Una pandemia disastrosa
I disastri non sono solo fratture nel tempo ordinario, ma anche accelerazioni di processi già in atto; non trasformano sempre la realtà, ma più di frequente ne esasperano il mutamento. Questa prospettiva dinamica è ciò che differenzia l’agente d’impatto dal disastro: il primo può essere “naturale” come un sisma o un’inondazione, oppure “tecnologico” come un incidente industriale, ma il secondo è un processo storico e sociale più lungo, che produce metamorfosi o disgregazioni, agendo come acceleratore di realtà. È quanto avvenuto con la crisi bradisismica di Pozzuoli del 1970, che causò l’abbandono del rione Terra e la conseguente costruzione del rione Toiano, nel flusso di un’espansione urbana, e delle periferie, cominciata un paio di decenni prima. Oppure è quel che si registrò con il sisma del 1980 in Irpinia e Lucania, che accentuò lo spopolamento dei paesi dell’Appenino e una loro crisi economico-sociale in atto da tempo, tanto è vero che la ricostruzione non è riuscita a invertire il processo, anzi.
Come abbiamo progressivamente capito negli ultimi mesi, anche una epidemia è un disastro perché, a partire da un microscopico agente d’impatto, il coronavirus SARS-CoV-2, si è innescato un complesso processo sanitario, economico, sociale, politico e culturale. Siccome l’attuale emergenza dovuta alla pandemia COVID-19 è ancora in corso, è difficile prevedere le sue conseguenze e la sua durata, ma naturalmente è possibile prepararci e, in una certa misura, ragionarci. In quanto disastro, anche la pandemia segue delle fasi e, sebbene tra gli studiosi vi siano interpretazioni diverse sul numero, la durata e la tipologia di questi periodi, in generale si è d’accordo su quattro: la fase precedente (in cui, in maniera più o meno consapevole, si favoriscono le condizioni di quel che avverrà), l’evento in sé, il periodo della ricostruzione/sanificazione e, infine, quello dell’implementazione di strategie di resilienza. Per un fenomeno sanitario come quello attuale c’è una difficoltà in più, perché si tratta di un evento che dura molto e che, quindi, è esso stesso soggetto a diverse fasi di elaborazione sociale: siamo passati dalla minimizzazione all’incredulità, dallo shock alla paura, fino all’attesa del famigerato “picco”, sebbene poi ci siamo resi conto che anche quel dato era incerto e che, comunque, le restrizioni dovute alla quarantena sarebbero durate molto al di là. Il premier britannico Boris Johnson, che pure si è distinto per aver dissimulato come pochi, ha ammesso che «questa è la peggiore crisi di salute pubblica della generazione attuale».
In quanto antropologo, la singolare osservazione partecipante dei mesi di più acuta urgenza sanitaria è (stata) un’attività di ricerca (soprattutto via-web) estremamente densa, perché l’emergenza irrotta nella vita sociale, ne ha interrotto il flusso regolare e, come ogni disastro, ha svelato i tratti più autentici della normalità, gli elementi più strutturali dell’ordinario. Il patogeno ha drammaticamente fatto svanire l’illusione di onnipotenza a cui il progresso tecnologico e scientifico ci avevano abituati (anche in campo medico) e, forse, ha posto fine ad un delirio collettivo soprattutto nel settore economico, perché il blocco di gran parte del mondo industrializzato potrebbe far cambiare molte cose, quando la crisi passerà, magari anche sul piano politico interno ai Paesi colpiti o su quello geopolitico tra aree del mondo. La questione, appunto, è sapere quando questa crisi finirà, perché più sarà lunga, più le misure restrittive adottate nella prima metà del 2020 incideranno a livello macroeconomico, sociale e culturale, tendendo a rendere lo “stato di eccezione” una normalità.
Una pandemia urbana
Come è spesso successo nei secoli scorsi, almeno in Europa, anche questa epidemia si è caratterizzata subito come un avvenimento legato innanzitutto alla città. Ciò significa che ha e avrà conseguenze non solo di ordine sanitario ed economico, ma anche relazionale tra le persone, dunque sugli spazi domestici e urbani, privati e collettivi.
Come osserva Marc Augé, l’urbanizzazione del mondo è un fenomeno che, per l’impatto sui destini della specie umana, è paragonabile all’invenzione dell’agricoltura, ma con una differenza sostanziale: se dodicimila anni fa quella rivoluzione diede avvio alla sedentarietà umana e a nuove forme di comunità, oggi la conseguenza è una mobilità inedita che travolge il senso della collettività. Gli agglomerati contemporanei, per quanto diversi e talvolta in concorrenza tra loro, si fanno filamentosi, il paesaggio urbano cambia e diventa “planetario”, in un processo di trasformazione perenne che è il “farsi” di un eternamente incompiuto.
