a tornare con gli occhi al passato. Solo qui ed ora possono essere trovate le ragioni della pace, le condizioni di una pace giusta e duratura. La pace può essere costruita soltanto guardando al futuro, e mai al passato, come dimostrano gli esempi illuminanti di Sudafrica, Rwanda e Kosovo.
4.Ma per perseguire il cessare il fuoco, per rendere realistico il ritorno alla pace, c’è bisogno di un soggetto terzo rispetto alle parti in conflitto: un terzo che ascolta i contendenti, guida il confronto, aiuta l’identificazione dei punti sui quali è possibile trovare un accordo. Questo soggetto terzo dovrebbe avere l’autorevolezza che gli deriva dall’imparzialità e dalla fiducia delle parti in causa circa la volontà autentica di cercare la fine del conflitto; dovrebbe agire con l’indipendenza di chi assume il punto di vista dell’umanità nella sua totalità, ovvero il punto di vista del rispetto dei diritti umani, così come esplicitati nella Dichiarazione universale dei diritti approvata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Dovrebbe essere l’ONU il soggetto che dirime i conflitti, che interviene per riportare la pace con il mandato derivante dal proprio Statuto. Ma le Nazioni Unite, che sono riuscite ad esercitare questo ruolo in una serie di conflitti locali, sono continuamente indebolite e delegittimate dalla volontà dei paesi più forti di far prevalere le proprie ragioni, tramite l’esercizio del potere di veto.
Anche nella guerra in Ucraina pare essere confermata l’impotenza delle Nazioni Unite, ma non dobbiamo fermarci davanti alle apparenze. E’ vero che subito dopo l’invasione russa una bozza di risoluzione che la condannava è stata respinta, mentre solo a maggioranza l’assemblea generale ha condannato la Russia e intimato il ritiro delle truppe. Ma pochissimi sanno che il 6 maggio scorso il Consiglio di Sicurezza ha approvato all’unanimità una risoluzione nella quale si “manifesta profonda preoccupazione per la pace e la sicurezza dell’Ucraina” e, dopo aver richiamato gli obblighi di tutti gli Stati membri “a gestire le loro controversie internazionali con mezzi pacifici”, esprime “un forte sostegno agli sforzi del Segretario Generale volti a trovare una soluzione pacifica”[3]. Questo testo, approvato anche dalla Russia, dovrebbe essere il punto di riferimento per la politica internazionale, impegnata a fermare la guerra in Ucraina. Invece, in tutte le altre sedi, si continua a procedere in direzione ostinata e contraria: l’Unione europea implementa l’invio di armi all’Ucraina, il G7 parla della Russia come della nuova minaccia globale, alla stregua del terrorismo islamico di inizio millennio, la NATO prosegue nella sua avanzata verso est attivando le procedure per l’ingresso di Svezia e Finlandia.
5.Con questa guerra il valore della neutralità è stato delegittimato. L’abbandono dello stato di neutralità da parte di Stati che stanno tra Europa e Russia, l’istanza dell’Ucraina di entrare nella NATO, restituiscono la situazione di un mondo che sta precipitando verso la polarizzazione di sfere d’influenza e verso lo scontro di civiltà[4]. E’ vero che il concetto di neutralità di uno Stato, codificato nelle Convenzioni dell’Aja del 1907, è stato profondamente modificato dallo Statuto delle Nazioni Unite, che introduce una sorta di obbligo di solidarietà di tutti gli Stati membri in presenza di una violazione del diritto internazionale. Ma questo non ha niente a che fare con la partecipazione ad alleanze militari, che suddividono il mondo in blocchi; la solidarietà interna alle alleanze provoca inevitabili allargamenti dei conflitti, oggi potenzialmente globali, oltre che un pericoloso avvicinamento tra aree ostili militarizzate. L’ordine (o disordine) mondiale che si sta ridefinendo a seguito dei movimenti tettonici della faglia orientale, senza, per ora, una Conferenza internazionale di pace, ma soltanto con i posizionamenti militari o economici delle diverse parti in gioco, potrebbe decidere di fare a meno di aree neutrali e denuclearizzate; si tratta di tema di riflessione importante, che non può sfuggire agli studiosi delle relazioni internazionali e del diritto internazionale. Roland Barthes definiva il neutro come “ciò che elude il paradigma”[5], ovvero come ciò che sfugge alle catalogazioni, alle irreggimentazioni, alle costruzioni di senso; il neutro tiene aperte altre possibilità. Ne abbiamo un drammatico bisogno.
