No, Israele non si è svegliata nella dittatura, dopo che lunedì è stata votata quella parte della riforma che toglie alla Corte Suprema il criterio della «ragionevolezza» come metro per cancellare una legge, criterio che non esiste in nessuna parte del mondo. Si può sostenere che ben poco è cambiato nel potere della Corte di cancellare le leggi che non le appaiano legittime: ne ha diritto per mille altri motivi. Netanyahu cerca di ristabilire un dialogo: ha rimandato a novembre, con la possibilità di postporre ulteriormente la messa in atto della legge e il proseguo della discussione. Lapid gli dà del bugiardo perché è il «burattino degli estremisti e dei messianici». L’attacco è verticale. Prova della forza della Corte Suprema, è tornata in emergenza da una visita in Germania la Presidente della Corte Esther Hayut (in odore di forte antipatia per il governo) per valutare se cancellare la legge appena votata, come richiede al Bagaz (la Corte), l’organizzazione «for the rule of law» dichiarandola «incostituzionale perché cambia la struttura fondamentale della democrazia parlamentare». Anche 72 avvocati dell’associazione che elegge, fra gli altri, la Corte, hanno presentato una lettera di protesta. E sono in grande compagnia: scioperano i medici e Moody, anche se non agisce direttamente, avverte che Israele potrebbe essere preda di peggioramenti economici; l’Istituto Weizman, centro di eccellenza di studi e di invenzioni scientifiche internazionali, è chiuso; altri istituti lo seguono perché la legge «può danneggiare l’accademia». L’avvocato dello Stato Gali Bahar Miara, a sua volta professa antagonista della legge, ha ripreso in mano una decisione del Parlamento di non considerare legittima una sospensione di Netanyahu dal ruolo di primo ministro. L’ha impugnata ieri. Tutto il fronte antigovernativo è decisissimo a spingere lo scontro fino a capriole politiche decisive. E l’ex premier Ehud Olmert, uno dei più aggressivi fomentatori dello scontro, sostiene che Israele si stia avviando verso «una guerra civile».
Stasera, in una Israele sofferente, è la sera Tisha be Av: la ricorrenza, in cui si osserva un digiuno di contrizione, disegna l’identificazione del popolo ebraico odierno con quello che il 9 del mese di Av, nel 70 dC, fu sconfitto dai Romani e subì la distruzione del secondo Tempio e un’indicibile strage: ancora oggi la memoria della sconfitta riunisce gli ebrei a vegliare e piangere sulle pietre davanti al Muro del Pianto. È la memoria non solo del lutto in cui li gettò la violenza del nemico, ma della spaccatura che li rese preda del nemico e sfregiò per secoli il loro destino disperdendoli nella diaspora. In questa atmosfera esplodono le azioni, le parole, i rischi. Due attacchi terroristici armati di mitra hanno avuto luogo, uno contro un autobus; un’esercitazione di Hezbollah si è svolta lungo il confine e Nasrallah contento commenta: «Israele è sulla via dell’estinzione».
Non è vero. Israele è forte e ha un esercito sostanzialmente fedele, nonostante gli obiettori. Ma ieri un’auto con una donna e tre bambini è stata presa a sassate dai manifestanti antiriforma, un’altra auto invece ha pigiato il pedale del gas sui manifestanti, un bullo di un kibbutz ha sparato in aria quando si è visto la strada bloccata. La tensione somiglia a esasperazione, anche se ci si consola guardando i gruppi che tornano sulle scale mobili della stazione ferroviaria, una in salita e l’altra in discesa, che si danno la mano passando con il solito affetto della piccola, eroica società israeliana. I giornali però sono usciti a pagamento con la prima pagina nera in segno di lutto, gli scioperi si moltiplicano mentre la forza speciale degli hezbollah Radwan, forza di punta degli hezbollah, si esercita al confine.
(questo articolo già pubblicato da Il Giornale è ripreso con il consenso dell’autore)
Lascia un commento