Premessa
Nonostante altissime grida di indignazione e ripetuti interventi legislativi, non accenna a ridursi la deleteria pratica quotidiana della divulgazione a mezzo stampa di atti relativi a procedimenti penali “coperti” da segreto istruttorio, ed in particolare contenuti o trascrizioni di conversazioni telefoniche o ambientali captate nelle varie modalità previste dall’ordinamento giuridico e da quello tecnologico (ormai in relazione simbiotica fra loro, non essendo più oggi dato sapere chi abbia il compito di indirizzare o conformare l’altro).
La questione è ampiamente nota, non foss’altro per come rimbalzi continuamente da ogni ambito politico o istituzionale a redazione giornalistica. Ed è estremamente delicata, giacché vengono coinvolti diritti e libertà direttamente discendenti da nome costituzionali, a tutela di una pluralità di esigenze tutte egualmente rilevanti: il diritto alla segretezza delle proprie comunicazioni, la necessità di prevenire e reprimere i comportamenti criminosi, l’interesse dell’ordinamento al segreto investigativo, la preservazione della “serenità” di coloro che saranno chiamati a giudicare delle condotte di cui si è accusati, il diritto ad informare ed essere informati, la tutela della riservatezza di coloro che siano estranei alle indagini. Tutti beni e interessi di rilevanza costituzionale la cui preservazione assume primaria importanza per uno stato democratico di diritto che voglia reputarsi degnamente tale.
A riprova di ciò basti guardare l’imponente catalogo di divieti, prescrizioni e sanzioni che in tale materia l’ordinamento normativo sostanziale e processuale dispiega in maniera roboante e solenne, a mo’ di esercito schierato in battaglia. Dalle armi alquanto spuntate, come si vedrà.
L’obbligo al segreto degli atti di indagine
In termini generali, la disposizione da cui conviene partire è quella contenuta nell’articolo 329 del codice di procedura penale, che al primo comma stabilisce innanzi tutto l’obbligo del segreto per gli «atti d’indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, le richieste del pubblico ministero di autorizzazione al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste».
Durante la fase delle indagini preliminari, dunque, la regola è quella del segreto degli atti compiuti dagli organi inquirenti. La ratio della disposizione è evidente. Tenendo conto che le indagini penali impiegano solitamente un lasso temporale abbastanza lungo, vi è la necessità di proteggere la ricerca delle fonti di prova e la genuinità degli elementi acquisiti, che verrebbe messa a serio rischio se gli indagati avessero conoscenza fin dall’inizio dell’esistenza di una investigazione nei loro confronti. Per conseguenza, la legge prevede, a carico dei soggetti legalmente autorizzati a conoscere atti coperti da segreto (magistrati, poliziotti, cancellieri, ecc.) un divieto di rivelazione la cui inosservanza viene sanzionata sul piano penale e disciplinare (come vedremo meglio più avanti).
Ovviamente, tale segretezza a un certo punto deve cessare. Infatti, l’articolo 329 sopra citato precisa che l’obbligo del segreto degli atti sussiste «fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari». Dunque, una volta che le indagini siano concluse, non essendovi più la necessità di preservare i risultati acquisiti, la segretezza viene a cadere e si apre la fase della cosiddetta “discovery”, termine anglosassone che indica letteralmente la “scoperta” degli atti di indagine fino a quel momento coperti da segreto, i quali divengono pertanto ostensibili agli interessati e ai loro difensori.
La legge prevede però casi in cui la notizia della esistenza di un procedimento penale possa essere “anticipata” all’indagato prima della fine delle indagini, allorquando il pubblico ministero compia una serie di atti “garantiti”, come ad esempio interrogatori, perquisizioni o sequestri. In questi casi, infatti, il pubblico ministero ha l’obbligo di inviare all’indagato un atto chiamato “informazione di garanzia” (anche detto “avviso di garanzia”, assurto agli onori delle cronache giudiziarie negli anni di Tangentopoli), che null’altro è che una informativa della esistenza di un procedimento penale (contenente anche l’invito a nominare un difensore di fiducia), resasi necessaria dal fatto che si sta compiendo un atto che va a incidere nella sfera privata di un cittadino, il quale ha pertanto il diritto di conoscerne le ragioni.
È di fondamentale importanza tener presente che, in tutti i casi in cui un atto diviene ostensibile, dunque legalmente conosciuto o conoscibile dall’indagato, esso non si considera più coperto da segreto, con effetti dirompenti anche in tema di pubblicazione, come si vedrà nelle righe che seguono.
