Chi osservi senza pregiudizi la situazione internazionale non può non prendere atto che essa è sempre più caratterizzata dall’espandersi dell’influenza dei Paesi autoritari a danno di quelli democratici.
Il caso più evidente è quello della Russia. L’attuale pressione militare sui confini dell’Ucraina – che ha come scopi immediati quello di rendere definitivo il distacco della Crimea e del Donbass e soprattutto quello di impedire l’adesione ucraina al Patto Atlantico e come obiettivo di medio periodo quello di riportare Kiev sotto il controllo di Mosca – è solo una tappa del programma putiniano che mira a ricostituire – in forme più moderne – l’egemonia grande russa sui territori che formavano l’Unione Sovietica. Non solo la Bielorussia del dittatore Lukashenko è strettamente legata alla Russia di Putin ma la stessa Russia occupa militarmente le regioni georgiane dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale mentre la parte orientale della Moldavia, la Transnistria russofona, si è resa di fatto indipendente e si è posta sotto la protezione di Mosca. Infine c’è da tener presente che alcune delle repubbliche dell’Asia centrale che dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la conquista dell’indipendenza si erano poste sotto la protezione degli Stati Uniti concedendo anche basi militari sul proprio territorio hanno col tempo rovesciato la loro posizione ristabilendo rapporti di sostanziale subordinazione con la Russia.
Se il disegno restauratore di Putin è del tutto trasparente non di minore rilievo è quello della Cina di Xi Jinping. L’Occidente ha accettato senza una apprezzabile reazione la violazione del trattato concluso con il Regno Unito il 19 dicembre 1984 che ha consentito il passaggio di Hong Kong sotto la sovranità cinese dal 1° luglio 1997 e che prevedeva il mantenimento del vigente status politico, economico e sociale per i successivi cinquanta anni. La decisione del governo cinese di consentire la partecipazione alle elezioni solo ai candidati che dessero garanzie di “patriottismo”, cioè di piena adesione alla politica di Pechino, ha annullato di fatto quella garanzia e ha cancellato la più consistente sacca di resistenza alla dittatura del Partito comunista cinese. Mentre la lunga fase delle proteste della popolazione di Hong Kong è stata seguita con attenzione dai media e dai governi occidentali, la stessa cosa non si può dire per la sua conclusione e per la violazione del trattato del 1986 che è passata senza apprezzabili reazioni da parte occidentale.
Ancor meno rilievo è stato dato – sia a livello politico che mediatico – a un recente e gravissimo episodio: il sorvolo di Taiwan da parte di una squadriglia aerea cinese composta da ben venticinque apparecchi. Non è la prima volta che la Cina compie gesti del genere, ma mai prima era stata impiegata una forza così consistente. Sono evidenti gli scopi di questa dimostrazione militare: in primo luogo riaffermare, in linea di principio, la sovranità cinese sull’isola, che il regime di Pechino non ha mai cessato di rivendicare, indebolire le posizioni indipendentiste presenti nell’isola che si sono col tempo affermate mettendo in minoranza il vecchio Kuomintang che non aveva mai rinnegato i legami dell’isola con la terraferma; infine non si può escludere che una provocazione così pesante mirasse a suscitare una reazione della contraerea taiwanese: l’abbattimento di qualche aereo cinese avrebbe dato l’occasione per una ritorsione militare in forze. In questa occasione i dirigenti di Taiwan non hanno reagito alla provocazione ma non è certo escluso che essa non si ripeta in futuro.
A questo disegno espansionistico cinese in direzione di Hong Kong e di Taiwan si potrebbe aggiungere – e questo sarebbe un capitolo vastissimo – quello di tipo economico, rivolto in particolare, ma non soltanto, in direzione dell’Africa. Ma senza entrare in un capitolo così complesso basterà ricordare l’appoggio che Pechino sta dando alla giunta militare che ha preso il potere in Myanmar assicurandosi così un’altra posizione di rilevante importanza strategica.
Se quello russo e quello cinese rappresentano i due casi più evidenti della rinnovata spinta espansionistica degli Stati autoritari, non può certo essere trascurato il fatto che la stessa politica è seguita da altri due Stati autoritari, la Turchia e l’Iran. La Turchia di Erdogan non cessa dal riaffermare la sua politica neo-ottomana, che mira – anche in questo caso, come in quello della Russia, in forme nuove – a riconquistare posizioni che era andata perdendo negli ultimi due secoli. L’espressione più visibile di questa politica è il tentativo di riaffermare la sua egemonia in Libia e di non rinunciare a una presenza in Siria; ma non va trascurato il lavoro di propaganda, meno visibile ma non per questo meno insidioso, praticato nei confronti delle minoranze musulmane dei Paesi balcanici.
Per quanto riguarda l’Iran, non è mai venuto meno il suo obiettivo di dotarsi dell’arma atomica, mentre la sua presenza – anche attraverso la diffusione dello sciismo – resta forte in vaste aree del Medio Oriente. In particolare la guerra civile in Yemen non sembra avviata a soluzione e ciò fa sì che anche nella parte meridionale della penisola arabica l’influenza iraniana si faccia sentire.
Il quadro della situazione mediorientale si completa con l’annuncio del completo ritiro, entro il prossimo 11 settembre, delle truppe americane dall’Afghanistan che sarà inevitabilmente accompagnato da quello degli altri contingenti militari della NATO, compreso quello italiano. Le previsioni generali sono che il debole governo di Kabul non reggerà di fronte a una rinnovata offensiva dei talebani e che nel Paese tornerà ad affermarsi un regime autoritario e oscurantista.
A fronte di questa generale offensiva degli Stati autoritari – non coordinata ma proprio per questo più pericolosa – non si può dire che la reazione del mondo occidentale sia adeguata. Solo Israele sembra consapevole del pericolo che la volontà iraniana di dotarsi dell’arma atomica rappresenta per l’equilibrio del Medio Oriente e quindi per la pace mondiale. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, Joe Biden non ha ancora definito quale sarà la politica estera americana sotto la sua presidenza e per il momento si limita a rintuzzare i comportamenti più aggressivi di Mosca. Ma la vera debolezza continua ad essere costituita dalla mancanza di una politica comune dell’Unione Europea, perfino nei confronti delle minacce che la riguardano più da vicino. Resta lo scudo della NATO, che però per sua natura non ha un’estensione globale.
E’ possibile che, se l’aggressività degli Stati autoritari aumenterà ancora d’intensità, ciò provocherà una ridefinizione dei comportamenti dei Paesi democratici e una reazione adeguata.
(questo articolo con il consenso dell’autore è ripreso da La Voce Repubblicana del 19.04.2021)
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