Questa dimensione è emersa con chiarezza nel propagarsi del coronavirus che, attraverso gli hub aeroportuali, si è esteso di città in città, raggiungendo pressoché tutto il pianeta con una rapidità inedita. Avere Napoli come punto di osservazione di tale quadro è molto stimolante, perché, come sottolinea Iain Chambers, questo luogo è «l’emblema della città in crisi, della città come crisi». In altre parole, Napoli convive con la crisi, sfugge agli schemi prevedibili e alle inquadrature ferme e razionali; fluttua tra mille storie e, per quanto si perda e si disperda, è forse una delle città che può fornire spunti e soluzioni circa gli adattamenti che saranno necessari nell’indefinita fase di convivenza con il coronavirus.
Per quanto non si sia mai trovata al centro dell’emergenza più grave, Napoli durante la quarantena si è fatta notare per problemi antichi, ma anche per qualche sorpresa. Gli effetti sociali più duri si sono visti nelle fotografie delle lunghe code alla mensa del Carmine, uno dei pochi luoghi dove era – ed è – possibile avere un pasto preparato e distribuito da padre Francesco Sorrentino e dai suoi collaboratori. C’è stata, inoltre, una particolare forma di altruismo diffuso, quella del “panaro solidale” che dal centro antico si è moltiplicato in decine di ceste appese in molti quartieri, così da permettere una sorta di comunicazione differita tra “chi può dare” e “chi ha bisogno”; un gesto apprezzato anche da pop-star mondiali come Madonna, che vi ha fatto un post su «Instagram», e che poi ha ispirato alcuni maestri presepiali di via San Gregorio Armeno. Sempre a livello internazionale, la televisione britannica «Skynews» ha dedicato un reportage all’ospedale “Domenico Cotugno”, considerato un istituto sanitario esemplare perché non vi sono stati contagi di COVID-19 tra il personale medico e perché è ritenuto «il migliore in Italia per organizzazione e qualità del servizio offerto».
Se della povertà e della generosità napoletana non ci si meraviglia molto, la notizia di un’illustre realtà sanitaria, invece, ha fatto sgranare gli occhi a diversi commentatori, che sui social-media e sui giornali hanno condiviso la notizia introducendola con frasi tipo «Ma a Napoli c’è anche un’eccellenza». Il quel contesto, quelle semplici congiunzioni “ma” e “anche” hanno lasciato trapelare un atteggiamento avversativo, tuttavia è sorprendente che ci si stupisca delle eccellenze napoletane, dove storicamente ci sono grandi tradizioni in ambito medico e scientifico. Al di là di tali polemiche, però, qui è preferibile restare concentrati sugli aspetti critici emersi con la pandemia, la quale ha funzionato come un rivelatore molto crudele di tutto ciò che da anni viene denunciato: povertà, precarietà, mancanza di posti di lavoro, fragilizzazione delle protezioni sociali.
Come recentemente evidenziato dal libro “Le mappe della disuguaglianza”, scritto dagli economisti Keti Lelo, Salvatore Monni e Federico Tomassi, Napoli è una città con enormi disparità sociali ed economiche, le più profonde tra quelle delle quattro città prese in considerazione nel volume: Roma, Milano e Torino, oltre appunto alla città partenopea. Ovunque vi sono differenze, anche notevoli, ma solo a Napoli i contrasti sono ricorrenti e molto ampi tra un quartiere e l’altro, non solo tra il centro e la periferia. La frantumazione sociale è evidente in ogni parametro dello studio, come ad esempio nell’istruzione, dove la quota di laureati varia profondamente da una zona all’altra: il numero di residenti laureati a Posillipo, Chiaia e Vomero è 10 volte quello di Scampia, San Giovanni a Teduccio e Miano. La situazione è simile nei dati demografici, nell’occupazione e nelle finanze familiari: Napoli ha sacche di disagio economico preoccupanti, tanto che in molti hanno messo in dubbio la sua immagine di “città ribelle” per sottolineare, invece, quanto sia divisa e ingiusta.
