Nel 1980 il Time, celebre per le sue copertine iconiche, inseriva un lingotto d’oro nella sua prima pagina, con il titolo “Ingot we trust”, giocando sulla paronomasia tra “God” (Dio) e “Ingot” (lingotto d’oro). Sono passati 44 anni e la corsa del metallo giallo prosegue spedita segnando nuovi massimi e consacrandosi come bene rifugio per eccellenza. L’oro è qualcosa che si può toccare ed è conosciuto da tutti: diventa particolarmente interessante quando le altre asset class sono in crisi.
È solitamente de-correlato dai mercati finanziari, ma c’è sempre l’eccezione che conferma la regola: il 2023 è stato un anno molto positivo per entrambi.
L’anno appena concluso si è portato in eredità questioni irrisolte dall’anno precedente (conflitto in Ucraina)e generandone di nuove (conflitto in Israele). Situazioni così complesse che hanno portato l’oro ancora più al centro dell’attenzione, confermando la regola aurea (per l’appunto…) di essere particolarmente richiesto in situazioni storiche critiche.
Del resto, dalle maschere micenee al culto dei faraoni, dall’antico testamento, alla Bibbia, dall’esser uno dei doni dei re Magi, al rappresentare uno dei sette tesori nel Buddismo, l’oro non ha mai conosciuto né limiti territoriali, né storici, né religiosi che potessero limitare il suo mito.
Ma è stata la sua storica capacità di rappresentare la base per le valute di molti stati a consacrarne il valore. Dalle prime monete d’oro, coniate nell’Asia Minore nel 560 a.C. fino alla fine degli accordi di Bretton Woods (1971, con la fine della piena convertibilità dollaro in oro), la politica monetaria internazionale ha trovato nel metallo giallo il punto di equilibrio, da cui stabilire i rapporti di forza e valutari tra i singoli stati.
Fior fior di economisti sostennero che l’avvento della carta moneta, scollegata quindi dalle riserve auree, avrebbe ridotto il suo valore drasticamente, limitando il suo uso a quella porzione necessaria per realizzare monili di indubbio valore estetico. E in effetti all’inizio fu proprio così: negli anni ’70 il prezzo dell’oro collassò dagli 800 dollari per oncia ai 252 dollari nel 2001. Come ha fatto poi a risalire allora ai 2.650 dollari e passa per oncia attuali? Gli economisti non avevano (probabilmente) fatto i conti con la paura che agita gli animi dell’uomo. Ogni volta che l’uomo teme gli effetti di una crisi economica, o peggio, una perdita di valore dei soldi che ha in tasca si rifugia in qualcosa di fisico che resista alla volatilità dei mercati. Ma questo può spiegare la prima parte del rally cominciato nell’era Covid nel 2020 e poi accelerato con la guerra ucraina nel 2022. Ma cosa giustifica questa folle corsa dell’ultimo biennio?
Ne parleremo bene la prossima volta, collegandola anche alla crescita con gli altri metalli preziosi e metalli industriali, ma analizzando solo la performance dell’oro va detto che buona parte della recente crescita (2023 e 2024) sia da collegare al fenomeno della de-dollarizzazione in atto (a cui sono stati già dedicati ben due approfondimenti in questa rubrica lo scorso anno), al coinvolgimento di molte banche centrali, di cui una in particolare modo ( People Bank of China) e da ultimo, da una sostenuta domanda retail, proprio per la sua natura di diversificazione.
Quanto durerà questa crescita?
Mai come ora gli analisti delle grandi banche d’affari si dividono tra chi vede per il 2025 una rottura della barriera dei 3.000 dollari per oncia e chi invece più cautamente prevede una correzione, se non un cambio di inversione, dovuta proprio al venire meno di uno dei grandi protagonisti di questa “corsa all’oro”: la Cina.
Pechino da maggio ha interrotto l’accumulo di riserve auree. Non solo: la forte ripresa dei listini azionari cinesi di questi giorni, in reazione agli stimoli appena varati dal Partito Popolare potrebbe anzi ancora di più drenare liquidità dal lingotto (che fino a poco tempo fa era invece l’unico asset a dare qualche soddisfazione).
Un proverbio dice: “L’oro adora le brutte notizie”. Sarà vero anche nel 2025? Ah, saperlo…
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