Signor Presidente, Onorevoli Deputati,
ringrazio la Commissione quinta della Camera per avere invitato la Banca d’Italia a questa audizione. Nel mio intervento mi soffermerò su tre aspetti: la struttura e le caratteristiche finanziarie del nuovo strumento Next Generation EU (di cui il Recovery and Resilience Facility, o Dispositivo per la ripresa e la resilienza, è la componente principale); il possibile impatto macroeconomico dell’utilizzo delle risorse messe a disposizione dal programma; le aree in cui l’economia italiana ha accumulato i ritardi maggiori.
- Il programma Next Generation EU
Lo scorso 21 luglio il Consiglio europeo ha raggiunto un accordo sull’introduzione di un nuovo strumento, denominato Next Generation EU, e sul quadro finanziario pluriennale dell’Unione europea per il periodo 2021-27.
Nell’ambito di Next Generation EU l’Unione potrà reperire risorse sul mercato dei capitali per 750 miliardi di euro; il debito dovrà essere rimborsato entro il 2058. Le risorse raccolte saranno destinate alla concessione di trasferimenti (per 390 miliardi) e prestiti (360 miliardi) agli Stati membri, soprattutto a quelli in cui le conseguenze economiche della pandemia da Covid-19 sono più marcate.
Quasi il 90 per cento delle risorse del programma (312,5 miliardi di trasferimenti e tutti i 360 di prestiti) verrà veicolato attraverso il Dispositivo per la ripresa e la resilienza. I paesi dovranno impegnare i trasferimenti ricevuti dal Dispositivo entro il 2023 (il 70 per cento va impegnato già entro il 2022).
Per richiedere i fondi del Dispositivo i paesi dovranno predisporre appositi “Piani nazionali per la ripresa e la resilienza”, che definiscano riforme e investimenti per i prossimi quattro anni. La Commissione Europea valuterà i Piani entro due mesi dalla presentazione, tenendo conto della loro coerenza con le annuali “Raccomandazioni specifiche per paese”, del loro contributo alle “transizioni verde e digitale”, della loro efficacia nel rafforzare il potenziale di crescita, l’occupazione e la resilienza sociale ed economica dei paesi che li presentano. La valutazione dei Piani dovrà poi essere approvata a maggioranza qualificata dal Consiglio europeo.
L’effettiva erogazione dei fondi, che non potrà avvenire oltre il 2026, sarà subordinata al soddisfacente conseguimento di obiettivi intermedi e finali specificati nei Piani. La Commissione valuterà tale conseguimento, dopo aver sentito il parere del Comitato Economico e Finanziario. Qualora uno o più Stati membri ritengano che gli obiettivi non siano stati adeguatamente conseguiti, essi potranno chiedere al Consiglio europeo di discutere la questione in modo esaustivo. Di norma tale esame non dovrà richiedere più di tre mesi; durante l’esame l’erogazione dei fondi sarà sospesa.
La parte delle risorse di Next Generation EU non distribuita attraverso il Dispositivo (77,5 miliardi) finanzierà vari programmi comunitari:
47,5 miliardi sono destinati a interventi mirati a lenire le conseguenze di breve-medio periodo della crisi (programma REACT-EU), 10 a misure volte a compensare i costi economici della transizione ambientale (Fondo per una transizione giusta), 7,5 a interventi per le zone rurali (Sviluppo rurale), 5,6 alla promozione degli investimenti privati (InvestEU), 5 alla ricerca e all’innovazione in campo sanitario e ambientale (Orizzonte Europa) e 1,9 a rafforzare i sistemi nazionali di protezione civile (RescEU).
Al momento non esistono stime ufficiali circa la ripartizione dei fondi del nuovo strumento tra paesi.
Per quanto riguarda i prestiti, di norma ciascuno Stato potrà ottenere un ammontare non superiore al 6,8 per cento del proprio reddito nazionale lordo; per l’Italia, utilizzando le previsioni della Commissione europea per il 2021, si tratterebbe di circa 120 miliardi. I finanziamenti effettivamente concessi potrebbero essere inferiori a questo limite massimo, dato che il 6,8 per cento del reddito nazionale lordo previsto per i 27 paesi dell’Unione per il prossimo anno è pari a circa 950 miliardi, oltre due volte e mezzo la dotazione di Next Generation EU per i prestiti. D’altra parte, è verosimile che solo alcuni paesi, quelli con costi di finanziamento più elevati, richiederanno di accedere ai prestiti del nuovo strumento.
