La legge di Bilancio per il 2024 del Governo Meloni non ha suscitato un grande dibattito. E’ una manovra semplice, semplice senza grandi svolazzi e con molte incognite per il futuro. Finanziata per due terzi da nuovo debito e per un terzo da tagli distribuiti fra i vari ministeri genera alla fine, considerando anche il lascito negativo del superbonus al 110%, oltre il 5% di deficit. Un valore non di poco conto, specialmente in un periodo di alti tassi di interesse, ma che appare come un valore “atteso” e, in fondo “accettabile”, in considerazione di un Governo al primo anno di Bilancio (quello del 2023 era la fotocopia lasciata da Draghi alla Meloni) e in vista di nuove elezioni.
E’ difficile chiedere in queste condizioni economiche e politiche una maggiore severità nei conti che certamente non avrebbe dimostrato nessun altro Governo se non un Governo tecnico sostenuto da un’ampia e diversificata maggioranza trasversale.
Ma andiamo con ordine. La manovra mette sul piatto 24 miliardi che vanno per la maggior parte alla riduzione del cuneo fiscale per le fasce di reddito più deboli, al sostegno al nuovo contratto del Pubblico impiego ed infine a dotare la sanità di un minimo incremento di spesa. Poi ci sono altre decine di voci che vanno dal sostegno alla denatalità (incentivi per asili nido) alla riduzione del canone Rai, dall’incentivo alle imprese per stilare contratti con fasce deboli del mercato del lavoro all’apertura di alcune possibilità di accedere alla pensione prima di quanto previsto dalla Fornero e così via. Ma si tratta di misure che per la loro episodicità e per il loro scarso peso economico sono annoverabili più nella voce “propaganda” che in quella più impegnativa di “provvedimento”. Anche qui nulla di nuovo. Cose già viste e riviste in molte sessioni di Bilancio di fine anno.
A rendere ancora più “debole” il senso delle scelte fatte, e quindi delle misure proposte, emerge anche il fatto che molti provvedimenti, per esempio quello più importante del cuneo fiscale, hanno una scadenza annuale e non sono invece, come vorrebbe la logica per questo tipo di provvedimenti, una determinazione strutturale di lungo periodo. Si tratta di misure che andranno rifinanziate nei prossimi Bilanci e che, in qualche modo, impegnano le scelte del Governo dei prossimi anni in un contesto di maggiore incertezza per i beneficiari. E questo contrasta con la visione strategica che il Governo vuol dare del proprio “operato riformatore”.
Con la manovra sull’Irpef il Governo intende lanciare un messaggio strutturale al paese verso un minor peso fiscale su lavoratori e imprese. E non c’è niente di male che, in un periodo di congiuntura difficile, il beneficio venga diretto principalmente sulle fasce più deboli e verso il cosiddetto ceto medio che si è deciso in qualche modo di individuarlo in soggetti che stanno fra i 25 mila e i 50 mila euro di imponibile. Magari 50 mila euro di imponibile appaiono un limite un po’ basso per comprendere il “vero ceto medio” specialmente a fronte di una “flat tax” sul lavoro autonomo che arriva a 85 mila euro di reddito facendo emergere una differenza di trattamento fiscale significativa fra tipologie di lavoro abbastanza omogenee fra di loro.
La valutazione della legge di Bilancio finisce qui. Non c’è molto di più da dire. Qualcosa invece rimane da dire se si affianca lo strumento della Legge di Bilancio alla Nadef che è la visione di medio periodo del Governo sui conti dell’economia e sui conti pubblici più in generale.
La prima considerazione da fare è quella relativa alla componente degli investimenti pubblici. Sappiamo bene che gli ultimi venti anni sono stati anni “avari” in termini di spesa per la infrastrutturazione del paese. E che questo è “costato molto” in termini di ritardo nelle nuove infrastrutture e nella manutenzione e innovazione di quelle esistenti. Il crollo di ponti e viadotti è soltanto il fenomeno più vistoso, e drammatico, di questa debolezza. La media annuale di investimenti pubblici dal 2010 al 2021 è stata di circa 43 miliardi pari al 2,5% del Pil. Cifre sconcertanti! Con il PNRR, pari a circa 200 miliardi in cinque anni si poteva ipotizzare che nei cinque anni di operatività del Pnrr (2022/2026) si sarebbe potuto realizzare un volume di investimenti vicino ai 400 miliardi con una media annuale pari a 80 miliardi. Ed invece in questo quinquennio il Nadef prevede investimenti per 325 miliardi. Un valore nettamente al di sotto delle aspettative e delle necessità del paese. Insomma la infrastrutturazione e la manutenzione del paese non riesce a diventare una priorità per il Governo. Anche qui purtroppo in linea con i Governi del recente passato.
La seconda considerazione è il livello del debito del paese che è alto e rimarrà alto per il prossimo periodo. Un 5% di deficit e un debito sul Pil di 140 non è un problema di relazione con la UE ma è un problema forte del paese. La Nazione, come ama dire Meloni, non deve convincere la UE su questi temi ma deve convincere i mercati internazionali. Se i mercati internazionali, che se ne fregano dei complotti, ma stanno molto attenti ai conti dei singoli paesi non si convincono della serietà della gestione del debito e della spesa pubblica del paese lo puniscono. Se ne vanno da altre parti. E allora il Governo deve gestire bene i conti non perché sottomesso ai burocrati di Bruxelles ma perché altrimenti “salta il banco”.
Quindi occorre abbandonare gli slogan populisti e bisogna cominciare a introdurre davvero e non solo a parole una visione strategica e riformista per i prossimi anni. Ci sono dei campi in cui risulta ben visibile la differenza fra gli slogan e la buona gestione. Uno di questi è il sistema pensionistico. Nonostante le scelte lungimiranti della Fornero, uno zimbello in mano alla vandea populista del paese, il peso della spesa pensionistica sul Pil dal 2025 al 2035 andrà dal 15,9% al 17,2%. Un incremento di 1,3% pari a circa 30 miliardi di euro. Questo significa che il sistema pensionistico italiano va “trattenuto” in basso e non “stimolato a crescere” con continue scorribande, regalie e deroghe al nuovo percorso. E quindi è bene che questo Governo di sintonizzi su questa esigenza, ringrazi la Fornero ufficialmente e la smetta, in alcune componenti politiche, di promettere ai cittadini cose irrealizzabili.
Insomma, questa Legge di bilancio forse non poteva essere diversa. Attendiamo questo Governo davanti a sfide più importanti e di più lungo periodo. Ce la farà a procedere su una strada di riforme e di buona gestione dei conti pubblici? E’ difficile dirlo. Saremmo certamente più fiduciosi se il paese si affidasse ad un Governo di unità nazionale. Non tecnico ma politico. Politico in quanto capace di tenere a freno le spinte disfattiste e populiste di gruppi e forze politiche che mirano solo al consenso immediato con favori e bonus a destra e manca.
L’Italia non può scherzare col fuoco. Non lo consentono i suoi conti pubblici. E non lo consentono le tante debolezze accumulate nell’ultimo ventennio. C’è una comunità nazionale che attende segnali di serietà e di riforma vera. Forse non è maggioritaria. Ma è sicuramente centrale per la soluzione dei tanti problemi e per il superamento delle tante criticità che pesano sul “sistema Italia”. Guai a deluderla ancora.
(questo articolo, con il consenso dell’autore, è ripreso dal sito www.thedotcultura.it)
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