Chi avrebbe detto che dopo la pandemia Covid-19, Donald Trump avrebbe dovuto subito affrontare un’altra insidiosa grana? L’agonia del quarantaseienne afroamericano, George Floyd, porta indietro l’orologio della storia come in una sorta di countdown della durata di otto minuti e 46 secondi. È quello il tempo che è servito all’agente di polizia bianco, Derek Chauvin, per soffocare con il suo ginocchio premuto sul collo del disarmato George, fino ad ucciderlo con la complicità degli altri agenti presenti sulla scena, Tou Thao, Thomas K. Lane, J. Alexander Kueng. Il grido disperato “I can’t breatle” (non posso respirare) ha fatto il giro del Mondo. L’intera scena è infatti registrata in vari video realizzati da alcune persone che casualmente erano nei paraggi, ma in particolare di uno, che non lascia spazio alle interpretazioni, trasmesso in diretta Facebook da un passante, che filma i momenti finali. La diffusione delle immagini ha provocato una vasta indignazione ed ha varcato ogni confine. Chauvin trattenne Floyd, sollevando il ginocchio dal collo di George solo dopo la richiesta dei paramedici (nel frattempo allertati), noncurante del fatto che Floyd avesse nel frattempo perso coscienza da oltre 3 minuti. Una esecuzione in piena regola, infatti Floyd viene successivamente condotto all’Hennepin County Medical Center, dove sarà dichiarato morto. È il tragico epilogo di una operazione di polizia inizialmente intervenuta perché Floyd aveva tentato di spendere in un negozio una banconota falsa di 20 dollari. Il tutto accade a Minneapolis in Minnesota il 25 Maggio 2020. Numerose testate giornalistiche, statunitensi e non, hanno denunciato l’abuso di potere commesso da Chauvin ed i suoi colleghi. Ma è la questione razziale che allunga la propria ombra sul tragico episodio. E così l’antirazzismo torna protagonista, mentre le prove muscolari del Presidente USA, appaiono a dir poco fuori luogo anche presso l’opinione pubblica moderata, di solito più sensibile agli aspetti economici, che a quelli sociali. George Floyd è infatti l’ultimo di una lunga lista di afroamericani uccisi da poliziotti bianchi. Perché negli Stati Uniti una questione di ordine pubblico spesso malcela il problema del razzismo mai risolto. L’elenco delle persone uccise, perché nordaafricane, negli States è impressionante. Basti ricordare:
– il diciassettenne Trayvon Martin ucciso da un vigilante perché sospetto (Florida 2012).
– Il diciottenne Mike Brown ucciso da un poliziotto bianco mai incriminato a Ferguson città simbolo perché centro di proteste violentissime per quell’omicidio (Missouri, 2014)
– Il dodicenne Tamir Rice di Cleveland che con in mano una pistola giocattolo non obbedisce all’ordine di alzare le mani (Ohio, 2014)
– Eric Garner, 43 anni, cerca di vendere illegalmente sigarette a Staten Island quando viene fermato da alcuni poliziotti. L’agente Daniel Pantaleo lo blocca, lo sbatte per terra, fa pressione su collo e petto per diversi minuti, Garner come Floyd supplica “non riesco a respirare”, come Floyd muore poco dopo. Scoppiano le proteste dopo che l’agente Pantaleo non viene incriminato (New York, 2014).
– Freddie Gray, 25 anni di Baltimora, viene arrestato e portato a forza in un van della polizia. Un passante filma le sue grida, “non riesco a respirare”, la sua resistenza e i modi in cui viene sbattuto dentro alla volante. Entra subito in coma, muore una settimana dopo per lesioni alla spina dorsale. (Maryland, 2015).
