Con la vittoria di Elly Schlein di domenica sera si è chiusa, nella sostanza, l’esperienza del Partito Democratico per come venne concepito ed ebbe a nascere, grazie all’idea (per me: la visione) di Walter Veltroni. Non a caso, dopo Achille Occhetto, il segretario più inviso ai duri e puri.
La visione di un partito al passo con i tempi, sul piano organizzativo e politico.
Un partito che non ambisce a rappresentare “qualcosa”, una parte, un pezzo di società, ma si rivolge alla società nel suo complesso proponendo un programma di cambiamento e riforme, a partire da un preciso punto di vista (eccola, la “parte”) di quelli che erano e sono i tratti di ingiustizia e disvalore del nostro vivere insieme. Accettando la scommessa che quei tratti si possano cambiare in meglio senza per questo mettere in discussione i capisaldi di un sistema economico – quello fondato su capitale e lavoro – che, come la storia si è incaricata di dimostrare in modo inoppugnabile, pur con tutti i suoi difetti e limiti rimane comunque il meno peggio, da ogni punto di vista, tra le alternative ad oggi concretamente sperimentate. Un po’ come diceva Churchill a proposito della democrazia: «la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre che si sono provate finora». La tanto vituperata quanto incompresa “vocazione maggioritaria” non era altro che questo: assumere la consapevolezza che il cambiamento, per realizzarsi, deve assumere le vesti del governare. Ma governare società complesse e stratificate come le nostre è parecchio più complicato rispetto al declinare parole di “lotta” in un megafono.
Un partito consapevole che il lavoro, molto più di qualunque “reddito” o sussidio, è e rimane la condizione essenziale per l’emancipazione della persona, e ciò non solo in termini materiali ed economici: lo dice anche la nostra Costituzione. E che, in un mercato globale, il lavoro si crea non con le occupazioni delle fabbriche o le nazionalizzazioni, ma con la creazione delle condizioni perché un’impresa possa investire e crescere. Un partito consapevole che l’opposto di “povertà” non è “ricchezza” (ci sono tantissime persone che pur non essendo povere non sono certamente ricche) bensì “dignità”. E la dignità si afferma – e la povertà si combatte – con il lavoro: ce lo hanno insegnato, per lungo tempo, proprio i partiti di sinistra e i movimenti sindacali di questo Paese, mentre i fautori dell’assistenzialismo venivano spregiativamente additati altrove. Ma, ormai, chi se lo ricorda più?
Un partito che dunque fosse in grado di affrontare con coraggio e con visione aperta le profonde trasformazioni in corso (che non si fermano con gli slogano o le manifestazioni, per quanto rumorose e colorate), accettandone le sfide senza commettere l’errore di rifiutarle a priori rifugiandosi nella comoda (tatticamente) consueta ridotta, le cui barricate oggi sono cementate da parole d’ordine come “identità” e “comunità”. Prima o poi verrà, si spera, il tempo in cui coraggiosi archeologi dei linguaggi politici si incaricheranno di mostrare quanto male, nel profondo, abbia fatto alla parte progressista il colposo (ché il dolo presupporrebbe consapevolezza e studio…) sdoganamento di lemmi aventi ben altro codice genetico, decisamente opposto rispetto a quello della fratellanza e dell’universalismo. Ecco il vero cedimento, ecco la sinistra che si fa destra. Altro che le riforme sul mercato del lavoro o delle autonomie regionali.
Un partito che, sul piano organizzativo, si adattasse alle mutate condizioni politiche della società in cui viviamo, anni luce lontana da quella di appena qualche decennio fa. Oggi, forse, riusciamo a vedere con la necessaria chiarezza quanto fosse azzeccata l’intuizione di chi ritenne privo di senso pretendere che una società sempre più liquida e mutevole nelle sue inclinazioni politiche potesse essere interpretata dal partito “pesante”, fatto di lenti rituali e di pletorici organismi (che infatti, a tutti i livelli, altro non fanno che ratificare decisioni prese altrove). Un partito che, in luogo della ferrea cooptazione a seguito di lungo cursus honorum tutto interno alle segrete stanze, fosse perfettamente scalabile, grazie al meccanismo delle primarie aperte, anche dall’outsider di turno. Perfino da chi iscrittosi o iscrittasi da poche settimane e senza alcuna esperienza di gestione di un partito – che è cosa assai diversa dal saper guidare un’amministrazione locale o un ministero, come hanno imparato a loro spese i vari Bersani, Renzi e Zingaretti. Leader votato o votata da semplici elettori ed elettrici (o promittenti tali), praticamente senza filtri o controlli, anche ribaltando il pronunciamento degli iscritti. Un partito dove l’investitura fosse ampia e popolare, e non designata dal solito caminetto, in una competizione dove, al netto delle retoriche di propaganda, le biografie e le capacità personali contassero assai più del “programma” o della “squadra”. Una sorta di necessaria cura omeopatica richiesta dall’era della personalizzazione della politica, vigente anche in Italia da almeno un trentennio, nella quale ormai gli elettori si affidano non più a sigle o ideologie ma a persone: ieri Berlusconi, Grillo, Renzi, Salvini; oggi Meloni.
