Negli ultimi 20 anni i francesi riprovano continuamente a creare un nuovo Maggio 1968. Ricordo i tentativi quasi riusciti.
Ottobre 2005: due adolescenti di famiglia maghrebina restarono fulminati in una cabina elettrica a Clichy-sous-Bois, banlieue parigina, mentre scappavano da un controllo di routine della polizia. Dopo di che per protesta molte banlieues francesi furono messe a ferro e fuoco da teen-ager, soprattutto di origine maghrebina, per circa un mese. Ci furono tre morti e molte distruzioni, soprattutto di auto parcheggiate.
A partire dal novembre 2018 fino a tempi recenti (2022): divampa il movimento dei gilets jaunes, con sommosse, barricate, manifestazioni violente in tutta la Francia. È difficile capire quale fosse precisamente la rivendicazione del movimento. Esso iniziò come protesta contro un aumento delle tasse sulla benzina per le auto, aumento allo scopo di favorire il passaggio all’auto elettrica; ma poi assunse la forma di una ribellione generale contro il governo Macron e “il sistema”. Fu coccolato da forze politiche di estrema sinistra e di estrema destra (anche dal Movimento 5 Stelle italiano, allora già al governo).
2023: un’ondata di proteste e di scioperi si oppone alla riforma delle pensioni voluta da Macron. Questa riforma innalza da 62 a 64 anni l’età minima per usufruire della pensione, e innalza a 43 anni il minino di contributi per avere accesso ai massimi della pensione.
27 giugno 2023: un ragazzo di 17 anni di origine algerina, Nahel Merzouk, che guidava senza patente una Mercedes, viene ucciso da un colpo di pistola sparato da un poliziotto a Nanterre, banlieue di Parigi. Il poliziotto è stato arrestato e messo sotto processo, ma ciò non ha impedito sommosse violente per circa un mese in varie parti di Francia a opera di adolescenti, in particolare di origine araba.
I commenti a questa lunga serie di sommosse sono stati quasi sempre gli stessi, ovunque, e i più scontati. Si ripete: “Attraverso queste insurrezioni, la Francia esprime così un profondo malessere, in particolare il divorzio delle masse dal potere economico-politico del paese. Quanto all’ebollizione della gioventù soprattutto maghrebina, essa illustra il fallimento dell’integrazione dell’immigrazione soprattutto araba nel tessuto della società francese. Non a caso gli atti di terrorismo islamista più spettacolari che hanno insanguinato l’Europa nell’ultimo ventennio sono accaduti in Francia – eccidio dei redattori di Charlie Hebdo nel gennaio 2015, strage del Bataclan nel novembre 2015, e altri massacri vari.” Queste analisi frettolose rivelano la pigrizia mentale dei commentatori.
Alcuni (in particolare The Economist[1]) fanno notare che, per altri versi, la Francia non è affatto in una situazione sociale ed economica peggiore di quella dei paesi europei comparabili, anzi, per molti versi è in una migliore. Non porto qui dati quantitativi, perché grafici e tabelle irritano profondamente un certo tipo di lettori. Ne porterò solo uno: la Francia (dati del 2021) è il paese europeo in cui si fanno più figli (1,84 figli per ogni donna); mentre l’Italia è uno dei paesi in cui se ne fanno meno (1,28). Il fatto che una coppia nei paesi iper-industriali si decida a fare un figlio è considerato segno di ottimismo, di fiducia nella vita e nell’aiuto che le strutture sociali possano dare al mestiere di genitore. A partire da questo dato, dovremmo dedurne che la Francia è il paese europeo più vitale. Le sommosse sarebbero parte di questa vitalità.
La situazione economica dell’Italia è molto peggiore di quella della Francia, e, mentre scrivo (estate 2023) la Germania è già in recessione mentre la situazione francese è abbastanza florida[2]. Non si può nemmeno dire che in Francia le diseguaglianze economiche siano stridenti. Il coefficiente Gini, che calcola il livello di diseguaglianza di un paese, per la Francia è più basso di quello del Regno Unito, dell’Italia e soprattutto degli Stati Uniti – coefficiente più basso significa che un paese è più egualitario[3].
