1.
Un mio amico, professore universitario in una materia scientifica, mi ha raccontato di recente questa storia. All’inizio degli anni 1980 era iscritto al partito comunista di cui era attivista. Si tenne nella sua facoltà un concorso a cattedre, e i suoi colleghi comunisti gli dissero che occorreva assolutamente far vincere certi professori fidati, organici al partito. Ma c’erano altri candidati più bravi senza etichetta politica. Il mio amico si oppose, e finì col lasciare il partito comunista. Quando mi raccontò questa storia, mi disse quasi sottovoce, come fosse una scabrosa confessione: “Sai, credo nella meritocrazia!” Evidentemente il termine meritocrazia è una parolaccia per parte della cultura di sinistra.
Occorre ricordarsi di casi del genere quando si affronta la discussione, anche filosofica, sulla meritocrazia. Questa spesso viene contrapposta al principio di eguaglianza. Siccome la sinistra è per la maggior eguaglianza possibile, selezionare le persone secondo il merito contraddirebbe quel principio. In effetti, dicono questi critici della meritocrazia, l’idea che venga premiato socialmente chi merita è una “ideologia” (falsa coscienza in senso marxiano) dato che il merito è in realtà un effetto sociale. Gli studenti che provengono da classi agiate e colte di solito hanno un profitto migliore – sono “più meritevoli” – di studenti che provengono da classi subalterne e incolte. Se un giovane ha un padre professore di matematica, per esempio, è molto probabile che tenderà ad andare molto meglio in matematica di un suo compagno che viene da una famiglia quasi analfabeta, e questo non certo per trasmissione genetica delle capacità.
Il fatto che certi gruppi sociali siano svantaggiati rispetto ad altri date le loro condizioni iniziali di partenza è cosa da tutti ammessa, e molti paesi hanno cercato correttivi. In America il correttivo si chiama affirmative action, che offre particolari opportunità a persone dei gruppi più sfavoriti, in primis i neri e le donne. Da qui l’interminabile dibattito sulle “quote”. Alcuni a sinistra propongono di riservare, in qualsiasi concorso, una quota minima a persone provenienti dai gruppi svantaggiati. Questo suscita reazioni da parte di altri, che gridano all’ingiustizia.
Mettiamo che in un concorso con 100 candidati si debbano assumere 50 persone, ma anche che di queste 5 dovranno essere afro-americani. Chi ha i punteggi più alti non ha problemi, bianco o nero che sia, perché verrebbe comunque assunto. Ma nella fascia mediana si potrebbero creare drammi. Mettiamo che l’ultimo dei 50 con il punteggio maggiore, un bianco, abbia la valutazione 20, mentre il successivo, un nero, abbia 18. Ora, se non ci sono 5 neri tra i primi 50 ma meno, allora il candidato che ha avuto 18 sorpasserà il bianco che ha avuto 20. Una palese ingiustizia, diranno gli avversari del sistema delle quote. Che cosa è più ingiusto, che non vengano assunti almeno 5 neri o che uno che ha avuto un punteggio minore passi avanti a uno che ha avuto un punteggio maggiore? Ciò dovrebbe spingerci a interrogarci filosoficamente su che cosa intendiamo per giustizia, ma non lo faremo qui.
2.
Che cosa significa merito? Direi che chiamiamo meritevole una persona che, più di un’altra, svolge meglio un lavoro in relazione a un certo fine. Sono un professore di filosofia più meritevole di un altro se io, meglio dell’altro, riesco a far capire la filosofia ai miei allievi. Sono un falegname meritevole se riesco a costruire un mobile in legno che regga bene e non si rompa dopo tre mesi. Come si vede, la valutazione del merito è sempre in relazione a un dato fine, è un dato relativo.
Gli antichi greci usavano il termine αρετή, che di solito viene tradotto con “virtù”. Ma virtù è termine fortemente intriso delle connotazioni cristiane di eccellenza morale. Invece αρετή si applicava anche a cose e animali, e indicava la capacità di una cosa nell’assolvere bene il proprio compito. Io la tradurrei con abilità. Il merito può essere inteso come αρετή, ovvero come abilità nel fare certe cose.