Oggi quel progetto politico non esiste più. La visione è finita, scorrono i titoli di coda. È un dato oggettivo, senza connotazioni di valore. Non a caso un dato su cui tutte le correnti (pardon, le “sensibilità”) oggi trovano unanime convergenza, magari divergendo nelle valutazioni. Il tempo e la cronaca (la storia, per ora, lasciamola stare) diranno se la fine di quel progetto appartenga alla benefica necessità o piuttosto alla mera contingenza (le uniche e vere categorie dell’agire politico, come insegnano i classici di tutte le epoche). Certo, è paradossale – ma solo fino a un certo punto – che la cessazione di un progetto politico nelle sue coordinate programmatiche coincida con la sublimazione di quelle costituenti organizzative che furono anch’esse fondamento (perfino “identitario” ardì qualcuno) della nascita di quello stesso progetto, per lungo tempo invise ai più ma oggi d’improvviso ammesse placidamente e senza più alcuna riserva. A proposito di credibilità e coerenza. Ma in politica, si sa, travi e pagliuzze sono beni assolutamente fungibili, a seconda della necessità o della contingenza. Appunto.
A tale proposito, va ricordato, a onor di memoria e per amor di storia, che quel progetto nacque già pesantemente azzoppato fin dall’inizio. Da un lato, i “riservisti” (nel senso della riserva morale), ossia quelli che, pur aderendovi, non ci hanno mai creduto neanche un po’, osteggiandolo e sabotandolo ad ogni pie’ sospinto. La loro adesione coincise infatti con la presunzione di poter comunque rimanere saldamente al controllo del c.d.a. della “ditta” nonché, scendendo giù per li rami, delle sue “succursali” locali. A volte tale presunzione trovava inveramento, altre volte no: e allora via a guerre fino all’ultimo sangue. Più spesso, però, tale controllo era frutto di accordi col “diavolo” (vedi capoverso successivo), dimenticando però che all’inferno non ci stanno solo i diavoli ma anche coloro che cedettero alle lusinghe facendo così mercimonio della propria anima (leggi: etica), non importa quanto a “fin di bene”, come insegna la sempiterna epopea del Faust. Ma per loro, proverbialmente, la dotazione morale non è singola ma (perlomeno) doppia. E bisogna ammettere che è un bel vantaggio il poter mantenere – e spendere con i propri followers – un’etica immacolata potendone avere un’altra a disposizione. Un indizio significativo lo svela il loro lessico, su cui spicca il grido di battaglia “adesso la sinistra faccia la sinistra!”. Tra le vestali di auguste (“trovai una città di mattoni, ve la restituisco di marmo!”) alterigie e i cavalier serventi di dorate insipienze, c’è solo l’imbarazzo del disagio.
Disagio che però diventa ripulsa sol che lo sguardo si posi sull’altro “lato” del campo democratico, ossia coloro che il progetto veltroniano non provarono neppure a decifrarlo. Imparare un nuovo codice richiede dedizione e applicazione. Ma perché perdere tempo in un esercizio inutile? Per costoro, infatti, la politica è una cosa che si “fa”, e basta. E codesto “fare” segue le leggi della pura meccanica e del riflesso condizionato, mica del pensiero. Perché, come diceva Ludwig Wittgenstein, i pensieri hanno un prezzo la cui moneta è il coraggio. Oggetto, quest’ultimo, del tutto sconosciuto ai nostri. Il loro sguardo è perennemente teso all’orizzonte, ma solo per individuare il prossimo, ennesimo, carro su cui salire pur di mantenere l’unica linea che conoscono e ammettono. Quella del galleggiamento. Il loro nome non è legione (vedi sopra), non esageriamo, bensì ambiguità, e pertanto il loro motto odierno è “ricostruire!”. Non dicono cosa, giacché ciò equivarrebbe ad ammettere che le macerie che li circondano sono state prodotte da loro stessi per uso e consumo personale.
Il problema è che, sotto queste macerie, la merce sepolta più in fondo è la credibilità. Il suo opposto mai così di moda come negli ultimi tempi, dove chi tende a conservare un po’ di memoria ha assistito basito ad una gara a dir poco ignominiosa tra chi prendeva per primo e chi da più lontano le distanze da esperienze di governo di cui a suo tempo si condivisero “con-vin-ta-men-te” (la sillabazione è d’uopo) tutti (diconsi: tutti) i vari passaggi e scelte, sia nelle sedi di partito che negli organi di governo, da parte di chi allora (e in parte anche oggi) era comodamente adagiato su “governatorati” o dicasteri per nulla secondari. Per carità, si può ben cambiare idea rispetto a scelte che col senno di poi si ritiene di rivedere, ci mancherebbe. Ma non si vede come si possa definirle addirittura “sciagurate” (o peggio) con la stessa disinvoltura del casuale e innocente passante, senza che possa scattare, o che venga preteso, un minimo di assunzione di responsabilità. Che – tocca precisarlo a beneficio di coloro, vicini e lontani, evidentemente poco adusi – equivale a dire: «se errori, sconfitte e sciagure furono, accadde anche per colpa mia; e siccome nessuno può essere giudice di se stesso, il giudizio sul mio operato lo rimetto a voi». Il minimo sindacale per un gruppo dirigente che voglia anche solo apparire dotato di un pallido residuo di credibilità. Ma per certuni la credibilità è un po’ come il coraggio per Don Abbondio.
E allora, da questi pochi tratti, visto il materiale e gli articoli in campo, si può comprendere quanto vita facile potesse avere il progetto veltroniano. Azzoppato fin dalla nascita, ma che tutto sommato, nonostante “riservisti” e “galleggiatori”, in un modo o nell’altro e sia pure con alterne vicende, era stato comunque tenuto in vita. Fino ad oggi. Oggi il nuovo motto è “radicalità!”. E la credibilità? Quella può attendere.
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