La pubblicazione degli atti di indagine: regole e divieti
La disciplina in ordine alla pubblicazione degli atti di un procedimento penale è prevista dall’articolo 114 del codice di procedura penale, di cui occorre ricordare i primi due commi: «È vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto» (primo comma); «È vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare, fatta eccezione per l’ordinanza indicata dall’articolo 292» (secondo comma).
Dall’analisi combinata delle disposizioni contenute negli articoli 329 e 114, sopra citate, si traggono usualmente le seguenti derivazioni.
Innanzi tutto, si ritiene comunemente che “rivelazione” sia cosa diversa da “pubblicazione”, intesa la prima come comunicazione rivolta ad uno o più soggetti determinati, la seconda quale modalità comunicativa verso un numero indeterminato di persone mediante stampa o altro mezzo di diffusione (radio, televisione, cinema, social network, ecc.).
In secondo luogo, la legge opera una distinzione fondamentale tra “atto” e “contenuto” del medesimo: il primo va individuato nella riproduzione (totale o parziale) del documento o altro supporto (immagine, audio, video, ecc.) in cui una determinata attività d’indagine si è incarnata; il secondo ne è invece un riassunto, un’informazione o altra modalità di notizia che non consista nella riproduzione.
Ciò premesso, salvo alcune deroghe in casi eccezionali, la regola è la seguente: se l’atto d’indagine è coperto dal segreto vige un divieto assolutodi pubblicazione, riguardante sia l’atto che il suo contenuto. In altre parole, la pubblicazione dell’atto è assolutamente vietata, e ciò vale sia per la riproduzione che per il suo riassunto. Man mano che il processo procede, però, questo divieto di pubblicazione diviene meno stringente, in base ad una disciplina che può riassumersi brevemente come segue: per i procedimenti che vanno a processo, è consentita la pubblicazione degli atti del fascicolo del giudice dopo la sentenza di primo grado; per il fascicolo del pubblico ministero il divieto cade solo dopo la sentenza di appello (in tali casi, infatti, occorre anche preservare la serenità e correttezza del giudizio, che potrebbe essere inficiata dalla pubblicazione di atti del p.m. che per una ragione o per l’altra non possono essere acquisiti).
La situazione cambia notevolmente se l’atto d’indagine non sia (più) coperto da segreto, come accade per gli atti “conoscibili” dall’indagato di cui abbiamo detto prima. Per tali atti rimane solo il divieto di pubblicazione dell’atto (cioè, la sua riproduzione totale o parziale), ma viene a cadere il divieto di pubblicazione del suo contenuto. Lo esplicita chiaramente il settimo comma dell’art 114 sopra menzionato: «È sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto».
In questi casi, dunque, il divieto di pubblicazione risulta attenuato, in base a quella distinzione tra “atto” e “contenuto” operata dal nostro codice di procedura, con la quale si ammette in sostanza la pubblicazione del contenuto di atti anche quando il processo sia ancora in corso, o magari non sia neppure iniziato. Una distinzione più teorica che pratica, che lascia molto spazio all’interpretazione, e ancor di più all’immaginazione di chi si accinga a riassumere il contenuto di un atto processuale e darne pubblica notizia. Una linea di demarcazione che la dottrina processualistica tende infatti a criticare fortemente, ritenendola equivoca, inconsistente, se non addirittura “ipocrita” o “farisaica”.
Una questione a parte riguarda l’ordinanza di custodia cautelare, la quale, pur se emessa durante le indagini, per effetto di una modifica introdotta nel 2017 è pubblicabile anche per riproduzione integrale. Si rammenti che le ordinanze in questione vengono adottate da un giudice in base agli elementi di prova presentati dal pubblico ministero senza che vi sia (ancora) un contraddittorio con l’indagato e il suo difensore. Esse dispongono la carcerazione o comunque la limitazione della libertà di un soggetto prima di un processo, sulla base di gravi indizi e se si ritenga sussistere un pericolo di fuga, di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato. La questione della loro pubblicazione è adesso al “centro” delle cronache parlamentari e del dibattito pubblico a seguito di un emendamento, presentato dall’On.le Enrico Costa, recentemente approvato dalla Camera dei Deputati, volto ad abrogarne la possibilità di pubblicazione integrale, ripristinando il sistema precedente al 2017. La ragione di tale proposta di modifica sta nel fatto che oggi atti di indagine o conversazioni intercettate che siano riprodotti nel testo dell’ordinanza (che deve ovviamente contenere gli elementi e le motivazioni per le quali si ritiene di limitare la libertà personale di qualcuno) sono liberamente pubblicabili, venendo così “aggirato” il divieto di pubblicazione integrale (che in generale sussiste, come si è visto, fino alla conclusione del processo). Si badi che, trattandosi di un atto notificato all’interessato, e dunque conosciuto o conoscibile da quest’ultimo, la pubblicazione del suo contenuto rimarrebbe comunque lecita, anche se la modifica proposta divenisse legge. Insomma, il tanto temuto “bavaglio” colpirebbe solo il testo dell’ordinanza cautelare ma non certo il suo contenuto, lecitamente pubblicabile.