Ora, si dà il caso che molti critici della meritocrazia (o anche suoi sostenitori ingenui e rozzi) interpretino il merito come una qualità assoluta di una certa persona, come se fosse una valutazione morale globale. (Quel che rende difficili le discussioni, non solo filosofiche, è il fatto che i concetti vengano espressi in parole, e spesso diamo alle parole dei sensi alquanto diversi da quelli dati dai nostri oppositori. Viene quindi a crearsi un intrico di malintesi tra chi discute.)
Certamente la valutazione del merito spesso emana un alone di senso morale, ma questo alone può essere eliminato senza che la valutazione venga meno. Se dico che uno “è un buon pianista” non implico che quel pianista sia una persona buona, intendo che, se si mette al piano, suonerà bene. Parafrasando la terminologia kantiana, possiamo dire che “un buon pianista” è un giudizio ipotetico, mentre “un pianista buono” è un giudizio categorico. Ma se eliminiamo il senso categorico al termine “merito”, le obiezioni essenziali alla meritocrazia cadono.
Per meritocrazia non si intende, credo, un dominio o potere di chi ha merito in generale. Sarebbe assurdo, perché si può aver merito nel fare certe cose, e niente affatto nel fare altre. Posso essere meritevole come filosofo politico, ad esempio, ma niente affatto meritevole nel giocare a tennis o nel cucinare. Per meritocrazia si intende il semplice fatto di preferire, in qualche modo, chi è più bravo, più abile, di altri per un certo compito.
La debolezza di molte argomentazioni consiste nel fatto che il concetto di merito viene preso invece in senso assoluto. Il merito sarebbe una qualità che si opporrebbe alla causalità: se sono meritevole, ciò sarebbe indipendente da eventuali ragioni o cause per cui lo sono. Chi critica la meritocrazia fa di solito appello alla differenza tra doti naturali e doti culturali: una cosa sarebbe nascere con una certa dote, altra cosa sarebbe acquisirla grazie all’istruzione e agli stimoli che vengono dall’ambiente esterno. Diciamo subito che questa distinzione tra natura e cultura risulta fragile e poco convincente, ed è strano che molti continuino a darla come scontata, non problematica. La distinzione, se non opposizione, tra nature e nurture – tra natura e acculturazione – suppone che possiamo separare con un bisturi ciò che è naturale (suppongo, ciò che ci viene dal nostro genoma) e ciò che è culturale (ovvero, le influenze dell’ambiente umano), separazione che la biologia considera di fatto impossibile. È raro difatti che un gene produca effetti lineari; un gene innesta delle disposizioni che prenderanno certi versi piuttosto che altri in relazione alle esperienze successive del soggetto.
Si può convenire che Mozart avesse un genio musicale innato, difatti fu un enfant prodige in musica. Ma che parte ha avuto, nello sviluppo del talento “naturale” di Mozart il padre Leopold, violinista e compositore, oltre che noto didatta in musica? Non intendo la parte genetica – se ammettiamo che una certa disposizione a comporre musica sia geneticamente trasmissibile – ma la precoce esposizione di Wolfgang Amadeus all’arte musicale grazie al padre. Che cosa è naturale e che cosa è culturale nella fioritura del genio di Mozart? In casi del genere si vede tutta la vacuità della separazione tra natura e cultura. Ogni fatto umano ha un polo genetico e un polo culturale, sempre.
La discussione sull’opposizione natura versus cultura, che ci ossessiona da qualche secolo, ci porterebbe molto lontano. Cercheremo di dimostrare però che la questione del merito non è riducibile alla domanda “quella persona ha talento per doti naturali o perché è stata educata bene?” Non ha senso dire che il vero merito sarebbe l’aver talento solocome dote naturale.