L’accordo non specifica la durata e il tasso dei finanziamenti concessi dall’Unione europea ai paesi membri attraverso il Dispositivo. Il rendimento sul mercato secondario delle obbligazioni dell’Unione con scadenza residua intorno a 10 anni è pari attualmente a circa -0,1 per cento. Si può valutare che, se tale tasso fosse applicato ai finanziamenti destinati al nostro paese,
il pieno utilizzo (per 120 miliardi) dei prestiti del Dispositivo comporterebbe una spesa per interessi inferiore di circa 1,3 miliardi in media all’anno nell’arco di un decennio rispetto a quella connessa con l’emissione di BTP decennali per pari importo (il rendimento per questi titoli è attualmente pari a poco più dell’1 per cento).
Per quanto riguarda i trasferimenti del Dispositivo da impegnare entro il 2022 (quasi 219 miliardi) la ripartizione sarà funzione di tre variabili:
il PIL pro capite del 2019, la popolazione in quello stesso anno e il tasso di disoccupazione medio del periodo 2015-19. Per la quota residua da impegnare nel 2023 (oltre 93 miliardi) la ripartizione sarà funzione delle prime due variabili utilizzate per distribuire la tranche precedente, della “perdita del PIL reale osservata nell’arco del 2020” e di quella cumulata nel biennio 2020-2021. Le formule di calcolo non sono ancora note.
Nel definire il quadro finanziario pluriennale per il 2021-2027 il Consiglio europeo di luglio ha stabilito che, escludendo il nuovo strumento Next Generation EU, la spesa per l’intero periodo avrà un massimale di 1074,3 miliardi. In media annua la spesa è pari all’1,1 per cento del reddito nazionale lordo della UE a 27 paesi, contro un valore di poco inferiore all’uno per cento del reddito della UE a 28 paesi tra il 2014 e il 2019; l’aumento riflette sostanzialmente la necessità di compensare gli effetti finanziari dell’uscita del Regno Unito dall’Unione. La spesa sarà interamente coperta da introiti derivanti dalle risorse proprie dell’Unione (le entrate della UE) già esistenti. In termini annui le entrate proprie non potranno superare l’1,4 per cento del reddito nazionale lordo dei 27 paesi dell’Unione europea.
Attualmente, le principali entrate dell’Unione provengono da: dazi doganali (al netto di una quota del 20 per cento trattenuta dagli Stati membri a compensazione dei costi di riscossione), compartecipazioni al gettito dell’Iva dei paesi membri e contributi proporzionali al reddito nazionale lordo di ciascuno Stato membro. Per quanto riguarda queste ultime due voci per alcuni paesi sono state introdotte nel tempo delle correzioni al ribasso rispetto agli importi ottenuti con il criterio della proporzionalità (“rebates”). Mentre la bozza del quadro finanziario pluriennale proposta inizialmente della Commissione prefigurava una graduale eliminazione delle correzioni, il Consiglio le ha confermate, aumentandone la misura annua per tutti i paesi che ne godono tranne che per la Germania. Il Consiglio ha altresì deciso di aumentare dal 20 al 25 per cento la quota dei dazi doganali trattenuta dagli Stati membri (la Commissione ne proponeva la riduzione al 10 per cento).
Il Trattato dell’Unione europea (che rimane invariato) impone che il bilancio comunitario sia in pareggio.
Per garantire il rimborso dei debiti contratti per finanziare NGEU l’accordo di luglio prevede un innalzamento temporaneo del limite annuo delle risorse proprie (di 0,6 punti percentuali del reddito nazionale lordo) e stabilisce che nei prossimi anni l’Unione si doterà di nuove imposte comunitarie.