Impressiona come quasi sempre le vittime dei poliziotti non sono pericolosi criminali ma persone che spesso muoiono per futili motivi e al massimo potrebbero essere incriminati per piccoli reati. Dopo l’uccisione di Floyd sono spuntati altri video che documentano uccisioni di afroamericani da parte di agenti di polizia. E Trump che cosa fa? Annuncia provvedimenti esemplari contro i poliziotti violenti? Nossignori! Intanto pugno duro contro chi manifesta. Ma non solo. Il Sole 24 Ore, definisce l’azione del biondo inquilino della Casa Bianca come impegnato in una sorta di guerra Twitter-Trump. “La morte di George Floyd è triste e tragica, sarà fatta giustizia”, twitta il presidente Trump quando vede per la prima volta il video dell’omicidio. La compassione dura poco più di un giorno, fin a quando invia la Guardia nazionale definisce “THUGS”, teppisti, chi manifesta anche pacificamente contro l’omicidio di Floyd, quindi riesuma un vecchio motto dei poliziotti di Miami degli anni sessanta, “quando si inizia a saccheggiare, si inizia a sparare”. Così che si apre un altro fronte, Twitter contro Trump. Il social media censura per la prima volta il presidente che deve parte del suo consenso agli incessanti tweet che hanno definito più di qualsiasi altro tic e iniziativa il suo primo mandato. Non così ancora una volta Facebook che rifiuta di agire contro i post di Donald Trump sulle tensioni sociali censurati da Twitter perché incitavano alla violenza. Ancora una volta Mark Zuckerberg è più attento alla sua creatura che ai diritti civili e difende la posizione di Facebook sui post presidenziali perché la sua piattaforma è “un’istituzione impegnata per la libertà di espressione”. Ma i dipendenti del social non sono d’accordo con Zuckerberg. “Mark sbaglia e farò ogni tentativo per fargli cambiare idea”, twitta Ryan Freitas, responsabile del tema di design di News Feed di Facebook. “Lavoro a Facebook e non sono orgoglioso di come stiamo emergendo”, posta Jason Toff, arrivato a Facebook come direttore del product management un anno fa. “La maggior parte dei colleghi con cui ho parlato si sente nello stesso modo. Stiamo facendo sentire la nostra voce”. Sul nervosismo di Trump, al di là delle caratteristiche del personaggio, pesa tremendamente la preoccupazione per le non troppo vicine elezioni presidenziali (novembre 2020), mentre già assaporava la riconferma. Prima della pandemia l’economia americana andava abbastanza bene, visto che gli States crescevano dal punto di vesta economico e dell’occupazione, anche se in modo in gran parte artificioso. Gli analisti più attenti, infatti, già prima della pandemia denunciavano possibili conseguenze negative di lungo periodo delle scelte di Trump: dal grave precedente della perdita di autonomia della Banca centrale Usa al forte aumento del debito pubblico a causa dei massicci sgravi fiscali concessi con la riforma del 2017. Manovre del genere vengono di solito concepite come misure d’emergenza per evitare o mitigare una recessione. Trump ha, invece, scelto di farvi ricorso in una fase di espansione. Per non parlare delle conseguenze diplomatiche delle sue politiche commerciali. Il protezionismo, globalmente dannoso, può anche portare qualche vantaggio al Paese che ha il mercato più grande del mondo: ma questo va a scapito del rapporto dell’America con alleati e amici. Sul piano dell’occupazione poi, la situazione è ben più grave da come era descritta, in quanto non bisogna mai dimenticare che le statistiche americane del lavoro sono molto diverse da quelle europee. Negli Usa, ad esempio, gli homeless non sono catalogati come disoccupati. E l’ulteriore calo dei cittadini privi d’impiego è dovuto al fatto che già un anno fa mezzo milione di americani erano usciti dal mercato del lavoro. Il tasso degli americani attivi esattamente un anno fa era già sceso al 62,8 per cento. Tutto questo però è un vecchio film: oggi l’America piange oltre 100 mila morti per il Covid -19. In sei settimane i senza lavoro sono volati a 30 milioni, crescendo al ritmo di 10 milioni ogni due settimane, le richieste di sussidi di disoccupazione saliranno ancora, raggiungendo quota 40 milioni di unità. L’altro dato è quello sul tasso di disoccupazione, lievitato al 16,1% ad aprile, il massimo dal 1948, mentre i posti di lavoro calano di 22 milioni di unità, una vera e propria voragine: tutta l’occupazione creata negli Stati Uniti nell’ultimo decennio. Nel primo trimestre il Pil Usa è tracollato del 4,8%, peggio delle attese, la peggiore recessione dal 2008. I consumi, che pesano due terzi del Pil Usa, sono crollati del 7,6%, il peggior calo mensile dal 1959. Insomma, la pandemia ha messo fine al più lungo periodo di espansione economica della storia contemporanea americana e nel secondo trimestre, sarà ancora peggio. JP Morgan ha stimato per i secondi tre mesi dell’anno un calo del 40%, Morgan Stanley -38%, un gruppo di esperti interpellato dal Wall Street Journal -25% e S&P, più ottimista, -12,7%. L’incertezza delle stime diventano ancora più palesi per quanto riguarda le previsioni di fine anno, con il Fondo monetario che pronostica un -5,9%, il Cbo, il Congressional Budget Office, l’ufficio economico del Congresso -5,6%, Fitch -3%, S&P +1,3% e Goldman Sachs +0,4%.