In effetti, nelle attività competitive quella che conta non è la differenza tra differenze naturali e culturali. Si prenda una corsa agonistica, ad esempio. La regola è che tutti debbano partire su un piede di parità, ma è importante anche che i concorrenti siano naturalmente omogenei: così non si fanno correre uomini contro donne, bambini contro adulti, disabili contro perfettamente abili… Siamo convinti che sia equa una corsa tra persone che sembrano eguali (dirò poi perché questo sembrano è essenziale). Eppure il fine di una gara è quello di differenziare chi parte in parità: alla fine ci sarà un ordine gerarchico di arrivo. Ora, possiamo sempre dire – come direbbero gli egualitaristi – che alla base della vittoria o della sconfitta in una corsa ci sono differenze a monte che relativizzano il merito di chi arriva primo. Potremmo dire che X ha vinto perché aveva le gambe più lunghe degli altri, ad esempio. Oppure che X ha vinto perché viene da un paese ricco dove ci sono migliori allenatori, più campi da corsa… Oppure perché viene da una famiglia che geneticamente ha una speciale attitudine alla corsa. Come si vede, possiamo sempre trovare delle cause al merito, che in quanto tali non sono meritate (se si dà a merito un senso assoluto e categorico). Non importa che queste cause siano naturali (gambe lunghe) o culturali (migliori maestri di corsa), l’importante è che si possa spiegare il merito sempreattraverso cause determinabili. Ovvero, il concetto etico di merito viene ridotto a un insieme di cause che per definizione sono non etiche – nessuno dice che siccome il legno ci riscalda se brucia in un camino, allora è buono in senso etico. Possiamo sempre dimostrare, insomma, che una corsa era unfair, iniqua, perché in fondo era tra diseguali. È questo il nocciolo delle critiche alla meritocrazia. Possiamo dire che il risultato di una corsa è rivelatore delle ineguaglianze che non apparivano a prima vista, ma che poi la competizione stessa svela. L’equità della gara consiste nel far risultare, alla fine, delle differenze che possiamo considerare in sé inique. Se tutti i corridori fossero realmente eguali, dovrebbero arrivare sempre tutti assieme al traguardo. Ma questo non accade (quasi) mai, perché la perfetta eguaglianza tra esseri umani – come tra qualsiasi vivente – è altamente improbabile, e nel fondo impossibile.
Alcuni filosofi insistono sulla differenza tra ragioni e cause. Le ragioni riguardano solo cose che si possono comprendere, quindi cose umane (e animali?); le cause riguardano cose che si possono spiegare, quindi fenomeni naturali non umani. Ma anche qui non si tratta di una differenza tra cose in sé, bensì tra quelli che chiamerei giochi di vita[1]. Se uno ha rubato perché lui e i suoi figli erano affamati, un giudice che lo processi si interrogherà sulle ragioni(detti moventi) del furto, in questo caso il bisogno di mangiare. Se sono invece un sociologo o uno psico-biologo, mi interesserò alle cause degli atti criminali e quindi anche di questo caso; dirò allora che la povertà e la fame sono fattori causali di criminalità. Si ricostruiscono ragioni in giochi etico-politici e giuridici, si ricostruiscono cause in giochi di tipo scientifico o comunque conoscitivo.
3
Ora, nella maggior parte dei casi della vita giochiamo il gioco del merito, non il gioco della determinazione delle cause. Quel che ci piace in una gara, appunto, è il fatto che persone partite eguali alla fine risultino diseguali, senza chiederci perché uno vinca e gli altri perdano. Ma la necessità di selezionare vale anche in situazioni ben più drammatiche. Per esempio, se devo sottopormi a un’operazione chirurgica delicata. Qui ovviamente giocherò il gioco del merito: sceglierò il chirurgo considerato più bravo. Se mi si venisse a dire che la mia non è una scelta equa, perché quel chirurgo bravo era figlio di un famoso chirurgo e ha avuto modo di andare nelle migliori scuole di medicina, mentre un chirurgo meno bravo era figlio di poveracci, è difficile che la cosa mi importi: qui è il merito (sempre in senso relativo, areté: far bene una cosa in relazione a un fine) che mi interessa. E così in tantissime altre occasioni della nostra vita. Diciamo che le ragioni o le cause per cui qualcuno è più meritevole di un altro non sono pertinenti al gioco di vita a cui sto giocando, in questo caso trovare il medico più bravo.
Ci sono altri giochi in cui invece la ricerca delle cause è pertinente, e viene in primo piano. Se sono un politico riformatore, ad esempio, e noto che in un quartiere di neri pochi sono ammessi alla facoltà di medicina, allora potrò ricercare le cause di questa disparità. Potrei giungere alla conclusione che, mettiamo, questa difficoltà a diventare medici è correlata al basso livello dell’istruzione primaria in quel quartiere di neri, per cui potrei studiare una strategia per incentivare insegnanti elementari molto bravi a insegnare proprio in quel quartiere[2]. Ma incidere sulle cause di uno svantaggio sociale è una cosa, valutare il merito in relazione a dei fini è tutt’altra cosa. In effetti se io fossi quel politico riformatore, non accetterei di far curare mia figlia da un medico nero ma poco bravo solo perché è nero! Diciamo che si tratta di due diversi giochi di vita. Una cosa è valutare persone in relazione a un fine (farsi curare) altra cosa è decidere di incidere sulle cause di un’inferiorità sociale. Mi pare che i critici della meritocrazia cadano nella perniciosa confusione di confondere i giochi.