Tutto ciò ha a che fare con l’epidemia perché la malattia ha esasperato le difficoltà di tanti. Ad esempio, un reportage di Antonio Musella per «Fanpage.it» ha mostrato quanto fosse complicato e faticoso affrontare una quarantena di 9 settimane in un basso di 30 metri quadrati. Nel solo centro storico di Napoli ci sono 900 bassi, nei quali vivono decine di migliaia di persone (almeno 40.000 in tutta la città, secondo alcuni calcoli). Tra le persone intervistate dal giornalista, la signora Maria ha detto: «La quarantena non è uguale per tutti; c’è chi sta in galera e chi è libero, questa è la nostra vita e non ce la faccio più, possiamo solo cucinare, mangiare e dormire. Non ho paura del virus, ho 78 anni, se viene stiamo qua».
Una pandemia sociale
Di colpo, il basso – o “vascio” – ha perso il maquillage romantico che gli era stato applicato negli ultimi anni, quelli del boom turistico della città, quando il centro di Napoli si è rapidamente trasformato con lo spuntare di innumerevoli ristorantini, friggitorie e negozi di souvenir, ma soprattutto con il comparire di bed-and-breakfast in sempre più palazzi, che inevitabilmente hanno spinto fuori alcune fasce di abitanti più vulnerabili. Tra le varie offerte turistiche c’è il «Vascitour», ovvero una visita guidata nella città dei bassi, una sorta di “turismo esperienziale” che promette “social eating”, pranzi o brunch con le «chef vasciaiole», pernottamento nei bassi ed escursioni nei luoghi non contemplati dagli itinerari più frequentati. Viene presentato come un incontro tra viaggiatori e abitanti, ma si tratta di un’autenticità di facciata, una connessione recitata che ora, con la contrazione turistica dovuta alla COVID-19, è evaporata. Per le persone che vivono in quelle abitazioni, tuttavia, cambia e cambierà poco, perché le piccole integrazioni al reddito provenienti da quel tipo di attività potevano far comodo, ma non ribaltavano la loro condizione di precarietà. Piuttosto, effetti maggiormente visibili potrebbero aversi per il centro di Napoli nel suo insieme, che fino a pochi mesi fa era inondato di turisti, mentre ora è molto più vuoto, anche di universitari, rimasti a casa per seguire le lezioni in tele-didattica. La drastica riduzione del numero di visitatori avrà certamente delle conseguenze e, nel resto della città, la perdita di posti di lavoro dovuta alla recessione economica rischia di demolire molti presupposti che erano dati per scontati. Andrà costruita una nuova “normalità”, e andrà fatto sulle macerie della vita di una volta, se non vogliamo trovarci in una nuova barbarie. Per evitarlo, bisognerà trattare la pandemia per quel che è: non uno sfortunato incidente, ma uno squarcio sul nostro sistema, di cui sapevamo così poco (o di cui ignoravamo le avvisaglie) da farci cogliere impreparati dal disastro.
Napoli è una città piuttosto duttile, per cui è possibile che il danno economico dovuto alla crisi turistica possa rivelarsi relativamente contenuto, dal momento che diverse paninoteche e pizzerie potrebbero riadattarsi in attività da asporto e, probabilmente, molti appartamenti appena ristrutturati e riconvertiti in b&b torneranno ad essere affittati a giovani coppie o a gruppi di studenti fuorisede, quando riprenderanno le attività accademiche in presenza. Il turismo ha fatto bene al centro cittadino, negli ultimi dieci anni la città ha registrato un incremento di presenze turistiche del 91,3%, che è il maggiore in Italia dopo Matera; tuttavia l’airbnbizzazione ha preso il sopravvento, con più di diecimila annunci di alloggi sul sito-web delle locazioni turistiche, oltre la metà dei quali sono di host che gestiscono più di un appartamento, aggravando la questione abitativa pregressa, perché c’è stato un forte aumento degli affitti e una conseguente espulsione di molti residenti.
Non ritengo che la pandemia abbia fermato tutto questo, ma ha imposto una pausa alla turistificazione dell’area Unesco napoletana, per cui potrebbe aver dato un po’ di tempo per fermarne la disneyficazione e per elaborarne soluzioni legislative che possano rendere questo “rinascimento” più equo e distribuito nel tessuto sociale. Tra l’«agire urbano» e il «fare città» c’è la stessa distanza che Ilda Curti pone tra la «città di pietra» e la «città di carne»: entrambe le dimensioni sono necessarie, ma troppo spesso ci si ferma alla prima, declinandola come domanda e bisogno. La città, invece, non è solo i suoi impianti, bensì la coniugazione pragmatica, qui e ora, del «diritto alla città», che dunque impone di recuperare tre caratteristiche essenziali della dimensione urbana: la complessità della città, i movimenti che vi si svolgono e le relazioni che vi si tengono. Queste peculiarità non definiscono una città costituita e fissata, ma una logica urbana, sociale, simbolica e politica.