Le intercettazioni e la loro pubblicazione
Un’importante eccezione alla disciplina sopra tratteggiata riguarda le intercettazioni di conversazioni telefoniche o ambientali compiute in un procedimento penale. Infatti, il decreto-legge n. 161 del 2019, convertito con modificazioni nella legge n. 7 del 2020, ha introdotto nel testo dell’articolo 114 del codice di procedura penale un nuovo comma 2-bis, che dispone sia «sempre vietata la pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni non acquisite ai sensi degli articoli 268, 415-bis o 454».
In altre parole, la norma stabilisce un divieto di pubblicare le conversazioni intercettate che non siano state acquisite al fascicolo processuale perché ritenute irrilevanti (all’esito di un’articolata procedura in contraddittorio sulla quale non possiamo qui soffermarci). Il divieto è assoluto e riguarda sia il testo che il contenuto, nonostante si tratti di atti che, a regola, sono conosciuti o conoscibili dall’indagato (per i quali, quindi, cadrebbe il divieto di pubblicazione del contenuto). Il problema è che per legge queste conversazioni devono rimanere “custodite” in un archivio digitale fino alla sentenza definitiva (che potrebbe arrivare dopo tre gradi di giudizio), e dunque non si può escludere con certezza che prima o poi qualche “manina” le divulghi facendole diventare di dominio pubblico, nonostante la loro irrilevanza ai fini del procedimento. Lo stesso è a dirsi per quelle intercettazioni che siano state ritenute inutilizzabili perché eseguite fuori dai casi consentiti o comunque in violazione della legge, oppure che siano lesive della reputazione o contengano dati sensibili: il codice ne prevede la distruzione per ordine del giudice, ma nulla può impedire di fatto che anche queste conversazioni possano essere divulgate.
Per quanto invece riguarda le intercettazioni che siano ritenute rilevanti, e quindi acquisite al fascicolo processuale, vale la regola generale vista sopra: di esse può essere data solo la notizia riguardante il loro contenuto essendo invece vietata la pubblicazione testuale. Un divieto relativo che però viene a cadere quando le conversazioni vengano trascritte integralmente con una perizia disposta dal giudice, come accade di regola; il codice infatti prevede che quest’ultima venga inserita nel fascicolo a disposizione del giudice (che, per ragioni che qui non possiamo approfondire, è diverso dal fascicolo del pubblico ministero): in tale caso di esse può essere data pubblicazione integrale dopo la sentenza di primo grado.
Com’è evidente, trattandosi di conversazioni captate è sempre meno agevole distinguere l’atto dal contenuto. Peraltro, occorre anche osservare che i rischi di travisamento insiti nella necessità di riassumere conversazioni magari articolate o incomplete potrebbero essere persino maggiori della mera pubblicazione del testo.
La violazione del segreto e le relative sanzioni
Assai ampio – almeno in teoria – lo spettro normativo riguardante le conseguenze della violazione degli obblighi e divieti sopra menzionati.
Innanzi tutto, l’articolo 115 del codice di procedura penale configura un illecito disciplinare per la violazione del divieto di pubblicazione a carico di impiegati dello Stato o di enti pubblici oppure da soggetti che esercitano una professione ad abilitazione (dunque anche quella giornalistica). La disposizione fa salve le conseguenze penali, che infatti non mancano.
Su tale piano, vengono immediatamente in rilievo le disposizioni contenute agli articoli 684 e 326 del codice penale. La prima fattispecie (contravvenzionale) punisce con l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammenda da 51 a 258 euro «chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa di informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione»; la seconda (delittuosa) prevede una pena da sei mesi a tre anni per il pubblico ufficiale (o l’incaricato di pubblico servizio) che «violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza»; è altresì punita la condotta di chi colposamente agevoli la conoscenza di segreti d’ufficio.
A queste ipotesi si aggiunge, per effetto di una innovazione introdotta con una legge del 2000, la disposizione contenuta all’articolo 379-bis del codice penale, che punisce fino ad un anno di reclusione «chiunque rivela indebitamente notizie segrete concernenti un procedimento penale, da lui apprese per avere partecipato o assistito ad un atto del procedimento stesso».
