Il 5 agosto scorso, in un’intervista all’emittente americana Fox News, Giorgia Meloni dichiarava: “Potrei essere la prima donna premier in Italia. Per me sarebbe un grande onore”[1].
A questa affermazione sono seguite alcune immediate reazioni di donne, giornaliste e intellettuali, per argomentare la loro contrarietà a tale ipotesi, perché Meloni, anche in quanto donna, non le rappresenterebbe politicamente[2]. Si sono aggiunte, sempre sulla linea di contrarietà, artiste come Giorgia (l’omonima, ma cantante), Elodie e Loredana Berté.
Nel dibattito è intervenuto anche un documento uscito alcuni giorni prima, con il titolo “Un orizzonte politico comune a donne di tutti i partiti”[3], promosso da associazioni femminili di tutta Europa e da alcune femministe italiane, tra cui Marina Terragni; il documento propone un’alleanza trasversale per obiettivi comuni, basata sulla premessa per la quale “quello che è buono per una donna e per le sue figlie/figli è buono per tutte e tutti”, mette al centro la maternità, l’inviolabilità dei corpi e un’idea di lavoro che comprende non solo quello retribuito, ma anche il lavoro di cura e il lavoro volontario, e infine si schiera contro l’”ideologia gender”. Un documento, dunque, che potrebbe tranquillamente firmare anche Giorgia Meloni, come ha fatto notare Natalia Aspesi, parlando del documento come della “falsa illusione delle femministe che votano Meloni solo perché è donna”[4]. A questa accusa Terragni ha risposto ammettendo che in quel gruppo trasversale c’è anche chi voterà Meloni, e ha ribadito che la salita di Meloni a Palazzo Chigi “sarebbe una novità storica di grande rilievo”, da valutare in base alla possibilità che riesca “a portare una qualche differenza femminile”, sperando “che lei [Giorgia Meloni] riesca ad agire su determinati temi … per esempio, sul tema dell’utero in affitto lei [sempre Meloni] si è già espressa con molta chiarezza, come anche sulla centralità della relazione materna”[5].
A questo confronto sul tema se una premier Meloni rappresenti una conquista per le donne o no non hanno partecipato esponenti politiche, in particolare quelle a sinistra. Certo, non mancano in campagna elettorale prese di posizione di candidate soprattutto del Partito Democratico, che si oppongono a certe campagne di Fratelli d’Italia, per esempio alla riproposizione della sepoltura dei feti contro la quale si sono scagliate Boldrini, Valente e Quartapelle, oppure alle proposte su blocchi navali e clandestini, aspramente criticate da Cecilia D’Elia. Ma c’è voluto il post provocatorio di Chiara Ferragni sulla mancata attivazione della pillola abortiva nella Regione Marche, perché anche la sinistra tornasse a parlare della difesa della Legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza.
Come mai questa reticenza delle donne di sinistra ad affrontare la questione di una prima donna premier, ma di destra? E’ contraddittorio il voto alla Meloni da parte di femministe? Cambierebbe qualcosa, per le donne, se una donna, qualsiasi donna, diventasse presidente del consiglio?
E’ a tutte queste domande che vorrei sommessamente provare a dare una risposta, condizionata dalla mia formazione politica, dalla mia identità di genere, e dalla cultura femminista nella quale sono cresciuta: quindi, una risposta rigorosamente e trasparentemente di parte.
In primo luogo, il silenzio delle donne di sinistra. Esso rivela un disagio, una consapevolezza inespressa di fallimento, una difficoltà a confrontarsi (il che è l’aspetto più grave) con le donne di destra che fanno politica. Questa generazione di donne presenti nelle istituzioni, a tutti i livelli, è quella che ha beneficiato dell’introduzione delle norme antidiscriminatorie per la rappresentanza politica (norme che negli statuti dei rispettivi partiti sono ancora più stringenti di quelle contenuti nella legislazione); ha beneficiato dunque, per lo più, di battaglie fatte da altre, senza averne ereditato lo spirito autenticamente femminista. Anche qui, ovviamente, non sarebbe giusto generalizzare. Ma se a occupare le posizioni previste dalle quote di genere ci vanno anche, e per lo più, donne che hanno seguito percorsi di selezione che niente hanno a che vedere con le politiche femministe, ma sono interne alle logiche cooptative di correnti guidate rigorosamente da colleghi maschi, come possono nascere a sinistra personalità femminili dotate di quella autorità e autorevolezza riconoscibili da tutte le donne e anche dagli uomini? Nel Partito Democratico ci sono donne che hanno militato nel femminismo e si sono impegnate a fondo nella battaglia per i diritti; ma il fatto che molte loro colleghe provengano da altre storie e si muovano agilmente negli schemi di potere maschili rende impossibile quella solidarietà politica tra donne, che prima, nei partiti della sinistra, consentiva alle donne tutte insieme di raggiungere nuovi comuni obiettivi. Questo problema inibisce anche una positiva interlocuzione con le donne della destra, con le quali non si fanno più battaglie comuni (come accadeva nella Prima Repubblica) e per le quali si nutre istintiva diffidenza, perché arrivate ad un livello alto di esercizio del potere, passando da altre culture e da altre esperienze. Penso che le donne di sinistra, femministe, debbano affrontare alla radice questo nodo dei percorsi di selezione e delle forme di potere, oppure continueranno ad essere perdenti e subalterne nei loro partiti e nelle istituzioni, e con loro tutte le donne nella società.
