A distanza di mezzo secolo esatto dall’uccisione del Commissario di polizia Luigi Calabresi, la rilettura del testo che oltre settecentocinquanta intellettuali avevano firmato meno di un anno prima, per chiederne la destituzione in quanto responsabile e autore materiale della morte dell’anarchico Pinelli e definito ‘torturatore’, mi fa ancora venire la pelle d’oca.
E non tanto per il testo in sé, ma per i nomi di intellettuali e artisti che compaiono in quella lunga lista. La si trova facilmente in molti siti internet ed eviterò qui di fare nomi per evitare di incorrere nello stesso meccanismo che quegli intellettuali avevano allora messo in atto, la gogna e il mettere sciaguratamente alla berlina una persona. Fare nomi sarebbe contribuire ad un discredito inutile e stupido per quelle firme, già messo in atto da tempo nei loro confronti, altrettanto e ancor di più strumentalmente di quanto loro stessi avevano fatto (interessanti sono però nella lista di intellettuali e artisti contro Calabresi le firme veneziane, non poche).
Per altro in quei miei vent’anni tondi, nel ’72, abitavo con famiglia e genitori e studiavo a Milano, la mia Università era la famosa ‘Statale’ e io letteralmente ‘bevevo’ quel clima manicheo, con qualche incertezza da che parte stare; per poi scegliere, o piuttosto “farmi scegliere” in quel momento (per quanto combattuto e mai convinto del tutto) la parte che il movimento giovanile e culturale alternativo aveva inequivocabilmente sposato, anche perché l’altra mi pareva visceralmente inaccettabile e, certo, esagerando, vi ci vedevo la sagoma netta del fascismo.
Perché, se la storia è ricostruzione fedele e obiettiva non solo dei fatti ma anche delle idee e delle convinzioni più o meno etiche, delle disposizioni antropologiche che idee e rapporti sociali generano, bisogna raccontarla tutta per capire. E quelle firme, che mi sono apparse ad un certo mio punto di revisione personale scandalose, con il senno di poi storicamente sono diventate accettabili e persino comprensibili.
Ingessata in quegli anni la sinistra partitica (il PCI era ancora appunto ingessato nel suo segretario Luigi Longo), la sinistra culturale per conto suo si stava radicalizzando come mai era avvenuto prima, molto incline allo scontro duro, anche se in quello di piazza inviava le sue falangi militanti, riservando per sé i salotti, reali o metaforici che fossero. Ma un perché non mancava, se è vero che dopo un quindicennio di crescita economica, in Italia le durezze del sistema capitalistico si facevano sentire e il disagio sociale riemergeva con forme inedite e spingeva all’estremismo. Era già, almeno quella, una sinistra da ZTL, ma ragioni generali di disagio e di riscatto dal disagio, per quanto non direttamente suo, non le mancavano certo. E buone ragioni anche nel delineare un avversario più chiaramente politico.
Infatti non sono illazioni, ma è storia acclarata: in Italia anche i governi e il potere, soprattutto politico, che dominavano le istituzioni a cavallo tra ’60 e ’70, non erano estranei al clima di contrapposizione fortemente ideologizzata che si era creata in quegli anni e probabilmente l’avevano alimentata per quanto con fini confusi. E’ ben noto, e qui lo ricordo solo per mettere ordine, che ampi apparati dello stato, servizi segreti, ambienti più o meno militari con tendenze golpiste, frange che contaminavano anche forze di polizia e forse la stessa magistratura, si erano avviluppati tra di loro in un unico fronte oscuro. Probabilmente responsabile di aver orchestrato trame (lo avrebbero fatto anche in futuro), tutte tese a cercare di arginare, confusamente appunto, la possibilità di una crescita di consensi del variegato fronte di sinistra, a cui i movimenti del ’68 avevano fatto da detonatore. Fili diretti e indiretti riconducevano al partito (meglio, a settori e segmenti di quel partito) di tutte le maggioranze di allora, la Democrazia Cristiana; e si percepiva, anche in alcune biografie personali di uomini di apparato, un certo odore di continuismo con persone non estranee alla cultura politica del regime fascista di trent’anni prima, in particolare della sua espressione ‘repubblichina’, che non erano poi così distanti nel tempo, anche rispetto ad oggi (il ’72 è molto più lontano dal nostro ’22 di quanto lo era dal ’42). Tutti sanno che la costruzione della pista anarchica della strage di Piazza Fontana è dentro questo grande contenitore.
Non solo. La morte dell’anarchico Pinelli è ancor oggi avvolta in un sostanziale mistero, con la variante che è abbastanza certo che il suo non era stato un suicidio, secondo i canoni della volontarietà del suicidio. Come è altrettanto certo che il commissario Luigi Calabresi, suicidio o omicidio che fosse non poteva essere additato in nessun modo come responsabile diretto. Le sentenze sono state chiare su questo aspetto che riguarda il coinvolgimento del Commissario.
Mi si chiederà allora dove voglio arrivare ( “ma dove vuoi arrivare?”)
