Gli sconfinamenti della magistratura italiana (o, per meglio dire, di una parte di essa) nel campo della politica risalgono ormai a molti anni fa; e precisamente al periodo di quelle inchieste giudiziarie passate alla storia con l’espressione “Mani pulite”, che portarono allo scioglimento di due grandi partiti, la Democrazia Cristiana e il Psi, i cui principali dirigenti vennero tutti indagati, arrestati o processati.
Nel suo complesso, la classe dei politici (tranne i comunisti che furono “miracolosamente” salvati) restò annichilita sotto la veemenza di quel pool di magistrati, i quali godevano di un vasto consenso nell’opinione pubblica dovuto ad una crescente ondata giustizialista; cavalcata poi da chi ne era rimasto indenne per motivi allora oscuri, ma che negli anni successivi apparvero chiarissimi: soprattutto quando uno di quei magistrati inquisitori, Antonio Di Pietro, lasciò la toga ed entrò in politica.
Fu tale il senso della disfatta e dell’impotenza, che nel 1993 il Parlamento arrivò a votare l’abolizione dell’immunità per i deputati e i senatori, prevista dall’art. 96 della Costituzione; finendo così per consegnarsi definitivamente al terzo potere dello Stato, il giudiziario, che da quel momento in poi diventò una vera e propria élite in grado di aprire procedimenti su chiunque, darsi autonomamente regole di comportamento, decidere gli avanzamenti di carriera dei suoi membri e persino i loro stipendi.
Il (super) potere della magistratura, nel corso di questi ultimi trent’anni, ha operato in modo particolare ogni qualvolta è emersa una personalità politica di un certo rilievo e che, come in passato Bettino Craxi, ha manifestato l’intenzione di riformare le istituzioni dello Stato, magari partendo dalla responsabilità civile dei giudici e dalla separazione delle carriere tra Pm e magistrati giudicanti.
È così che Silvio Berlusconi è stato sottoposto ad un vero e proprio fuoco incrociato, che lo ha visto indagato (e quasi sempre poi assolto) per una serie di reati, tra cui quello davvero clamoroso e romanzesco: avere progettato, con Totò Riina, di far saltare in aria Maurizio Costanzo.
Più recentemente è stata la figura esuberante di Matteo Renzi, vista come altra pericolosa minaccia nei confronti degli equilibri istituzionali, ad essere diventata oggetto di un’inchiesta giudiziaria, basata su un’ipotesi di reato a dir poco strampalata, come l’avere fondato un partito politico mascherato sotto il nome della sua fondazione Open e, quindi, aver eluso la legge sul finanziamento dei partiti.
In questi giorni tocca, ovviamente, a Matteo Salvini: colpevole innanzitutto di avere dichiarato pubblicamente, la scorsa estate, di aspirare ad ottenere pieni poteri di governo attraverso le libere e democratiche elezioni. E di conseguenza, ecco partita una seconda richiesta di rinvio a giudizio, dopo la precedente per la nave Diciotti bloccata dal Parlamento, sul caso della nave Gregoretti; anche qui i magistrati siciliani (suggestionati, forse, dalla lettura dei libri di Camilleri) intravedono il reato penalmente gravissimo del sequestro di persona, punibile con il carcere senza se e senza ma.
Per questo Matteo Salvini, che a quel tempo era ministro dell’Interno, andrà processato, previa autorizzazione del Parlamento: per avere tenuto, solo per alcuni giorni, dei migranti a bordo di una nave della Marina militare italiana, prima di permettere il loro sbarco.
Praticamente, secondo quei magistrati, si tratta dello stesso reato commesso dai banditi sardi che, alla fine degli anni Settanta, sequestrarono Fabrizio de André e la moglie Dori Ghezzi per estorcere un grosso riscatto; o dai brigatisti rossi che, a Padova, rapirono il generale della Nato James Lee Dozier, fortunatamente poi liberato dai nostri corpi speciali. La vicenda si commenta da sé.
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