Eppure né in Italia né in Germania si vedono da anni guerriglie urbane, ecatombi di auto, saccheggio di supermercati… Nel 2011 Mario Monti varò una riforma delle pensioni e un regime di austerità economica di tale entità che le riforme volute da Macron sembrano a confronto delle dolci cure quasi palliative. Eppure non ci fu nessuna sommossa in Italia, gli italiani – che in passato erano fra i popoli più riottosi – si piegarono senza protestare a quella cura da cavallo. Da dove nasce allora questa estrema reattività francese?
Ricordo che anche il Maggio 68 – evento mitico per tanti – non fu l’effetto di una situazione di crisi economica e sociale acuta, tutt’altro: c’era grande crescita economica (les Trente Glorieuses), piena occupazione, ampio accesso all’istruzione superiore… Fu una sommossa dovuta all’arricchimento, non all’impoverimento del paese.
Ed è vero che gli immigrati soprattutto arabi sono marginalizzati più che in altri paesi europei? La mia impressione è opposta: i giovani di origine maghrebina si ribellano, e magari svoltano verso il terrorismo jihadista, perché sono stati troppo integrati. Intendo: troppo integrati culturalmente. Dopo tutto, gli adolescenti delle banlieue fanno proprio come facemmo noi nel 1968 (nel maggio 68 ero studente a Parigi), che venivamo dalle migliori università parigine: fanno oggi quello che hanno sempre fatto i francesi, dal 1789 in poi.
Si veda il bellissimo film di Michael Haneke Niente da nascondere (Caché, 2005), e si capirà qualcosa del problema arabo in Francia.
Ogni paese, ogni cultura ha la propria cucina, la propria musica popolare, i propri eroi mitici… e la propria forma di protesta ideal-tipica. Nei paesi latino-americani, la protesta si esprime classicamente con la guerriglia rurale. In Gran Bretagna la protesta popolare si esprime con il voto – la Brexit può essere vista come una sommossa elettorale. Anche il voto per Trump, così come l’assalto al Congress nel gennaio del 2021, sono stati atti di protesta contro “il sistema”; in America però la protesta assume la forma soprattutto di manifestazioni anti-razziste. Ogni cultura ha il suo modo di far udire il proprio malessere – to voice, vociare, in inglese è “protestare”. E questo malessere non è dovuto, come si ripete senza posa, al fatto che aumentino le diseguaglianze economiche, ma a ragioni ben più complesse che hanno a che fare con das Unbehagen in der Kultur, come diceva Freud, col malessere della vita sociale.
In ogni paese tante persone, e non solo figli e nipoti di immigrati, si sentono deluse, infelici, non realizzate… e non è detto che siano le più povere. Questo malessere di solito trova un capro espiatorio, l’Altro di volta in volta supposto responsabile di questo disagio: i politici che rubano, il capitalismo che opprime, la sinistra che ci livella tutti, le grandi banche che “si prendono il pizzo da noi”, la teoria dei gender che imperversa, il persistere del colonialismo, l’invasione degli immigrati o invece il fatto che non ne abbiamo abbastanza… Ma qualunque sia la “testa di turco” che venga eletta come causa fondamentale di tutto ciò che non va, il modo di “vociare” varia da paese a paese.
Nel Maggio 68 era molto viva la memoria della storia parigina, scandita da una lunga serie di rivolte con barricate – 1789, luglio 1830, 1848, 1870 Comune di Parigi… La barricata è vessillo nazionale come il tango per gli argentini, la monarchia per gli inglesi, la pasta e il bidet per gli italiani, la libertà di portare armi per gli americani… I ragazzi maghrebini francesi, a differenza degli arabi in altri paesi europei, bloccano le strade e sfasciano una caterva di auto perché hanno assimilato la tradizione rivoltosa della Francia, il suo culto nazionale per la Révolution. “Fanno come i francesi”, come i gilets gialli. Si ribellano perché ribellarsi è parte integrante della cultura della République, che ha al suo fondamento la Rivoluzione. Non è il 14 luglio, giorno della presa della Bastiglia, la festa più importante per i francesi?