Dal 1° gennaio del 2021 sarà introdotta un’imposta sugli imballaggi in plastica non riciclati. Nel primo semestre dello stesso anno verranno presentate proposte relative a un prelievo commisurato al “contenuto di carbonio” delle importazioni (una sorta di carbon tax) e a uno da applicare alla digital economy; la loro effettiva introduzione dovrebbe avvenire entro il 1° gennaio del 2023. La Commissione avanzerà anche una proposta di riforma dell’attuale sistema di scambio di “permessi di emissione” (attualmente i proventi derivanti dall’operare di questo mercato affluiscono ai bilanci degli Stati membri), eventualmente estendendolo al trasporto aereo e marittimo. Secondo le valutazioni della Commissione europea formulate lo scorso maggio tali imposte potrebbero determinare entrate aggiuntive per il bilancio dell’Unione pari a oltre 25 miliardi all’anno.
Per essere operativo, l’accordo raggiunto in sede di Consiglio deve ora ottenere l’approvazione del Parlamento Europeo; la decisione di aumentare il limite massimo delle risorse proprie dell’Unione dovrà inoltre essere ratificata da ognuno degli Stati membri secondo le rispettive procedure costituzionali.
L’Ufficio parlamentare di bilancio ha stimato che per l’Italia il saldo tra i trasferimenti ricevuti nell’ambito di Next Generation EU e la quota nazionale delle nuove risorse necessarie per il rimborso dei debiti dell’Unione sarebbe pari a circa 46 miliardi in valore attuale, il più elevato tra i paesi membri.
Come ho ricordato, l’erogazione dei fondi del Dispositivo per la ripresa e la resilienza dovrà avvenire entro il 2026, mentre il rimborso dei debiti contratti dall’Unione europea dovrà essere completato entro il 2058. Dal punto di vista dei singoli paesi la struttura temporale dei flussi finanziari è quindi assimilabile a quella di un prestito a lunga scadenza. Per l’Italia, che riceverà dal Dispositivo trasferimenti superiori ai contributi che dovrà fornire per l’aumento delle risorse proprie dell’Unione, si tratta di un prestito a tasso negativo. In particolare, se si ipotizza che l’ammontare e il profilo temporale dei trasferimenti e dei contributi italiani siano quelli stimati dall’UPB, tale tasso sarebbe dell’ordine del -2,5 per cento; il risparmio di spesa rispetto all’emissione di titoli di Stato per 87 miliardi (ipotizzando un rendimento medio in linea con quello dei titoli ventennali, attualmente pari all’1,6 per cento) ammonterebbe a circa 3,5 miliardi in media all’anno nell’arco di poco più di un trentennio.
- I possibili effetti macroeconomici del programma Next Generation EU
L’impatto macroeconomico di Next Generation EU dipenderà da diversi fattori. In particolare, oltre all’entità delle risorse che saranno effettivamente mobilitate, rileveranno: la natura aggiuntiva o sostitutiva degli interventi finanziati con il programma rispetto alle misure già approvate; la ripartizione fra le diverse voci del bilancio (data l’eterogeneità dei rispettivi “moltiplicatori”); il grado di efficienza nell’attuazione dei vari progetti.
L’incertezza riguardo agli effetti del nuovo strumento europeo sull’economia italiana è dunque al momento molto elevata, date le limitate informazioni disponibili sull’ammontare delle risorse che verranno concesse e sul loro utilizzo. Per ottenere indicazioni sul possibile ordine di grandezza di tali effetti sono state condotte due simulazioni con il modello econometrico della Banca d’Italia basate su scenari caratterizzati da ipotesi diverse sulla quota di risorse comunitarie destinate a finanziare misure aggiuntive e sulla composizione degli interventi. Entrambi gli scenari presuppongono che i fondi disponibili per l’Italia, che si assumono pari a 120 miliardi per i prestiti e a 87 per i trasferimenti, siano utilizzati pienamente e senza inefficienze, con una distribuzione della spesa uniforme nel quinquennio 2021-2025.
