Da sempre Mario Draghi, alla domanda di esprimere un giudizio sull’andamento della finanza pubblica italiana, così come emerge dalle dichiarazioni degli esponenti del governo anche nelle sedi ufficiali, ha risposto che lui lo fa solo sulla base di due elementi: i numeri sull’andamento tendenziale e programmatico degli indicatori inseriti nella Nota di Variazione al DEF e l’articolato definitivo della legge di bilancio, neppure quella presentata alle Camere a ottobre, ma quella approvata a fine dicembre e pubblicata in G.F. Ciò che c’è nel mezzo è materia di discussione mediatica, politica e di trattativa con la Commissione europea, che dal suo osservatorio non rileva. Proviamo a metterci nei suoi panni e vediamo cosa ci dice la NADEF 2019.
Noi, come Draghi, riteniamo che il principale problema di finanza pubblica per gli italiani, quelli di oggi e quelli di domani, sia il livello del debito pubblico sul PIL. Ebbene il livello programmato del debito su PIL è 132,0 nel 2020 e 130,3 nel 2021, lo stesso livello del 2017. E’ inutile guardare al dato del 2022, perché è falsato dalle perenni clausole di salvaguardia sull’IVA che ritornano immediatamente nel 2021 ad aumentare fittiziamente le entrate fiscali. Non solo, il livello programmato è nel 2020 superiore al livello tendenziale, per cui il governo italiano dichiara esplicitamente che è proprio nelle sue intenzioni di aumentarlo, ma è anche superiore al dato del Documento di economia e finanza 2019, del maggio scorso.
Altro dato che Draghi considera con molta attenzione è rappresentato dal saldo strutturale, quello al netto delle misure una tantum e della componente ciclica. L’Italia si era impegnata, per evitare la procedura di infrazione, a portarlo a zero nel 2019 e addirittura ad un surplus dello 0,5% nel 2020. Ora è programmato per il prossimo anno ad un deficit dello 1,4%, violando tutte i vincoli ex-ante, entro la regola del così detto medium term objective, posti ai paesi membri dell’Eurozona. Un altro dato interessante è il flusso di privatizzazioni: zero nel 2017, 2018 e 2019, poi quasi per incanto 0,2% in più nel 2020, 2021 e 2022, per cui la dinamica del debito dalla voce flussi finanziari avrà un limitato e anche incertissimo sostegno dalla vendita degli asset pubblici. Ma lasciamo l’osservatorio del Presidente della BCE e portiamoci a quello del governo.
Malgrado queste evidenze, il governo sostiene in tutte le occasioni che “i conti pubblici sono in ordine”, adducendo il fatto che il deficit è programmato al 2,2% del PIL ben al di sotto del 3% di Maastricht, l’uno indicatore a cui di fatto ritiene di doversi attenere (non si sa grazie a quale concessione). L’allargamento del deficit è portato all’attenzione dei cittadini come un successo ottenuto grazie ad una flessibilità di 0,8 percentuali di PIL concessa dalla Commissione, in vena di compassione, probabilmente per lo scampato pericolo del deficit farneticato da Salvini. Tuttavia, quando il Commissario Gentiloni ha visto, prima della verifica della sua nomina al Parlamento europeo, la tabella distribuita dal Comunicato stampa del Consiglio dei ministri deve essersi preoccupato, ma ha dato prova di grande abilità nel confonderne il significato agli altri commissari e ai parlamentari chiamati a “interrogarlo”. E’ più logico pensare che, per carità di patria (l’eurozona), questi abbiano per il momento soprasseduto riservandosi di dire qualcosa in più all’atto della presentazione della legge di bilancio. Spero che nessuno continuerà a dire che l’Europa ci è nemica! Più flessibilità per gli investimenti e riduzione del debito è lo slogan italiano; la prima c’è, ora aspettiamo, non solo noi, la seconda.
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