1.
Nella riunione straordinaria del Consiglio europeo del luglio scorso, durata 5 giorni, dopo un lungo negoziato preparatorio, sono state adottate decisioni che danno avvio ad uno dei più grossi programmi di intervento pubblico del dopoguerra in Europa. Il Sole 24 ore ha stimato che il complesso delle risorse del c.d. recovery plan è superiore alle risorse del continuamente nel dibattito di questi mesi Piano Marshall del secondo dopoguerra.
Dunque, richiamando la celebre frase di Churchill, è giunto il momento in cui ogni azione genera delle conseguenze: e mai come in questo caso le conseguenze delle decisioni che lo Stato è chiamato ad adottare avranno ripercussioni nei decenni a venire. Il Paese, nel suo complesso, è chiamato ad uno sforzo non ordinario per riattivare l’economia stremata dall’emergenza sanitaria, dopo oltre un decennio di stress derivante dalla crisi finanziaria del 2008, e quindi in condizioni non sicuramente ottimali. Inoltre, il volume delle risorse che dovranno essere attivate, oltre quelle già stanziate in emergenza, genera un debito intergenerazionale la cui portata determina la necessità di non disperdere le risorse: oltre al debito buono e cattivo vi è anche una spesa pubblica, buona e cattiva.
2.
Dunque siamo alla vigilia della predisposizione di un grande programma di interventi pubblici, probabilmente il più grande del dopoguerra, in corso di elaborazione da parte del Comitato interministeriale per gli Affari europei (CIACE): dopo avere letto il Documento elaborato dal Gruppo di lavoro coordinato da Colao e la sinossi del Governo “Progettiamo il rilancio” a seguito degli Stati generali di Villa Pamphili, oltre che i documenti ufficiali di programmazione in primis le Raccomandazioni della Commissione europea e il DEF. Quello che ci attendiamo è un vero e proprio programma pluriennale di spesa e che definisca politiche ed interventi che incidano sulle criticità strutturali del Paese.
Ci si augura che tale documento abbia la chiarezza sulla dimensione strategica così come della componente strutturale delle politiche che si intendono attuare, non solo una lunga lista di spesa pubblica collocata in tutti i possibili rivoli della domanda che inevitabilmente sale dalle componenti economico-sociali, nonché territoriali: superata la fase di emergenza che ha dovuto fornire risposte immediate e di breve periodo, è essenziale passare alla riprogettazione del Paese.
In tal senso, nel richiamo alle esperienze storiche, potrebbe essere interessante una ri-lettura del Progetto 80, che si ritiene costituisca dal punto di vista tecnico uno dei migliori documenti di programmazione che una Amministrazione pubblica italiana abbia prodotto nella storia repubblicana, per la densità della visione strategica, per la chiarezza della struttura degli obiettivi e per la intellegibilità della sua lettura.
3.
Questo programma dovrebbe avere la forza di generare però anche la sintesi della dimensione più operativa, provando a superare un modello di programma pubblico che negli ultimi anni si è affermato, sicuramente ricca di analisi e quantità di dati, ma privi di considerazioni sulla componente della fattibilità.
Il tema non è tanto la completezza o la ampiezza di un programma quanto la capacità del documento di trasformare la irriducibile complessità (non esistono problemi di sviluppo “semplici”) delle problematiche affrontate in decisione politica, senza perdere la profondità analitica e conoscitiva ci cui ogni settore oggetto di una politica pubblica richiede e procedere alla verifica degli impatti e soprattutto della fattibilità delle azioni e degli interventi che si intendono realizzare.
I modelli di analisi che accompagnano i programmi servono a costruire una base di conoscenza che possa spiegare e supportare la decisione.
4.
Nel dibattito che è in corso in queste settimane a seguito della emergenza COVID, sono riemerse vecchie questioni su temi ricorrenti, in particolare il confronto/scontro più Stato-meno Stato desta un po’ di perplessità in presenza di un programma di politiche di spesa pubblica a sostegno dell’economia ma ripercorrendo le distorsioni che hanno caratterizzato negli ultimi due decenni le riflessioni sul rapporto tra stato e mercato.
La distorsione è rappresentata dal modo con il quale si affronta una delle componenti essenziali della programmazione o in generale dell’intervento pubblico, cioè la fase attuativa ed implementativa, sviluppato in tutte le possibili e necessarie fattibilità e impatti, tranne quella della capacità amministrativa.