Nel primo scenario si ipotizza che tutte le risorse vengano utilizzate per attuare interventi aggiuntivi rispetto a quelli già programmati e che questi riguardino integralmente progetti di investimento, la forma di spesa pubblica che in base all’evidenza empirica fornisce lo stimolo più elevato alla crescita del prodotto in condizioni normali. Le maggiori spese ammonterebbero a oltre 41 miliardi all’anno e potrebbero tradursi in un aumento cumulato del livello del PIL di circa 3 punti percentuali entro il 2025, con un incremento degli occupati di circa 600.000 unità. Va rilevato che questo scenario presuppone uno sforzo notevole in termini di progettazione e di capacità di esecuzione degli investimenti: si tratterebbe di raddoppiare la spesa effettuata nel 2019 (40,5 miliardi; tra il 2000 e il 2019 la spesa media annua per investimenti è stata pari a 43,5 miliardi, risultando peraltro sistematicamente inferiore a quella programmata, anche per la difficoltà di preparare e gestire i progetti).
Nel secondo scenario si ipotizza che una parte rilevante delle risorse, pari al 30 per cento, venga utilizzata per misure già programmate e che la parte rimanente venga destinata solo per circa due terzi a finanziare direttamente nuovi progetti di investimento. Sotto queste ipotesi gli interventi aggiuntivi ammonterebbero a circa 29 miliardi all’anno, di cui solo 19 per investimenti. L’impatto cumulato sul livello del PIL raggiungerebbe quasi 2 punti percentuali nel 2025.
Queste stime riflettono i valori medi dei moltiplicatori per le principali voci di spesa e di entrata impliciti nel modello econometrico e pertanto non tengono conto della possibilità che in un contesto di forte debolezza economica come quello attuale l’impatto delle misure di bilancio possa rivelarsi più elevato di quanto osservato, in media, storicamente. Le stime inoltre non incorporano gli effetti positivi che potranno scaturire dalla maggiore domanda attivata da analoghi programmi negli altri paesi europei.
Nel valutare questi scenari va anche considerato, in un’ottica di più lungo periodo, che l’espansione di capitale pubblico e il miglioramento della qualità dei servizi forniti alle imprese e ai cittadini possono riverberarsi favorevolmente anche sulla redditività del capitale privato e sulla produttività totale del sistema economico, innalzandone il potenziale di crescita.
Per contro si possono immaginare scenari con effetti sul PIL più contenuti, nel caso ad esempio di un ricorso solo parziale a Next Generation EU, di una quota maggiore di risorse destinata a interventi già programmati o di una composizione della spesa meno favorevole alla crescita. Inoltre gli effetti ipotizzati presuppongono, come ricordato, l’uso efficiente delle risorse disponibili; l’esperienza suggerisce che affinché ciò avvenga serve una netta discontinuità con quanto osservato in passato.
Per valutare in modo approssimato le implicazioni di una ridotta efficienza nella spesa per investimenti, si possono effettuare simulazioni in cui solo metà della spesa comporta un incremento dello stock di capitale pubblico, mentre la parte rimanente resta “improduttiva”, con un minore impatto sull’attività economica. Sotto queste ipotesi l’effetto cumulato sul livello del PIL nel 2025 si ridurrebbe a circa 2 punti percentuali per il primo scenario e a 1,5 per il secondo.
È indispensabile che l’utilizzo delle risorse di Next Generation EU si accompagni a una prospettiva di equilibrio di lungo periodo delle nostre finanze pubbliche e che non insorgano timori da cui possano derivare tensioni sui titoli di Stato del Paese. Va ricordato che, nonostante le favorevoli condizioni finanziarie a cui sono disponibili le risorse del nuovo strumento, l’Italia, terzo paese dell’Unione, sarà chiamata a contribuire significativamente al finanziamento del programma, oltre che a restituire i fondi presi in prestito. Anche per questo sarà cruciale garantire un impiego efficiente delle risorse, che possa contribuire a rilanciare le prospettive di crescita della nostra economia e, per questa via, anche contenere il peso del debito sul prodotto. Next Generation EU fornisce una importante occasione, da non disperdere.
- I ritardi dell’economia italiana
Le risorse del nuovo strumento europeo possono contribuire ad avviare il recupero dei ritardi accumulati dall’economia italiana negli ultimi trenta anni. Si tratta di fenomeni analizzati ripetutamente nelle pubblicazioni della Banca d’Italia e negli interventi del Governatore e degli altri membri del Direttorio. In questa sede, senza pretesa di esaustività, ripercorrerò brevemente le principali riflessioni che sono state condotte anche nel recente passato, indicando le fonti utili per ulteriori approfondimenti.