Sarebbe come dire che io posso gustare la lettura di Anna Karenina, mettiamo, solo se capisco le supposte cause del talento letterario di Tolstoj: le sue reti neurali, la sua vita infantile, la sua vita sessuale, ecc. Ammesso che si possano determinare le cause complesse che producono un talento letterario. Una pretesa del genere ci farebbe ridere. Il gioco del leggere e gustare un romanzo non ha nulla a che fare con la ricostruzione di eventuali cause della creatività.
Valutare un merito è insomma valutare una persona o altro (istituzione, gruppo, associazione…) in relazione alla regola di un gioco: ad esempio, vincere una gara; oppure, scegliere il miglior medico sulla piazza per farmi curare. Non ha nulla a che vedere con la valutazione di un fantomatico merito intrinseco irriducibile a qualsiasi ricostruzione di cause e meccanismi. Nella maggior parte dei casi concreti si fa epoché di queste cause e meccanismi.
4
Quanto poi al sostituire il principio di eguaglianza a quello del merito, mi sembra un progetto veramente assurdo. Anche se all’inizio degli anni 1970 molti studenti teorizzarono “il sei politico”, ovvero promuovere tutti gli studenti indistintamente. Un’eguaglianza imposta a priori è in effetti profondamente ingiusta, oltre che inefficiente. Nei primi anni della Rivoluzione russa si tentò un egualitarismo assoluto: tutti ricevevano lo stesso salario. Ma ben presto ci si rese conto che questo sistema era inefficiente, perché scoraggiava i più bravi dall’impegnarsi. E soprattutto era ingiusto, perché l’infingardo riceveva lo stesso compenso di chi si impegnava molto e produceva bene (questo in qualsiasi campo, anche in filosofia). L’egualitarismo assoluto cumula di solito inefficienza e ingiustizia, perciò di fatto è impraticabile. Alcune comunità che hanno cercato di applicarlo (come i kibbutz israeliani di un tempo, per esempio) hanno dovuto rinunciarci.
Per cui potremmo concludere, come Kant: “La diseguaglianza è una ricca sorgente di molte cose cattive, ma anche di ogni cosa che sia buona.”[3]
Una cosa è cercare di restringere il ventaglio delle diseguaglianze, se queste sono troppo stridenti e scandalose (come accade oggi con certi super-ricchi che non pagano tasse). Altra cosa è imporre dall’alto, a priori, un’eguaglianza stretta e repressiva.
In effetti non solo gli umani, ma tutti gli esseri viventi hanno questa particolarità: che ciascun individuo è diverso dall’altro. Ciascuno di noi ha il suo personalissimo genoma – tranne i gemelli veri, ma sappiamo che il loro cervello si differenzia già nella fase della gestazione, perché anche le esperienze di cloni umani sono differenziate. Possiamo dire che ogni individuo è un mutante. Su questo si basa l’evoluzione della vita secondo il darwinismo: la vita produce continuamente variazioni. C’è storia, della vita e delle società umane, perché c’è una continua produzione di differenze. Voler imporre l’eguaglianza generale è voler andare in senso inverso alla dinamica stessa della vita su questo pianeta, che tende a differenziare non a omologare. Non c’è una sola specie animale che riproduca esattamente una specie del passato: la vita produce sempre e solo novità. Il fiume della vita biologica non ritorna mai sulla propria sorgente. Perciò l’egualitarismo, anche economico, è utopico. Volerlo imporre è anti-vitale. Una cosa è assicurare politicamente eguali diritti a tutti, eguali opportunità a tutti, altra cosa è credere che alla fine dei percorsi di vita saremo tutti eguali. Se così fosse, sarebbe un incubo! Saremmo come i replicanti di certi film come Matrix ad esempio, dove una macchina universale produce individui tutti identici senza alcuna differenza individuale.