Per semplificare, un programma pubblico deve contenere quattro elementi essenziali: cosa si intende fare, perché si intende fare, come si intende fare, chi realizza gli interventi. Quest’ultimo aspetto è pressoché assente, al di là della eventuale elencazione delle strutture di riferimento. Si assume che tutti i soggetti attuatori pubblici abbiano le risorse (in termine di professionalità, competenze specialistiche, conoscenza, dimensionamento delle strutture) in grado di avviare l’operatività delle politiche.
Una pubblica amministrazione è necessaria anche al mercato, per le funzioni di gestione della regolazione, di allocazione delle risorse e spesso di attuazione diretta degli interventi; ma una pubblica amministrazione con le competenze specialistiche e le risorse umane necessarie, anche in termini quantitativi. Il presupposto per azioni di sviluppo in presenza di un programma pubblico delle dimensioni finanziarie del Recovery Fund richiede una organizzazione pubblica adeguata.
In una recente audizione alla Camera (giugno 2020), il Direttore della Agenzia di Coesione, Massimo Sabatini, rispetto alle performance critiche sulla utilizzazione dei fondi strutturali, individua cause interne “che rimandano al complessivo indebolimento della capacità progettuale e realizzativa delle amministrazioni pubbliche ad ogni livello di Governo (ma più sensibile in alcune regioni del Mezzogiorno)”. E continua: “peraltro, tali difficoltà non sono riferibili solo o specificamente agli interventi della politica di coesione, ma rappresentano piuttosto una debolezza di sistema che insiste in generale sul complesso degli investimenti pubblici”.[1]
Questa debolezza di sistema ha molte cause, ma affrontarla e risolverla in tempi ragionevoli senza pensare alla ennesima grande riforma, è altrettanto importante per la riuscita del programma di spesa per lo sviluppo. [2]
Sottovalutare questo aspetto sarebbe un grave errore.
Tre possibili linee di intervento sulla componente operativa:
- a) dotare le amministrazioni destinatarie delle risorse e responsabili dell’attuazione dei progetti delle competenze necessarie per la realizzazione degli interventi: oltre che con il potenziamento degli organici ridotti allo stremo, soprattutto nei comuni di minore dimensione, anche con supporti tecnici esterni che accompagnino e supportino le fasi di progettazione e realizzazione. Questo vale sia per le opere pubbliche sia per i procedimenti di allocazione di risorse;
- b) accompagnare la progettazione con analisi di fattibilità economico gestionale che consentono di migliorare la decisione politica ma anche la fase di gestione successiva alla realizzazione degli interventi;
- c) digitalizzare integralmente i procedimenti amministrativi (una sorta di 4.0 della pubblica amministrazione) e potenziare la interoperabilità delle banche dati pubbliche delle amministrazioni certificatrici.
Sono interventi già previsti da una congerie di norme e disposizioni, e costituiscono le pre-condizioni per migliorare l’efficienza del processo decisionale e soprattutto attuativo. Avendo attenzione a non creare ulteriori sovrastrutture ma razionalizzando e riorganizzando l’attuale organizzazione pubblica.
Un ultimo elemento di riflessione è rappresentato al ruolo della funzione pubblica nei processi amministrativi: la recente legislazione è finalizzata a ridurre sino ad eliminare la fase discrezionale dell’azione amministrativa, se riferita del funzionario; a sviluppare l’azione della giurisdizione, penale e contabile, sul controllo e verifica della discrezionalità dell’azione amministrativa. Questo non genera non tanto (e non solo) una burocrazia difensiva quanto piuttosto una burocrazia passiva e soprattutto atona, non orientata a dare soluzione ai problemi quanto solo a rispondere – possibilmente con capacità e competenza comunque – a meri adempimenti amministrativi.
[1][1] Sul richiamo all’esperienza dei Fondi strutturali, U.Fratesi, “Recovery Fund: lezioni utili per usarlo bene”, La Voce, 3.9.2020
[2] Osservatorio sui conti pubblici italiani. “Recovery found: la variabile cruciale è la capacità delle amministrazioni di presentare progetti credibili e attuarli nei tempi definiti” (a cura di G.Galli e F.Paudice), 22.6.2020
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