Il principale problema della nostra economia è, da oltre 20 anni, quello della bassa crescita, a sua volta riflesso della debole dinamica della produttività. Date le dinamiche demografiche, ipotizzando che la partecipazione femminile al mercato del lavoro e l’allungamento della vita lavorativa proseguano lungo tendenze simili a quelle registrate negli ultimi dieci anni, nel prossimo decennio il contributo dell’occupazione alla crescita potrà superare di poco il mezzo punto percentuale all’anno. Per riportare la dinamica del PIL almeno all’1,5 per cento, il valore medio annuo registrato nei dieci anni precedenti la crisi
finanziaria globale, servirà quindi un incremento medio della produttività del lavoro di quasi un punto percentuale all’anno.
I ritardi di produttività accumulati non possono essere colmati con politiche monetarie e di bilancio espansive. Queste sono misure di stabilizzazione macroeconomica fondamentali per conseguire livelli adeguati di domanda aggregata, favorire la piena occupazione e mantenere la stabilità dei prezzi, ma non possono di per sé innalzare la dinamica della produttività nel lungo periodo.
Come ha ricordato in più occasioni il Governatore Visco, va certamente recuperato il ritardo accumulato nelle infrastrutture tradizionali, da rinnovare e rendere funzionali, ma è possibile individuare almeno tre macro aree nelle quali gli interventi appaiono altrettanto urgenti.
La prima riguarda la pubblica amministrazione, che deve migliorare nella qualità e nei tempi dei servizi offerti, potenziando le capacità tecniche delle amministrazioni centrali e locali, puntando in particolare ad assicurare tempestivamente il pieno rispetto delle regole. Un tale cambiamento richiede investimenti tanto in tecnologia quanto in capitale umano. L’esperienza maturata con la crisi ha indicato la strada, mostrando la necessità di accelerare la digitalizzazione di tutti i processi e di ripensarne l’organizzazione. Il più elevato turnover atteso nei prossimi anni rende possibile l’ingresso di nuove risorse con un bagaglio di competenze più aggiornate. Il disegno di piani di assunzioni di medio-lungo periodo con concorsi da svolgere con cadenza regolare consentirebbe di selezionare su più coorti i giovani più competenti e motivati.
Secondo l’indice DESI della Commissione europea relativo alla fornitura di servizi pubblici digitali l’Italia, con un punteggio di 67,5/100 (la media per la UE a 28 paesi è 72/100), si trova al diciannovesimo posto nell’Unione. Tra le principali economie l’Italia precede la Germania ma è dietro a Francia, Spagna e Regno Unito; ci seguono in graduatoria anche la Grecia e alcuni paesi dell’Europa orientale. Il risultato risente in particolare dello scarso livello di interazione online tra le Amministrazioni pubbliche e i cittadini un ritardo spiegato da fattori sia di domanda (sono pochi gli utenti che si rivolgono alla PA mediante canali digitali), sia di offerta (ad esempio, la ridotta disponibilità di moduli precompilati).
Al ritardo nell’offerta di servizi digitali potrebbe aver contribuito la composizione demografica della forza lavoro pubblica. Nel 2018 l’età media dei dipendenti pubblici era superiore a 50 anni, oltre 7 in più rispetto al 2001.
La seconda area è quella dell’innovazione. Investimenti privati nella manifattura e nei servizi volti ad accrescere la produttività potranno essere favoriti da programmi pubblici per la realizzazione di infrastrutture abilitanti di nuova generazione e in settori ad alto contenuto innovativo, nonché nella qualità del capitale umano e della ricerca. Al completamento della copertura del territorio con rete fissa a banda larga ultraveloce va affiancata l’accelerazione della transizione verso un’economia più rispettosa dell’ambiente e con minori emissioni di gas inquinanti, ad esempio con investimenti per la riqualificazione dei trasporti pubblici e l’efficienza energetica dei fabbricati e degli stabilimenti produttivi, nonché per il corretto smaltimento dei rifiuti. Altrettanto importante è il miglioramento della qualità della scuola e dell’università, da perseguire dedicando maggiori risorse al diritto allo studio e al sostegno della ricerca.