È ovvio che poi ci sarà una robusta ripresa, ma difficilmente sarà capace di colmare le ingenti perdite, non solo umane, che forse con una diversa gestione della pandemia potevano essere più contenute. Trump avrà cinque mesi per mostrarsi agli americani capace di guidarli fuori dalla crisi e trionfare alle prossime elezioni. Solo in questo caso anche la questione razziale potrebbe passare in secondo ordine. Adesso il rivale di Trump, il democratico Biden è passato avanti dei sondaggi. Trump tenterà sicuramente un colpo di coda magari proprio affidandosi ai suoi spin doctor, grazie ai quali superò Hillary Clinton nel 2016. ll Presidente degli Stati Uniti deve infatti grossa parte del suo successo proprio ai social. A Twitter e Facebook. Mentre la maggior parte dei sondaggi davano la Clinton in testa, Trump sfoderava tutta la sua potenza di fuoco sui social, ottenendo interazioni tre o quattro volte più alte rispetto a quelle ottenute dalla candidata democratica. Ma furono in pochi a rendersene conto. Trump è stato l’esempio globale più evidente di come i social network possano influenzare le elezioni politiche (in Italia è successo con il MoVimento 5 Stelle e con la Lega di Salvini). Quella contro la Clinton è stata più che altro la vittoria dei suoi spin doctor, gli strateghi che hanno riversato sui social una campagna elettorale fatta di toni accesi e messaggi spesso discutibili. In molti si sono chiesti, e si chiedono ancora, se senza i social network Trump avrebbe vinto quelle elezioni. Oggi il tycoon può contare su oltre 80 milioni di follower su Twitter e quasi 30 milioni di seguaci su Facebook. Numeri clamorosi, che in vista delle prossime elezioni presidenziali sono una bomba a orologeria. Stavolta però lo scenario, come si è visto, è ben diverso. E ci sono anche quelle statue che cadono. Ci sono le statue che vengono abbattute quando il tiranno viene sconfitto, come quella di Saddam Hussein smantellata nel centro di Baghdad nel 2003. Si tratta di un gesto semplice e senza appello, ripetuto nello stesso modo in tutti i continenti. Nei pressi di Praga, per esempio, esiste un “cimitero” delle sculture dell’era comunista, mentre nella Repubblica Centrafricana un’immensa statua dell’ex imperatore Bokassa arrugginisce tra l’erba alta. Poi ci sono le statue diventate indesiderabili, se non insopportabili, perché le valutazioni storiche si sono evolute. È il caso di quella di Edward Colston scaraventata in mare da migliaia di manifestanti il 7 giugno scorso a Bristol, in Inghilterra. Colston era un mercante di schiavi del diciassettesimo secolo. Ed è di queste ore la notizia che dopo aver preso di mira gli storici generali della Confederazione, simboli del potere schiavista del Sud, i dimostranti degli Stati Uniti se la sono presa con Cristoforo Colombo, considerato un colonizzatore e uno sterminatore di nativi americani e dunque indegno di troneggiare in un parco. Mercoledì notte, a Richmond in Virginia, la figura alta due metri e mezzo di Colombo è stata abbattuta dal suo piedistallo in un parco cittadino, bruciata e trascinata con delle corde al vicino laghetto di Byrd Park dove è stata gettata. Sono segnali che mostrano un mondo diverso da quello in cui i consensi per i sovranisti con connotati razzisti parevano inarrestabili. E per uno come Trump, che tra i primi atti della sua era ha alzato un muro ai confini con il Messico, può essere un forte campanello d’allarme.
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