Ciò non toglie, quindi, che in molti giochi di vita possiamo puntare su una maggiore eguaglianza – caso scottante, quella tra uomini e donne. Mentre in altri giochi è essenziale premiare il merito, anche se sappiamo che, alla fin fine, se andiamo alle cose stesse, nessuno merita niente. Così non posso che applaudire il mio amico che non accettò il dictat del partito comunista di far passare un collega meno bravo ma politicamente fidato: in un concorso la regola è quella del merito scientifico, non quella della convenienza politica. Tutti sentiamo che si sarebbe trattato di una truffa: si fa finta di giocare un certo gioco per giocarne in realtà un altro. È quel che nel linguaggio comune si chiama corruzione. Il corrotto fa proprio questo: finge di giocare al gioco della funzione per cui è pagato (ad esempio, fornire certi permessi a chi ne ha diritto) e in realtà gioca a un altro gioco, quello dello scambio tra denaro e favori (“se vuoi il permesso, dammi una bustarella”). Un egualitarismo ingiusto coinciderebbe con un regime di corruzione.
Quindi, la contrapposizione tra meritocratici ed egualitaristi è una falsa opposizione, che nasce da profonde confusioni sui significanti (anche se, occorre dire, spesso la posizione meritocratica viene caricaturizzata dai suoi oppositori). Nella nostra vita facciamo vari giochi, per cui in certi vale ciò che chiamiamo merito, mentre in altri cerchiamo di modificare certe condizioni sociali che ci appaiono invalidanti per molti.
Una politica saggia dovrebbe rimediare alle eccessive ineguaglianze non a valle (quando si tratta di selezionare secondo il merito) ma a monte, ovvero quando, sin dall’infanzia, si creano divergenze profonde nei destini sociali degli umani. Si tratterebbe di creare “più meritevoli” in gruppi sociali svantaggiati, piuttosto che negare il criterio, sempre relativista, del merito.
5
Ragionamenti simili possono essere fatti su un concetto anche più filosoficamente importante di quello di merito: la libertà.
Anche qui, come nel caso del merito, bisogna dire che la valutazione di atti come liberi è sempre relativa, ovvero: si è sempre liberi da qualche cosa o di fare qualche cosa. Non si può essere liberi da qualsiasi cosa e di fare qualsiasi cosa. Il liberarmi da qualche cosa mi dà possibilità che non avevo nello stato meno libero. Se esco di prigione, sono libero nel senso che posso fare una serie di cose da me desiderate che in prigione non potevo fare. Ma in filosofia o in teologia, e spesso anche nelle narrazioni politiche, si tende a dare un senso assoluto a libertà: si parla difatti di libero arbitrio, e ci si chiede se l’essere umano sia essenzialmente libero. Alla libertà come essenziale dell’essere umano (una linea di pensiero che va da Descartes fino a Sartre) altri oppongono l’idea inversa che noi esseri umani crediamo di essere liberi, ma siamo determinati come qualsiasi altra cosa del mondo, per cui dovremmo parlare piuttosto di servo arbitrio, come diceva Lutero.
Anche qui, se prendiamo la libertà in senso assoluto, possiamo sempre dimostrare che la libertà è apparente. Si pensi all’asino di Buridano: nella realtà a un certo punto sceglierà uno dei due mucchi di fieno identici e a eguale distanza. Questa scelta implica un atto di libertà da parte dell’asino, dicono alcuni. Ma sarà sempre possibile, volendo, cercare le cause della scelta da parte dell’asino, quella del mucchio di destra, mettiamo. Potremmo scoprire che, ad esempio, l’asino ha una preferenza innata verso gli oggetti alla propria destra. Oppure possiamo trovare che i due mucchi non siano esattamente illuminati, per cui, ad esempio, un effetto di luce può dare l’impressione all’asino che il fieno di destra sia più buono. Insomma, potremmo scovare sempre una differenza oggettiva pur minima – o comunque supporla – che spieghi la scelta dell’asino. Anche tra gli esseri umani, possiamo sempre ridurre un atto libero di scelta a effetto di determinismi causali, se è questo che mi interessa.
Mettiamo che, finalmente libero dalla prigione, io vada subito in un ristorante rinomato dove sogno di andare. Questa scelta è duplicemente condizionata: dal fatto che ho fame, certo, ma anche dal fatto che sono stato influenzato dal mito di quel ristorante di cui ho sentito parlare in prigione. La scelta di quel ristorante è quindi psicologicamente spiegabile. Poi magari, siccome da tempo non ho rapporti sessuali, vado da una prostituta – ma fino a che punto questo atto è libero? Esso è conseguenza degli impulsi sessuali, che sono biologicamente determinati, ecc. Insomma, potrei dimostrare che ogni scelta libera è nel fondo un effetto di cause di vario tipo. Che, insomma, anche da liberi restiamo macchine, e una macchina non è libera per definizione.