Dunque, abbiamo una differenza sanzionatoria assai notevole tra la condotta del pubblico ufficiale che riveli notizie coperte da segreto e la condotta di chi provveda a pubblicarle incurante del divieto di pubblicazione: per quest’ultima è prevista una sanzione avente un’efficacia deterrente alquanto scarsa, per di più oblazionabile con il pagamento di 129 euro (!). Ebbene, da un lato, sono rarissimi i casi di condanna di pubblici ufficiali che abbiano “passato” notizie riservate ai mass-media; dall’altro, la sanzione per questi ultimi è assolutamente risibile in termini economici. Come si vede, una tutela alquanto debole sol che si tenga conto della rilevanza dei valori in campo: riservatezza dei soggetti coinvolti, serenità del giudizio, presunzione di innocenza dell’imputato.
Che fare per evitare la pubblicazione illecita? Una modesta proposta
Malgrado questo imponente spiegamento a livello codicistico, il nostro sistema mediatico, cartaceo e virtuale, quotidiano e periodico, pullula quotidianamente di atti di procedimenti penali che in teoria sarebbero coperti da segreto. Tra essi spiccano, ovviamente, testi di conversazioni telefoniche o ambientali contenute in intercettazioni disposte dall’autorità giudiziaria. Una vera prelibatezza per i palati non certo fini del grande pubblico, un vero affare per editori e “bloggers” di vario genere e caratura, vista anche la ridicola entità delle conseguenze economiche previste dalla legge.
Come si è visto, gli atti di un procedimento penale sono atti per i quali la copertura assoluta del segreto sussiste almeno fino a quando non siano stati messi nella disponibilità delle parti e dei loro difensori, il che normalmente accade alla conclusione delle indagini. E però, accade sovente che la “fuga di notizie” avvenga invece quando le indagini siano ancora in corso, a volte addirittura prima ancora che gli stessi interessati siano venuti a conoscenza dell’esistenza di un procedimento nei loro confronti. Un fenomeno inaccettabile ma apparentemente incontenibile, tale da provocare continue modifiche normative (non tutte coerenti, per vero), nell’intento quanto meno di limitarlo. Pressoché inutilmente, a quanto parrebbe.
Ora, in realtà forse potrebbe esserci un modo per combattere questo triste fenomeno più efficacemente di quanto non sia stato fatto finora. E non sarebbe neppure tanto difficile da realizzare, almeno sulla carta.
Infatti, basterebbe una piccola e semplice modifica ad un articolo del codice di procedura penale: l’articolo 266, che prevede i casi in cui possano essere disposte dall’autorità giudiziaria intercettazioni telefoniche o ambientali. Si tratta di un catalogo di reati di varia tipologia e gravità: tutti i delitti che hanno pena massima superiore a cinque anni (o da cinque anni in su se contro la pubblica amministrazione), i delitti in materia di stupefacenti, armi e sostanze esplosive; e poi ingiuria e minaccia, molestia o disturbo alle persone con l’uso del telefono; usura, abuso di informazioni privilegiate, manipolazione del mercato, pornografia minorile, commercio di sostanze alimentari nocive, contraffazione o uso di marchi e brevetti, introduzione e commercio di prodotti falsi, frode in commercio, atti persecutori (stalking).
Ora, basterebbe inserire in questo elenco anche i sopra citati articoli 326 e 379-bis del codice penale. In questo modo, la rivelazione di segreti d’indagine, o comunque di notizie concernenti un procedimento penale, sarebbe perseguibile anche attraverso lo strumento delle intercettazioni, con effetti che è facile immaginare piuttosto dirompenti.
Innanzi tutto, una tale modifica consentirebbe agli inquirenti di mettere sotto controllo le utenze di coloro che a vario titolo hanno avuto a che fare con il fascicolo i cui atti siano stati illecitamente rivelati, allo scopo di acquisire elementi utili alla scoperta del responsabile della rivelazione. Ma non solo.
Infatti, siccome un’intercettazione può essere disposta tutte le volte in cui vi siano “gravi indizi di reato”, ben potrà accadere che ad essere poste sotto ascolto siano anche le utenze di colui che ha divulgato la notizia, ossia il giornalista. E ciò anche se il giornalista in questione non sia formalmente indagato. Il punto, infatti, è che un’intercettazione può essere disposta anche a carico di soggetti diversi dall’indagato (che peraltro potrebbe al momento neanche esserci) o estranei ai fatti ma potenziali destinatari di comunicazioni attinenti ai reati per cui si indaga. L’importante, come si diceva, è che vi siano “gravi indizi” che un reato è stato commesso, ma non è affatto necessario che il reato debba essere stato commesso dall’intercettato. Si pensi, ad esempio, alle intercettazioni di una vittima di estorsione al fine di risalire ai responsabili del ricatto, oppure alla intercettazione dei parenti stretti di un soggetto appena evaso dal carcere.