Si ride evocando i libri scolastici che i coloni francesi facevano leggere ai bambini africani nelle scuole costruite per educarli, dove si insegnava loro “nos ancêtres les Gaulois…”, “i Galli nostri antenati…” Si ricordano cose del genere per far risaltare in positivo la strategia coloniale inglese, la quale invece non cercava di acculturare i colonizzati convertendoli alla grandezza della civiltà britannica, ma rispettando le culture locali. Gli inglesi non volevano britannizzare, i francesi invece volevano veramente che arabi e africani sub-sahariani si francesizzassero! Hanno concepito la loro cultura soprattutto letteraria, da François Villon a Jean-Paul Sartre, come universale. Insomma, la Francia ha integrato sempre troppo, non troppo poco.
I meno integrati di tutti in Europa, secondo me, sono i cinesi. Alcuni che sono venuti decenni fa a stento parlano la lingua del paese ospite. Vivono in quartieri cinesi, si sposano tra cinesi, non vogliono che i figli si mescolino con gli indigeni, sentono del tutto estranea la cultura del paese che li riceve… e progettano di tornare da vecchi in Cina. Ma proprio perché sono poco integrati culturalmente che di solito non creano problemi di ordine pubblico.
Questo iper-assimilazionismo francese ha portato alla proibizione per gli studenti di portare qualsiasi segno religioso a scuola. Attualmente il ministro dell’istruzione vuole proibire anche l’abaya, abito femminile tipicamente arabo… anche se non ha un significato religioso. E’ interessante che la maggior parte dei miei amici italiani di sinistra considerino un errore proibire queste fogge a scuola, mentre la maggior parte dei miei amici francesi di sinistra pensa al contrario che la scuola francese sia il santuario della laicità, che anche il velo portato da qualche ragazza o la kippah sulla testa di qualche ragazzo metta in pericolo questo Santuario. A noi italiani fa ridere l’idea che la laicità di una scuola dipenda dalla foggia di qualche studente, mentre per i francesi è una questione serissima, che eccita le loro passioni républicaines. Il principio è quello di un’universalità laica – di cui la cultura francese sarebbe depositaria – che vale per tutti, anche per chi viene da altri continenti.
Da qui il particolare malessere dei figli di immigrati: se non riescono nella vita, o sono convinti che non riusciranno, si scatenano dicendo “non vogliamo essere francesi!” Sputano nel piatto che viene loro offerto dell’essere-francesi. Anche i francesi che non vengono da paesi ex-coloniali ma che non riescono a usare bene i congiuntivi, che non riescono a leggere Le Monde e nemmeno Proust, i cui figli non verranno mai ammessi all’Ecole Normale Supérieure o all’Ecole Normale d’Administration (le grandi scuole che formano la classe dirigente francese)…, tutti i frustrati sociali che hanno avuto forse fraternité e liberté ma non égalité diventeranno anti-sistema e si infileranno il gilet giallo. E sanno che la haute culture francese li appoggerà, perché i grandi intellettuali parigini sono sempre dalla parte di chi si rivolta, e che finalmente su tutti i media del mondo si parlerà di loro. In effetti, oggi, per la massa, il successo significa essere presente sui media. Quando di una persona si dice “sta spesso in televisione!”, si vuol dire che è giunta al vertice del prestigio. Dando filo da torcere ai flics, figli e nipoti degli immigrati “stanno spesso in televisione”.
[1] https://www.economist.com/europe/2023/07/27/beneath-frances-revolts-hidden-success
[2] Di recente Der Spiegel (Michael Sauga, Wettbewerbsfähigkeit im Nachbarland Frankreich – das bessere Deutschland, 5 September 2023) ha scritto un articolo in cui si ribalta una percezione tipica: da molti punti di vista i tedeschi oggi hanno da invidiare i francesi, non viceversa.
[3] Dati della World Bank per gli anni 2017-8: la Francia ha il coefficiente 32,4; la Germania il 31,9; il Regno Unito il 35,1; la Cina il 38,5; gli Stati Uniti il 41,4.
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