La digitalizzazione, la “transizione verde” e il futuro delle giovani generazioni sono del resto le priorità di Next Generation EU; tutti gli interventi attuati grazie al nuovo strumento europeo andrebbero inquadrati in un disegno organico di riforma volto a costruire un Paese più dinamico e inclusivo verso le nuove generazioni.
Nelle valutazioni della Commissione europea l’Italia è al diciassettesimo posto tra i paesi dell’Unione per grado di sviluppo delle connessioni. La rete fissa a banda larga ultraveloce copre il 30 per cento delle famiglie, contro il 44 per cento della media europea, con una penalizzazione particolarmente accentuata nel Mezzogiorno, in cui solo una famiglia su cinque può contare su una velocità di connessione pari ad almeno 100 Mb/s.
Tra i fattori che determinano il ritardo tecnologico del nostro paese vi è il basso livello di investimenti in ricerca e sviluppo che in Italia hanno rappresentato, tra il 2015 e il 2018, solo l’1,4 per cento del PIL, a fronte del 2,2 registrato nell’Unione europea. Il divario riflette ritardi sia del settore pubblico, sia del settore privato (gli investimenti annui per abitante in ricerca e sviluppo ammontano a 235 euro, poco più della metà della media UE).
Non è maggiore la propensione a investire nelle “green technologies”: secondo gli indicatori elaborati dalla Commissione Europea (Eco-Innovation Index) relativi al 2018, l’Italia si colloca al di sotto della media dell’Unione Europea per la spesa in ricerca e sviluppo nelle tecnologie finalizzate a migliorare l’efficienza energetica, l’uso delle energie rinnovabili e la salvaguardia dell’ambiente (diciassettesima tra i paesi europei con riferimento alle risorse impiegate e sedicesima con riferimento all’introduzione di innovazioni di processo o di prodotto che apportano benefici all’ambiente).
Nonostante alcuni progressivi miglioramenti, anche i livelli di istruzione rimangono contenuti nel confronto internazionale: nel 2019 il 19,6 per cento della popolazione italiana di età compresa tra i 25 e i 64 anni aveva conseguito un titolo di studio terziario, a fronte del 31,6 per cento nella media dell’Unione europea. Anche tra i giovani di 25-34 anni la quota di laureati (27,7 per cento) rimane molto al di sotto della media europea (39,4 per cento).
La scarsità di investimenti in istruzione, da una parte, e in innovazione, dall’altra, rischia di innescare un circolo vizioso che amplifica il ritardo produttivo del Paese. La ridotta propensione a investire in nuove tecnologie delle imprese italiane risulta ulteriormente frenata dalla difficoltà delle imprese a reperire competenze adeguate nel mercato del lavoro; il minore rendimento dell’istruzione che ne consegue limita gli incentivi dei giovani a proseguire negli studi e incoraggia l’emigrazione di una quota rilevante dei più qualificati.
La terza area da considerare riguarda la salvaguardia e valorizzazione del nostro patrimonio naturale e storico-artistico, che costituisce l’identità stessa dell’Italia. La crisi del settore turistico ne ha reso immediatamente percepibile la rilevanza anche economica. Esso può essere preservato e reso fruibile sfruttando maggiormente le nuove tecnologie.
Al turismo è direttamente riconducibile, rispettivamente, più del 5 per cento del PIL e oltre il 6 dell’occupazione. Negli ultimi anni il settore ha trainato la dinamica dell’occupazione (tra il 2013 e il 2019 ha contribuito per il 18,9 per cento alla crescita del numero di dipendenti). Nel 2020 il comparto è stato tra quelli che hanno risentito maggiormente della pandemia e delle misure introdotte per contenere la diffusione del virus; ha mostrato primi segnali di ripresa nei mesi di luglio e agosto, soprattutto grazie ai flussi turistici nazionali. L’impatto complessivo, solo in parte valutabile con i dati attualmente a disposizione, è comunque tale da accrescere il rischio di uscita per molte imprese.
Dato che le difficoltà italiane sono amplificate nel Mezzogiorno gli effetti di un’azione di rinnovamento dell’amministrazione pubblica, delle infrastrutture, tradizionali e innovative, della scuola possono essere particolarmente rilevanti al Sud. Nelle regioni meridionali deve innanzitutto migliorare l’ambiente in cui le imprese operano, in primo luogo con riferimento alla tutela della legalità. È più ampio il ritardo tecnologico da colmare, inferiore l’efficacia delle politiche pubbliche, più difficoltoso il completamento degli investimenti.