Si deve anche considerare che, per il meccanismo delle competenze territoriali previsto dal nostro codice di procedura penale, un’indagine per violazione del segreto istruttorio potrebbe essere avviata, almeno nella sua fase iniziale, da qualunque Procura di questa Repubblica (Guariniello docet!), e dunque anche diversa da quella in cui si è verificata la violazione. Altro dato su cui i potenziali “rivelatori” non mancherebbero di riflettere, specie se “addetti ai lavori”.
Ma, al di là delle minuzie processuali, gli esiti dirompenti ci sarebbero anche in forza di un altro effetto, per così dire “indiretto”. Infatti, in base allo stesso meccanismo perverso oggi imperante, ben potrebbe accadere che anche conversazioni di scarsa o nessuna rilevanza penale di soggetti intercettati in una indagine per violazione del segreto istruttorio siano a loro volta… oggetto di divulgazione, più o meno lecita. E potrebbe essere alquanto imbarazzante che le conversazioni del tale giornalista o del talaltro magistrato (magari per mano, o manina, del collega di “corrente” avversa o di quello di testata concorrente…) divengano di pubblico dominio con la stessa facilità con cui oggi vengono divulgate quelle di indagati e testimoni (anche quando manifestamente irrilevanti sul piano penale). Imbarazzante e magari spiacevole. Come una sorta di contrappasso, verrebbe da malignare se fossimo malpensanti.
Ed allora, se questa piccola modifica fosse approvata, gli effetti diretti e indiretti sopra accennati sarebbero tali da rendere più che lecito ritenere che le violazioni dei segreti d’ufficio nei procedimenti penali si ridurrebbero fortemente. Più che la minaccia del processo o della pena, forte sarebbe assai la minaccia della diffusione dei segreti più reconditi di chi maneggia con disinvoltura i segreti (istruttori) altrui.
Nota bibliografica e giurisprudenziale
Oltre alla manualistica più diffusa e aggiornata, assai utile alla ricostruzione dei complessi orditi normativi tra pubblicità e segretezza nel processo penale è stata la lettura del lavoro monografico di Francesco Porcu, Pubblicità e segretezza nel processo penale. Tra indicazioni normative e profili attuali, (Cedam, 2020), che riporta fra l’altro anche le critiche dottrinali alla distinzione legislativa tra “atto” e “contenuto”, di cui si fa cenno nel testo.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione è pacifica nel ritenere legittime intercettazioni telefoniche o ambientali disposte nei confronti di soggetti che non siano indagati, in forza del fatto che la legge utilizza l’espressione “gravi indizi di reato” e non quella, apparentemente simile, di “gravi indizi di colpevolezza” (che invece utilizza per le misure cautelari). Secondo la Cassazione gli “indizi” in questione riguardano infatti «l’esistenza di un illecito penale e non la colpevolezza di un determinato soggetto» (Cass. Pen., sent. 18.01.2006), ragion per cui non è affatto necessario che essi siano a carico dei soggetti le cui comunicazioni vengano intercettate; sempre secondo la Cassazione non è neppure necessario che gli autori del reato su cui si indaga siano stati individuati, ben potendo il procedimento essere ancora a carico di ignoti (così Cass. Pen., sent. 18.06.1999). Per la verità, oltre ai “gravi indizi di reato”, la legge prevedrebbe anche un altro requisito affinché possa essere autorizzata un’intercettazione a carico di qualcuno (indagato e non), ossia quando essa sia «assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini». Quanto questo requisito possa realmente limitare nella prassi investigativa l’utilizzo di tale strumento lo può facilmente immaginare anche il meno addetto ai lavori.
Ovviamente, è più che lecito dissentire sulle proposte contenute nell’ultima parte di questo scritto. Lo è molto meno nutrire dubbi sulla esistenza, ormai documentata e innegabile, di perversi intrecci tra correntismo giudiziario e lotta politico-giornalistica, in cui sguazzano varie manine e, a volte, scattano pure manette; una lotta adesso condotta anche a colpi di “trojan” sguinzagliati ad arte: basti leggere, da ultimo, “La gogna. Hotel Champagne, la notte della giustizia italiana”, di Alessandro Barbano (Marsilio, 2023). Una lettura solo per stomaci forti o refrattari alle disillusioni. Mai spegnere, per colpa di pochi, la fiammella di speranza nella nostra giustizia. Una fiaccola faticosamente mantenuta accesa tutti i giorni grazie alla serietà e onestà di tanti.
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