Potremmo dire allora che una persona è più libera quando può seguire impulsi che lo determinano che prima non poteva seguire: siamo liberi di essere diversamente asserviti. Più precisamente: essere liberi significa poter evitare determinismi sgradevoli e soddisfare determinismi gradevoli.
6.
Ciò non toglie che il nostro sistema giuridico si basi sulla distinzione fondamentale tra chi è capace di intendere e di volere e chi no, perché nel secondo caso un soggetto non può essere condannato per un crimine. La filosofia antropologica su cui si basa il nostro sistema giuridico implica “la libertà”, che è un concetto metafisico, se viene preso in senso assoluto. Se un soggetto che ha commesso un atto criminale risulta pazzo da una perizia psichiatrica, o in preda all’alcool o a qualche altra droga nel momento in cui commise l’atto, oppure se ha un degrado mentale senile, non può essere considerato colpevole[4]. La legge funziona sul “tutto o niente”: fino a un certo punto sei libero, e quindi colpevolizzabile, oltre un certo punto non sei libero, e quindi non colpevolizzabile. Ora, chi fa psichiatria sa bene che, sul piano oggettivo, è impossibile determinare fino a che punto una persona sia capace di intendere e di volere. Freud aveva parlato di sovradeterminazione, ovvero di determinazione complessa dei nostri atti e sintomi. Il linguaggio giuridico e quello psichiatrico sono tra loro incommensurabili – la nozione di “responsabile” è di ordine etico-giuridico, non di ordine medico-psichiatrico. È come stabilire la maggiore età il giorno in cui un soggetto compie il suo diciottesimo anno: nella realtà, sappiamo, non si diventa adulti, responsabili, da un giorno all’altro. La maturazione è un processo continuo che può durare tutta la vita, o fallire per tutta la vita. Mentre le leggi hanno bisogno di scarti discontinui. La legge stabilisce delle convenzioni di discontinuità, a cui altre pratiche – quelle psichiatriche ad esempio – mal si adattano. Conosco bene il profondo disagio di alcuni psichiatri quando devono fare perizie psichiatriche a uso giuridico: si sentono un po’ come degli imbroglioni.
In effetti quelle che un tempo si chiamavano scienze umane ci dicono che la libertà di un atto, o il raggiungimento di un’età in cui si è responsabili, possono essere sempre relativizzati. Ad esempio, un soggetto che ha commesso un crimine, anche se non è diagnosticato come psicotico, può essere cresciuto in una famiglia dissestata, in un quartiere malsano pieno di criminalità, ecc. Queste condizioni sociali o psichiche possono essere invocate come attenuanti per la sentenza finale, ma potremmo anche – se volessimo – considerarle cause del comportamento criminale. Ora, nel momento in cui passiamo dal discorso delle responsabilità a quello delle “cause”, abbandoniamo la nozione stessa di libertà e quindi di responsabilità: se un atto o evento è causato, per definizione non è libero. Così, per spiegare un comportamento criminale, possiamo ricorrere a ogni tipo di cause: genetiche, psicologiche, sociali, neurologiche, ecc. Ma la causalità decolpevolizza. Se pensiamo che gli esseri umani sono esseri naturali, e quindi determinati, non c’è spazio per la libertà e la responsabilità.
Certo non tutte le culture distinguono tra cause e colpe. I greci antichi parlavano di αιτία, che significava sia cause che colpe. Ma nella nostra cultura, ovvero nella categorizzazione del mondo a cui tutti aderiamo oggi, la descrizione di cause risponde alla domanda “perché?”, mentre l’imputazione di colpe risponde alla domanda “chi è da biasimare per questo?” Se rinunciamo a biasimare o a lodare, ci resta allora solo “perché?”
7
Si dirà: spiegare qualcosa significa ipso facto trovare delle cause? Ogni spiegazione scientifica è deterministica? Insomma, la scienza deve supporre che la natura non è libera? La questione è più che mai aperta.