In questo senso, se adeguatamente presa in considerazione anche sul piano urbanistico-sociale, la pandemia potrebbe suggerire qualche innovazione. Napoli è una città con pochissime aree verdi, dove è difficile trovare luoghi in cui passeggiare che non siano il Lungomare, il bosco di Capodimonte o il perimetro esterno del parco Fratelli De Filippo di Ponticelli, e dove rari sono gli spazi pubblici in cui i bambini possano giocare. Se mutazione urbana ci sarà, dunque, dovrebbe essere ispirata alla “giusta distanza” di non-meno-di-un metro che ci viene richiesto di frapporre tra noi e l’altro, tra noi e il mondo. In altre parole, la necessità di distanziarci per evitare il contagio potrebbe aiutare a far prendere decisioni coraggiose, come il senso unico di cardi e decumani anche per i pedoni, come d’altra parte avviene già nei giorni più affollati del periodo prenatalizio, oppure la chiusura al traffico automobilistico di talune strade e la limitazione di determinate carreggiate, al fine di tracciare nuove piste ciclabili e favorire i mezzi di trasporto individuali non inquinanti. Si renderà necessario, dunque, un grande investimento in e-bike e relativi parcheggi intermodali, ma non si potrà trascurare il trasporto pubblico che, dovendo limitare il numero dei loro passeggeri, per soddisfare il bisogno di mobilità urbana dovranno necessariamente essere potenziati attraverso un aumento della loro flotta e del loro personale, in modo da dimezzare i tempi tra un metrò e l’altro, e tra un autobus e l’altro.
Una pandemia culturale
In attesa che venga ridisegnata la spazialità delle nostre relazioni urbane e l’uso dei luoghi pubblici, potremmo dover fare i conti con alcune conseguenze psicologiche e culturali, sia sul piano individuale che collettivo. Nei mesi a venire, infatti, potranno esserci più sospetto ed esclusione, più controllo e videosorveglianza, che, d’altra parte, anche in questo caso si delineerebbero come accelerazioni di processi già in atto da tempo. Le disparità di Napoli non offrono alcuna tregua: chi vive in un quartiere difficilmente si sposta in un altro, non solo per abitarvi, ma anche per impegni e studi. Siccome la polarizzazione sociale si è accentuata nell’ultimo decennio, è venuta a determinarsi una desertificazione dei contatti e del dialogo, per cui è verosimile che con la pandemia la divisione e l’ingiustizia della città si siano ulteriormente accentuate. Ciò significa che bisogna urgentemente riflettere su cosa «fa Napoli»: quale elemento rende Napoli quel che è? se c’è, qual è la caratteristica sotto cui tutti i suoi quartieri si dicono “Napoli” e i loro abitanti “napoletani”? L’antropologia culturale e la filosofia hanno chiarito che l’identità è un concetto senza contenuto, un mito che confonde la visione perché usato là dove è stato perso il senso della solidarietà: «è un oggetto mentale, un parto della mente, un’invenzione che può avere conseguenze storiche reali», spiega Francesco Remotti. Napoli, dunque, non esiste, almeno nella pretesa versione essenzializzata tanto in voga negli ultimi anni: Napoli non è pura e diafana, ma porosa ed esposta; non è definita, ma spuria; e la sua autenticità va colta nell’ibridismo. Come ogni grande città, Napoli è un luogo plurale e conflittuale, orograficamente e storicamente policentrico. Questo vuol dire che la metafora del mosaico è alquanto efficace, eppure non ancora soddisfacente. La città è formata di innumerevoli tasselli che, nonostante i colori diversi, assumono coerenza l’uno con l’altro all’interno del disegno più ampio, ma l’emergenza sanitaria ha mostrato l’importanza di un concetto diverso, quello di «cosmopolitan canopy», cioè di “copertura cosmopolita”. Si tratta di un’allegoria usata da Elijah Anderson per spiegare quanto avviene nel «Reading Terminal Market» di Philadelphia, un ex deposito ferroviario trasformato in luogo d’incontro di tutte le minoranze della città, una sorta di cupola protettiva e attraente sotto la quale la gente interagisce, può rilassarsi e sentirsi più sicura e a proprio agio. La “copertura cosmopolita” ha il vantaggio di superare i contorni netti e il disegno statico del mosaico, permette di individuare il processo che rende i confini più indefiniti e confusi, così spingendo all’apertura e alla relazione. In altre parole, se Napoli non è ancora crollata nel caos assoluto e, anzi, ha tenuto un comportamento esemplare durante il confinement, è perché resistono piccole canopy in cui i cittadini possono rifugiarsi autonomamente: dal “panaro solidale” alla mensa di un frate, dagli spazi in cui elaborare nuove forme di cittadinanza all’ospedale d’eccellenza. Focalizzarsi su questo punto, spiega Michel Agier, significa esplorare e comprendere ciò che «fa città» sul piano delle relazioni sociali, del simbolismo degli spazi e della loro edificazione materiale, perché «la città è il processo della sua costruzione e decostruzione permanente», anche in quarantena, anche durante una crisi sanitaria senza precedenti.