Secondo, l’esistenza di un femminismo di destra. Il documento citato sopra contiene proposte che non sarebbero sottoscritte da molte donne (me compresa). Si tratta di proposte che nascono da una precisa premessa teorica, secondo la quale la differenza di genere esprime una diversa natura tra maschile e femminile, che devono riconoscersi reciprocamente come pari per superare l’ordine patriarcale e gerarchico. In questo quadro, gli altri orientamenti sessuali sono certamente tollerati, ma non possono intaccare il dualismo di genere. Da qui, l’opposizione di queste “femministe” al DDL Zan sull’omotransfobia, e il richiamo alla centralità di una maternità, che non può ammettere altre vie di concepimento o di figliolanza. E’ evidente come su tale punto queste “femministe” si sentano più rassicurate dalla destra, che si oppone a qualsiasi “snaturamento” della famiglia, piuttosto che dalla sinistra propugnatrice dei diritti. Sempre sulla base di questa concezione “naturalistica” del genere, la possibilità che una donna diventi leader rappresenta una conquista per tutte le donne, a prescindere dalle sue posizioni politiche. Queste ultime sarebbero neutre rispetto all’unica differenza discriminante, ontologica, tra donne e uomini. Ma è davvero così?
E’ questa la terza domanda, alla quale rispondo “no”. Ma non mi voglio limitare a dire, come hanno detto altre che ho citato sopra (e che condivido, comunque, da donna di sinistra), che Meloni premier non mi rappresenterebbe nemmeno come donna perché non viene dal femminismo e perché – banalmente – è di destra. La mia considerazione è più radicale e prescinde dalla Meloni: bisogna emanciparci dallo stereotipo di “una donna sola al comando”, che sia di destra o di sinistra. Dopo decenni di conquiste sui diritti e sul riconoscimento della parità, che hanno consentito a tante donne di fare carriera in tanti campi della società e anche della politica, può una premiership di per sé essere una svolta epocale? A mio parere no; essa si inscrive dentro quello stesso quadro di conquiste, senza aggiungere nulla e senza necessariamente aprire ad altri scenari di effettiva parità tra i generi. Anzi, interpretata nei termini proposti dal documento, oggi la premiership femminile contribuirebbe ad affermare quell’idea “naturalistica” della differenza e la connessa concezione neoliberale di certo femminismo, tutto volto al successo e quindi all’avanzata di singole individue, non per questo naturalmente interessate all’avanzata di tutte le altre. Si tratta cioè di quel femminismo che, lasciandosi alle spalle l’originaria tensione universalistica dei movimenti femminili, non si pone il problema delle diseguaglianze sociali, etniche, territoriali che aggravano le disparità di genere, ma è soddisfatto del fatto che in una società competitiva anche le donne possano competere. Questo risultato, invece, è davvero troppo poco, e direi del tutto inutile, per tutte quelle donne che sono ancora costrette a rinunciare alla maternità per mantenere il posto di lavoro; per quelle che, se fortunatamente la maternità non entra in contraddizione con il posto di lavoro, devono farsi in quattro per fare la madre e lavorare; per quelle che subiscono mobbing o molestie sessuali di ogni tipo, spesso proprio per fare carriera; per quelle che, venute da altri paesi, hanno un altro colore e un’altra religione, e per questo sono discriminate. E potrei continuare all’infinito. A queste donne poco hanno da dire persino le esponenti della sinistra, e forse è anche per tale motivo che tra loro manca ancora una vera leadership[6] femminile.
[1] https://youtu.be/LpNZcRkTlkM
[2] Tra le donne intervenute, Monica Lanfranco, Una donna premier contro le donne, Micromega 16 agosto 2022; Michela Murgia, Post su Instagram del 18 agosto 2022.
[3] https://www.change.org/p/un-orizzonte-politico-comune-a-donne-di-tutti-i-partiti
[4] Natalia Aspesi, La falsa illusione delle femministe che votano Meloni solo perché è donna, Repubblica, 17 agosto 2022.
[5] Marina Terragni, «Aspesi non ci ha capite. Ma Giorgia Meloni premier sarebbe una novità» Intervista a La Svolta, 17 agosto 2022.
[6] Uso questo termine pur detestandolo, per gli stessi motivi accennati pocanzi.
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