Al fatto che non è possibile extrapolare la discesa in campo, così dura e ritenuta a posteriori irresponsabile e seminatrice d’odio di quegli intellettuali e artisti contro Calabresi, da questo clima, da queste oscurità, da questi ‘riflessi pavloviani’ nello schierarsi di allora, in tempi in cui i giudizi, da una parte e dall’altra, erano solo e sempre politici e si davano a profusione senza badare a prove.
E tutto veniva ‘usato’ politicamente anche in seguito e a lungo. In questi cinquant’anni, man mano che si dipanava qualcosa in quelle vicende, ma mai del tutto, non sono mancati i tentativi di screditare i settecentocinquanta firmatari da parte di testate e opinionisti, questa volta attribuibili alla destra, additandoli quasi come mandanti politici del delitto Calabresi, più ancora dei condannati Sofri e Pietrostefani. Si può star sicuri che non saranno mancati anche in questa celebrazione cinquantenaria. D’altra parte, la revanche di destra verso il mondo dell’intellighenzia di sinistra, dopo quei ‘settanta’ di piombo, ha avuto in seguito nel berlusconismo molto fiato e spazio e un contenitore più esplicito e scoperto contro il cosiddetto pericolo comunista (a proposito val la pena osservare che alcuni di quei bei nomi, firmatari del famoso appello contro Calabresi, sarebbero passati armi e bagagli proprio nel fronte berlusconiano, un bel modo di farsi perdonare, senza darsi pena di ritrattare).
Si possono però trarre alcune considerazioni finali di fondo.
LUIGI CALABRESI ERA UNA PERSONA RETTA E PER BENE e aveva intrapreso il suo compito di Commissario di polizia con un profondo senso del servizio allo Stato Democratico, con le maiuscole e la medaglia d’oro assegnatagli lo ha riconosciuto senza mezzi termini. Sapeva che avrebbe fatto quella fine e non è fuggito, come pure avrebbe potuto. Certo, a Milano gli erano state assegnate fin dall’inizio delicate indagini e controlli sulla sinistra extra parlamentare e anarchica, ma è ben noto che le aveva condotte in modo equilibrato e controllato, stabilendo anche buone relazioni con persone di quel mondo e con lo stesso Pinelli (noto nelle cronache lo scambio di libri tra i due, come doni reciproci), ed è difficile perciò immaginarlo come rozzo esecutore d’intrighi. Gli intrighi sicuramente c’erano, ma lui non ne era stato né attore protagonista, né semplice comparsa. In più, l’ho già accennato, è stato accertato da tutte le indagini che il commissario Luigi Calabresi era assente dalla stanza dalla cui finestra era caduto Pinelli, basterebbe questo. Non si tratta di farne un santo o un beato (si è parlato anche di questo), ma di ricordare una persona onesta negli atti e nel pensiero. Un carattere che si trova impresso nei modi e nella profondità del figlio Mario, oggi giornalista affermato, che sul padre e su quella vicenda ha scritto pagine splendide di ricordo e ricostruzione.
LA CONTRAPPOSIZIONE SINISTRA DESTRA SI ERA ACUITA ED ESASPERATA fino a quel ’72, che, se vogliamo è l’anno dell’esordio di una nuova escalation di violenza, un cambio di passo. Si era usciti dal rituale scontro DC-PCI del dopoguerra, aspro, ma istituzionale. Il Sessantotto, incubato nel decennio precedente da un movimento laico, allegro, ecumenico, libertario, a-politico, trasversale e persino pacifista, si era alla fine manifestato, involuto e abbruttito con l’unica veste organica di dottrine politiche rivoluzionarie in circolazione (altre non ce n’erano di aggiornate): il marxismo leninismo e le sue varianti, allargandosi per fili sociali carsici in un fronte di sinistra ben più ampio della sua base militante e di consenso. Va da sé che la destra, nell’immaginario collettivo della variegata sinistra di allora, era la Democrazia Cristiana tout court e i neofascisti li si assegnava allo stesso suo fronte, senza distinguo.
IL MONDO INTELLETTUALE DI SINISTRA AVEVA ESPRESSO NEL DOPOGUERRA UN’EGEMONIA CULTURALE su tutta la società, egemonia che in qualche modo aveva finito per bilanciare l’esclusione cronicizzata della sinistra dal governo e dalle maggioranze politiche. La politica no, ma la cultura di sinistra governava eccome nella società laddove non erano necessarie intermediazioni politiche. Le paludate case editrici Einaudi e Laterza per esempio, con la loro aura di indipendenza, avevano pubblicato a profusione in tutti i campi delle scienze umane una saggistica che complessivamente dava una lettura e un’interpretazione di sinistra della storia e del ruolo della cultura. Il settimanale l’Espresso, pur con una matrice ancora più indipendente e laica, aveva spesso appoggiato e incoraggiato quest’egemonia e del resto era stato l’Espresso ad ospitare le firme dei settecentocinquanta intellettuali contro Calabresi. Una condanna a posteriori asettica dei settecentocinquanta e una speculazione sul loro ruolo, senza considerare questa storia di egemonia, quel clima e quella contrapposizione, sa di altrettanto strumentale oggi e di incapacità di storicizzare. La capacità di storicizzare, senza indulgenza ma con coraggio, anche in ciò ha dimostrato il figlio Mario.
(il resto dell’articolo è possibile leggerlo su www.luminosigiorni.it)
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