Nel 2014 il 55 per cento dei reati contro la PA registrati dalle forze dell’ordine risultava commesso al Sud, con un’incidenza rispetto alla popolazione residente 2,3 volte più elevata che nel resto del Paese. La realizzazione delle opere pubbliche richiede tempi più lunghi, in particolare per le attività amministrative connesse. Inoltre, il 70 per cento delle “opere incompiute” è localizzato in queste regioni, alle quali fa capo solo il 30 per cento circa dei lavori pubblici.
Il Mezzogiorno sta subendo un impoverimento per l’emigrazione delle risorse più giovani e preparate, in massima parte verso il Centro Nord del Paese. Nel periodo 2007-2015 le iscrizioni universitarie nel Sud e nelle Isole sono calate del 25 per cento. Nello stesso periodo, circa il 10 per cento degli iscritti nelle facoltà del Centro-Nord proveniva dalle regioni del Mezzogiorno. Nell’ultimo decennio, quasi 240.000 laureati tra i 25 e i 44 anni hanno lasciato queste regioni, per la maggior parte diretti verso il Centro-Nord (circa l’84 per cento), sebbene risultino in forte aumento anche i flussi migratori verso l’estero. È una tendenza che comporta costi sociali immediati e che condiziona negativamente le prospettive di sviluppo. Il continuo drenaggio di forza lavoro qualificata appare già frenare l’attività imprenditoriale. L’emigrazione dei più giovani, associata alla bassa natalità, determina inoltre un progressivo invecchiamento della popolazione che, nel lungo periodo, potrebbe minacciare il potenziale di crescita del Mezzogiorno.
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Una stima puntuale dei benefici finanziari di Next GenerationEU per i paesi dell’Unione europea non è possibile data l’incompletezza dell’informazione sui meccanismi di ripartizione dei trasferimenti e delle risorse da destinare al rimborso del debito dell’Unione. Si può tuttavia affermare con ragionevole certezza che tali benefici potranno essere molto rilevanti per il nostro paese.
In ogni caso, l’accordo raggiunto nel Consiglio europeo dello scorso luglio non è l’esito di un gioco a somma zero, dove al guadagno di un paese corrisponde la perdita di un altro: quello che conta è che “per la prima volta nella sua storia l’Unione europea si è dotata di una sostanziale capacità di indebitamento comune da utilizzare per contrastare gli shock economici avversi e per raggiungere obiettivi concordati” (26). Un’architettura comune più solida e adeguata è, evidentemente, un vantaggio per tutti. Il fatto stesso che l’accordo sia stato votato all’unanimità indica che tutti i paesi hanno ritenuto che esso migliori il loro benessere di lungo periodo.
Al di là degli aspetti finanziari, i benefici effettivi che l’Italia potrà ottenere dall’utilizzo dei fondi del nuovo strumento dipenderanno dalla capacità del Paese di proporre interventi in grado di contribuire a rafforzare il potenziale di crescita economica, coerenti con gli obiettivi e i requisiti del programma, e di attuarli in tempi rapidi e senza sprechi.
Il Piano nazionale per la ripresa e la resilienza deve fondarsi anche sull’obiettivo imprescindibile di conseguire un sostanziale, progressivo e continuo riequilibrio dei conti pubblici. A questo può contribuire soprattutto il rilancio della crescita, che sarà possibile solo se le risorse saranno impiegate in maniera produttiva; in caso contrario i problemi del Paese non sarebbero alleviati dal maggiore indebitamento, ma sarebbero accresciuti.
Uno sforzo straordinario nell’attività di programmazione e una capacità di realizzazione che non sempre il Paese ha mostrato di possedere dovranno accompagnare l’aumento delle risorse disponibili. L’impatto sull’economia dipenderà anche dal miglioramento del contesto in cui si svolge l’attività di impresa. Sarebbe rischioso assumere che la disponibilità di maggiori risorse possa automaticamente tradursi in una crescita economica sostenuta e duratura senza un impegno continuo per il miglioramento della qualità dell’azione pubblica.
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