Cominciando dal ridare senso alle parole, evitando formule fuorvianti, abbiamo bisogno di distanziamento fisico e di forte prossimità sociale: la Napoli di domani che ha realmente imparato dal disastro di oggi avrà un futuro se accanto ad un evengelico «noli me tangere», ossia il rispetto di quelli che in Francia sono chiamati “gesti barriera”, riuscirà ad abbattere una miriade di steccati sociali, intrinsecamente classisti. È un obiettivo possibile se Napoli modificherà l’immaginario di sé, se alimenterà una nuova convivenza, se aumenterà il senso di fiducia nel viverci. Non basta dirsi orgogliosi di Napoli, bisogna costruire una Napoli che da un lato non escluda e che, dall’altro, democratizzi le sue eccellenze. Governare una città non è negare o annullare le sue differenze interne – culturali, economiche o di status –, ma è ridurne la polarizzazione; è assicurarsi che la crisi non protragga i vecchi conflitti, ma funga da occasione per una loro risoluzione equa e lungimirante. Bisogna partire da un ripensamento dei luoghi e delle relazioni, lavorando sulla forma e sulla natura degli spazi collettivi, costruendo nuovi contratti sociali per l’avvenire in cui ciò che separa venga declinato anche come occasione di incontro. Le città sono le persone che le abitano e il collante che le tiene insieme è nell’umanità intima e reale delle relazioni, per cui, ad esempio, moltiplicare i parchi e gli orti potrebbe diventare un modo per abbattere il distanziamento sociale, perché permetterebbe ai cittadini-giardinieri di tornare a prendersi cura di ciò che li circonda e dei loro vicini. Come suggerisce Luca Molinari, «questo deve diventare un tempo di visionari coraggiosi e innamorati della realtà», per cui dal centro antico ai rioni di edilizia popolare in periferia, ciò che va restaurata è proprio la socialità, la quale si esprime negli spazi per lo studio, nei giardini pensili autogestiti, nei ballatoi sociali e nelle zone per la cura del corpo. Si tratta di ristabilire una connessione con i luoghi e i paesaggi, di elaborare un’azione politica della città postpandemica in cui la ricerca degli anticorpi sia innanzitutto contro nuove forme di separazione, contro muri che, in nome dell’igiene, rischiano di trasformarsi in nuove barriere sociali e in nuove gerarchizzazioni.
Riferimenti bibliografici
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Molinari, Luca: Le case che saremo. Abitare dopo il lockdown, Nottetempo, Milano, 2020.
Musella, Antonio: Coronavirus, a Napoli la quarantena nei bassi: “È come stare in galera, non ce la facciamo più”, in «Fanpage», 2 aprile 2020: https://youmedia.fanpage.it/video/aa/XoRuu-SwlMKQOH-A
Ramsay, Stuart: Coronavirus: The Italian COVID-19 hospital where no medics have been infected, in «Skynews», 1 aprile 2020: https://news.sky.com/story/coronavirus-the-italian-covid-19-hospital-where-no-medics-have-been-infected-11966344
Redazionale: Coronavirus, «Napul’è mille panar’»: il panaro solidale fa scuola, ne sono decine nel centro antico partenopeo, in «Il Mattino», 21 aprile 2020: https://www.ilmattino.it/napoli/cronaca/coronavirus_panaro_solidale_napoli-5184099.html
Siano, Riccardo: Coronavirus, la fila davanti alla mensa dei poveri del Carmine a Napoli, in «La Repubblica – Napoli», 29 marzo 2020: https://napoli.repubblica.it/cronaca/2020/03/29/foto/coronavirus_la_fila_davanti_alla_mensa_dei_poveri_del_carmine_a_napoli-252564027/
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