La fisica quantistica ci ha abituati a vedere il mondo delle particelle elementari come in tutto o in parte non deterministico. Ma nel mondo macroscopico valgono ancora rapporti deterministici – per lo meno, è quel che supponiamo. Ora, le realtà umane sono realtà macroscopiche: qui allora dobbiamo assumere il determinismo? E se tutto è determinato, allora anche l’anima umana è determinata. In questa prospettiva, la libertà non può che essere relativa, come abbiamo detto: non si può affermare la libertà come specificità dell’esistenza umana. A meno che non si consideri l’anima umana come avente la stessa struttura del mondo microscopico.
Possiamo far equivalere indeterminismo e libertà? Il fatto che certi eventi sub-atomici siano senza causa per la meccanica quantistica, significa che questi eventi sono liberi? Possiamo dirlo, ma allora stiamo usando il concetto di libertà metaforicamente. In effetti, cosa può significare libertà in un contesto di enti non viventi come elettroni, particelle alfa, quarks, ecc.? Per noi la nozione stessa di libertà implica quella che Aristotele chiamava προαίρεσις[5], la deliberazione volta a un fine. E per noi moderni solo dei viventi possono avere fini. Se non lo pensassimo, ritorneremmo a concezioni animistiche. L’indeterminatezza può segnalare atti come liberi, ma non si identifica certo con essi.
Parlare di atti liberi è quindi una convenzione: si chiamano atti che sembrano discendere da una deliberazione, ma senza considerare le eventuali cause che hanno prodotto quella deliberazione. È simile quando diciamo che uno ha vinto un concorso per merito e non perché raccomandato: significa che non consideriamo le cause di questo merito. Non che non esistano, ma non le facciamo entrare nel nostro gioco.
Insomma, se ci mettiamo dal punto di vista dell’oggettività scientifica – che è essa stessa un gioco di vita – nulla nel mondo è libero (tutt’al più è indeterminato). Se giochiamo invece il gioco della valutazione morale di certi atti, dobbiamo distinguere, entro certi limiti, un atto libero da uno non libero (direi che lo dobbiamo, anche se al limite non possiamo). E possiamo dire che una persona è più libera di un’altra, ma non ha senso dire che una persona è assolutamente libera. Il solo fatto che siamo tutti soggetti a bisogni e a pulsioni esclude questa libertà assoluta. E del resto, ogni tipo di società ci libera da certe costrizioni, ma ce ne impone altre.
8
La riflessione filosofica non ha alcuno strumento per decidere se nell’universo tutto è determinato oppure no. Essa può solo riflettere sulla significazione dei concetti elaborati dalla scienza, eventualmente per chiarificarli e, in certi casi, dimostrarne l’inconsistenza. La filosofia che mi interessa è quella che non mira a dire delle verità sul mondo – questa funzione oggi va riservata alle scienze[6] – ma ad analizzare i concetti con cui descriviamo il mondo. L’ambito pertinente alla filosofia è quello non della verità ma della significazione. La sola verità a cui la filosofia può giungere è quella di dimostrare, eventualmente, certe non-verità.
Ora, abbiamo due tipi di determinismo, epistemologico e ontologico. Un’indeterminazione epistemologica non esclude affatto un determinismo ontologico, d’altra parte la fisica quantistica ci mostra che un indeterminismo ontologico può portare a previsioni corrette, quindi a un determinismo epistemologico. Sfruttiamo l’indeterminismo epistemologico quando lanciamo una moneta, testa o croce, per prendere una decisione: ricorriamo a questo lancio proprio perché è impossibile prevederne il risultato. Il buon senso moderno ci dice che avvengono processi deterministici nel lancio di una moneta, ma di fatto non riusciremo mai a prevedere il risultato del lancio, perché le variabili in gioco sono troppo numerose. Diciamo che il risultato, testa o croce, è casuale perché non riusciamo a prevederlo.
L’indeterminismo ontologico invece viene chiamato di solito puro evento – alcuni lo chiamano prodigio, altri miracolo, altri creazione. Il paradosso è che la scienza moderna è nata proprio escludendo questa creazione, ma essa stessa ha dovuto lasciare a un certo punto lo spazio se non alla creazione, all’indeterminazione. Si pensi alla teoria del Big Bang, che è un creazionismo mascherato. Da qui il concetto di singolarità, ovvero di stati in cui la causalità è indeterminabile.
Fare scienza è una scommessa: è l’impegno a determinare ciò che appare indeterminato. Ovvero, il determinismo epistemologico e quello ontologico non combaciano, supponiamo che il secondo sia di gran lunga più vasto del primo, per cui la scienza intende allargare il piano del primo dimostrando che ciò che sembrava indeterminazione è di fatto determinato. La scienza non è contemplazione del mondo, è scommessa, gioco, rischio… Anche quando il mondo sembra caotico, la scienza scommette che il mondo, anche se molto complesso, non è caotico, che un ordine celato vi si esprime.