6.Per finire, a beneficio di chi condivide le politiche dei governi europei: la Russia ha compiuto una grave violazione internazionale, invadendo l’Ucraina, e molti sono gli atti all’attenzione della Commissione istituita presso l’ONU per valutare anche la sussistenza di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità. Ma ad oltre quattro mesi dall’inizio del conflitto, con una situazione sul campo sempre più pesante e un possibile e pericoloso backlash della resistenza ucraina rispetto ai primi mesi, è lecito porre almeno la domanda sul tempo che ancora dovrà passare prima di un cessate il fuoco? Oppure dobbiamo continuare inerzialmente a inviare ancora armi, più offensive e letali, e a militarizzare i confini orientali dell’Europa per costruire una nuova cortina di ferro, pur sapendo che la presenza di missili nucleari a lunga gittata vanifica ogni sforzo in tal senso? E’ disdicevole richiamare il fatto – ormai acquisito nel pieno della Guerra Fredda – che una guerra tra potenze nucleari non la vince nessuno, ma la perdono tutti? E’ possibile avviare un vero e proprio negoziato – non quelli improbabili gestiti da Turchia e Israele – presso le Nazioni Unite, che già stanno lavorando per la gravissima crisi umanitaria determinata dalla guerra? Oppure dobbiamo aspettare che si concluda il regolamento dei conti a distanza tra USA e Cina, per l’accaparramento di territori e risorse, utili ad affrontare la prossima vera e potenzialmente catastrofica crisi energetica?
Per dare voce a queste domande, è nata una rete italiana di persone che, impegnate da tempo e su vari fronti per l’affermarsi di una politica di pace, si sono ritrovate nelle parole di Papa Francesco il quale, nell’omelia del 1° maggio, ha detto: “Di fronte a questo macabro regresso dell’umanità mi chiedo, insieme a tante persone, se si stia veramente ricercando la pace, se ci sia la volontà di evitare la escalation militare e verbale. Non ci si arrenda alla logica della violenza perversa, si depongano le armi e si imbocchi la via del dialogo e della pace”. La Rete, denominata Costruttori di Pace, è stata promossa da Luigi De Giacomo[6], attivista dei beni comuni, che purtroppo ci ha appena lasciato, consegnandoci questo testimone.
La Rete si propone di mettere in comunicazione le tante esperienze di pace e di nonviolenza presenti nel nostro paese, di unirle in un appello da rivolgere al Presidente della Repubblica, affinché l’Italia assuma il ruolo di costruttrice di pace, in coerenza con l’articolo 11 della Costituzione – laddove si dichiara che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” – , istituisca un Ministero per la Pace, e spinga anche l’Europa in questa direzione, secondo l’auspicio degli autori del Manifesto di Ventotene “Per un’Europa libera e unita”.
La Rete è mossa da quella speranza, che è l’ultima a morire, e dall’ottimismo di una volontà rivolta a ciò che resta di umano, nel mondo.
- Daniela Belliti è PhD Filosofia Politica e Sociale, Università di Milano-Bicocca
[1] https://acleddata.com/#/dashboard .
[2] A. Baricco, Omero, l’Iliade, Feltrinelli 2004 p. 162.
[3] https://news.un.org/en/story/2022/05/1117742
[4] Il famoso saggio di S. Huntington era uscito su «Foreign Affairs» nel 1993. E’ stato tradotto in Italia con il titolo Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta, Garzanti 2000. Recentemente è uscito in nuova ristampa.
[5] R. Barthes, Il Neutro. Corso al Collège de France 1977-1978, Mimesis 2022.
[6] Luigi De Giacomo, nato a Napoli il 22 febbraio 1967, ha fondato nel 2012 il movimento politico “Aurora Mediterranea”, e nel 2013 si candidò per le elezioni politiche nelle liste del MIR (Movimento in Rivoluzione). Impegnato nella difesa della Costituzione, ha guidato in Campania il Comitato per il No al referendum sulla riforma costituzionale del 2016. E’ stato Segretario Nazionale del Comitato Popolare in Difesa dei Beni Pubblici e Comuni “Stefano Rodotà”, promuovendo con Ugo Mattei la raccolta delle firme sul DDL beni comuni e la sottoscrizione popolare per la costituzione della cooperativa Generazioni Future, che avrebbe dovuto rappresentare un modello economico diverso per la gestione dei beni pubblici. Ci ha lasciato per una grave malattia il 4 luglio di quest’anno.
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