Disse Wittgenstein: immaginiamo che la testa di uno dei miei ascoltatori all’improvviso si trasformi nella testa di un leone[7]. Per molti potrà essere un prodigio, ma uno scienziato cercherà comunque di capire che cosa è avvenuto. Insomma, cercherà di ricostruire che cosa ha determinato quella metamorfosi. Questo è il suo gioco. Per la scienza i miracoli non esistono non perché non possiamo trovare qualche evento miracoloso, ma perché l’esser qualcosa di miracoloso non è parte del suo gioco.
Supporre che gli esseri umani siano liberi significa quindi di fatto dire: “gli esseri umani sono capaci di atti senza ragione né causa”. In effetti, come abbiamo detto, una ragione può essere sempre interpretata come causa, ridotta a causa. Se, per esempio, decido di intervenire per difendere un bambino malmenato da un adulto, la ragione del mio atto è difendere quel bambino. Ma potrei sempre chiedermi che cosa ha causato quella ragione. E uno psico-biologo potrà dirmi che molti di noi sono geneticamente predisposti a difendere i bambini, i più deboli, perché voler difendere la prole è un comportamento adattativo che è stato premiato dall’evoluzione darwiniana. La mia scelta, secondo il gioco dell’oggettività scientifica, risulterà quindi causata.
Forse per questa ragione uno dei romanzi più popolari del XX secolo è Lo straniero di Camus. Il romanzo si impernia sul fatto che Meursault, questo essere umano che non ci appare umano, a un certo punto spara a un arabo, uccidendolo, su una spiaggia estiva, per nessuna ragione. Meursault dirà che ha sparato perché c’era troppo sole… Ora, non a caso il tema centrale di tutto l’esistenzialismo nel quale inscriviamo Camus è quello della libertà umana. Proprio perché capace di un atto senza ragione Meursault è il paradigma dell’uomo libero? Nessuno di noi lettori oserebbe dirlo. Possiamo anzi dire “Forse Meursault avrebbe dovuto consultare un analista per capire perché ha ucciso!” Gli supponiamo delle ragioni, ma inconsce. E le ragioni inconsce sono, in fin dei conti, ancor sempre delle cause. Che ci siano atti, umani o naturali, senza causa, è il buco nero attorno a cui gira ogni metafisica della libertà umana.
Questo articolo con il consenso dell’autore è ripreso dal sito “Le parole e le cose)
[1] Mi si conceda questa condensazione tra due concetti diversi di Wittgenstein, Sprachspiele e Lebensformen.
[2] Non prendo in considerazione le teorie, che riemergono sempre come un’araba fenice, secondo cui l’inferiorità sociale e culturale di certe razze, o la superiorità di altre, siano connesse a fattori causali genetici. Non le prendo in considerazione non perché siano certamente false, ma perché esse sono scientificamente insostenibili (non sono ragioni etico-politiche che mi portano a respingerle, ma scientifiche). Per esempio, sappiamo che biologicamente non esistono le razze, ma un continuum di differenze tra gli umani. Va detto però che coloro che ascrivono le sperequazioni economiche e culturali tra gruppi etnici a cause storico-sociali non sono meno esplicativisti, per dir così, di chi dice che le cause sono biologiche. Entrambe le teorie cercano delle cause di disparità sociali. Entrambe si situano quindi nel gioco della determinazione oggettiva.
[3] I. Kant, Populäre Schriften, Reimer, 1911, p. 325.
[4] Anche i bambini non possono essere condannati, ovvero non sono considerati responsabili.
[5] Concetto sviluppato soprattutto in Etica a Nicomaco, Etica a Eudemio e Magna Moralia.
[6] Molti direbbero che anche l’arte e la letteratura, se riuscite, esprimono delle verità. Certamente, se per verità intendiamo la messa in contatto con qualcosa di reale. Ma qui intendo ‘verità’ in senso filosofico tradizionale, come adaequatio rei et intellectus, adeguazione tra la cosa e il discorso, come descrizione oggettiva del mondo.
[7] A Lecture on Ethics; tr.it. Lezioni e conversazioni, Milano, 1967, pp. 5-19.
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