La contemporanea disponibilità dei dati sul primo semestre 2022 di ISTAT (stock di occupazione, cioè numero di occupati nella media della settimana di riferimento nel mese) e INPS (flussi occupazionali, cioè dinamica delle assunzioni e cessazioni in un arco di tempo definito) consente osservazioni interessanti. Tra queste in primo luogo il definitivo assestamento su dati ante covid, o addirittura superiori, per l’occupazione. Il numero di occupati è pari a 23.150.000 (+3% rispetto a un anno fa) di cui il 21,5% (+0,7%) autonomi, 13,6% dipendenti a tempo determinato (+8,3%) e 65% (+2,7%) a tempo indeterminato. Il tasso di occupazione sale al 60,2%, aumentando in tutte le fasce di età, in particolare in quella tra 15 e 34 anni (+3,4%). Tra i dipendenti l’82,7% è a tempo indeterminato, il 17,3% ha contratti a termine di vario tipo; prima della crisi covid i lavoratori a termine erano il 16,8% del totale: l’incremento c’è, ma è minimo; peraltro, per dar l’dea della dimensione della crescita dei contratti a termine, nel 2016, alla ripresa dopo la crisi internazionale, era del 15%. Si tratta di una crescita reale ma ben lontana dal mettere in discussione il rapporto di lavoro stabile come modello generalmente applicato. Sul perché della crescita dei contratti a termine vi sono poi spiegazioni razionali rispetto alla vulgata della gran parte del sindacato e della sinistra politica per cui si tratta di una scelta del capitale finalizzata a massimizzare i profitti minimizzando i costi per le tutele per i lavoratori, che esamineremo dopo. Se esaminiamo i flussi (assunzioni – cessazioni) vediamo che in termini tendenziali (cioè paragonati al dato di 12 mesi prima) il dato di crescita delle assunzioni con contratti stabili è del 144% e quello dei contratti a termine del 107%.
Un altro dato da considerare è quello degli orari di lavoro: i part time in essere (dati di stock) sono diminuiti dell’1,1% rispetto a 12 mesi fa. Contestualmente, e coerentemente, le ore lavorate cumulative sono aumentate dell’11%, e quelle procapite del 5,4%, a dimostrazione di un trend che nei fatti incrementa il contratto a tempo indeterminato e full time.
Parliamo ora dei contratti a termine: se esaminiamo il flusso di assunzioni vediamo che il gruppo di gran lunga più corposo di contratti a termine è stato attivato nel comparto turismo-alloggio-ristorazione (163.000 unità), pari al 91,8% delle assunzioni nel settore. I giornali hanno poi dato molto rilievo al fatto che nel settore “artistico e intrattenimento” il 63% dei contratti dura un solo giorno: ma si tratta di numeri minimi (circa 13.000 contratti, che di solito vengono rinnovati più volte alle stesse persone) ed è una caratteristica da sempre di quel settore, per motivi facilmente immaginabili. In nessun altro comparto troviamo risultati neppure lontanamente comparabili: anzi nel metalmeccanico le assunzioni a tempo indeterminato sono il doppio di quelle a termine, e in un altro settore in cui sono molto cresciute le assunzioni, quello delle costruzioni, le assunzioni a termine non superano il 29% del totale. E’ evidente che il dato del settore turismo e di quello spettacolo sono pesantemente condizionati dalle caratteristiche di stagionalità e discontinuità, che d’altra parte sono strutturali, e non può essere ribaltato sull’insieme del sistema occupazionale. In parte analoghe considerazioni valgono anche se facciamo riferimento ai flussi in relazione alla dimensione delle aziende: nelle aziende sotto i 15 dipendenti gli avviamenti a tempo determinato sono stati il 77% del totale, in quelle superiori ai 100 dipendenti il 44%. Anche questo un dato storico sostanzialmente invariato: nel 2018 erano il 74% per le imprese under 15 e il 42% in quelle over 100. In sostanza il lavoro a termine è diffusissimo, al di là del dato fisiologico, nelle piccolissime imprese e nel comparto riconducibile al turismo. Si tratta di realtà imprenditoriali che operano in condizioni particolari, di discontinuità del business e di incertezza e marginalità nelle catene del valore. Ed è in questa fascia che alligna il lavoro nero, parziale o totale, i lavori sottoretribuiti, i contratti pirata. Una questione che va affrontata in termini seri e non di propaganda, sapendo che serve ben più di leggi repressive (esistono già e il lavoro nero le elude da sempre) e di incentivazioni al lavoro regolare e a tempo indeterminato (ce ne sono già ma gli incentivi non pareggiano, ovviamente, la convenienza al lavoro nero) se le imprese per le loro caratteristiche produttive non hanno bisogno di questo tipo di rapporti di lavoro.
Un altro luogo comune, recente ma molto diffuso è quello della Great Resignation: la Grande Dimissione. Affascinante per farci articoli di giornale e utile in effetti per stimolare un opportuno dibattito sulla qualità del lavoro e sul ruolo dello stesso in una società che si avvia a cambiare fortemente le modalità e il ruolo del lavoro umano. Ma fuori luogo se spacciato per novità epocale, o come esito di una rinascita culturale indotta dalla tragedia del Covid. Come al solito basta guardar dietro alla superficie dei numeri invece di farsene impressionare. Vediamoli: innanzitutto prendiamo in considerazione solo le dimissioni da contratti a tempo indeterminato (quelle da contratti a termine hanno caratteristiche del tutto diverse). Per prima cosa possiamo notare che il numero delle dimissioni nel 1°semestre è imponente: 418.141. Ma se approfondiamo vediamo che nell’analogo periodo del 2018 erano state addirittura 437.477! E’poi naturale che nel 2022 vi sia stato un incremento delle dimissioni rispetto al 2021 (+145%) quando le cessazioni di rapporti di lavoro erano limitate per la crisi Covid sia da misure normative (divieto di licenziamento) sia da condizionamenti psicologici legati all’incertezza sia dal sostanziale congelamento del mercato del lavoro. Per la stessa ragione nel medesimo periodo sono aumentati i licenziamenti ad opera delle aziende: +191%! Ossia: il venir meno delle restrizioni legate al Covid ha portato ad un incremento delle dimissioni ma ad un incremento ancor maggiore dei licenziamenti “tradizionali”. Inoltre la percentuale di dimissioni rispetto al totale delle cessazioni è stato del 45,6% nel 1° semestre 2022, ma era del 52,4% nel 2017 e del 56,1% nel 2018: difficile immaginare, con questi numeri, che siamo di fronte ad un fenomeno epocale di fuga dal lavoro; siamo all’interno di un trend normale e consolidato, che peraltro richiama un dato noto da parecchio tempo: il 30% dei contratti a tempo indeterminato non sopravvive al primo anno di esistenza, e nel 60% dei casi si chiude con le dimissioni volontarie del lavoratore.
In definitiva: i dati occupazionali più recenti sono buoni, coerentemente con gli indicatori economici generali. E’ opportuno tener presente che il futuro è ampiamente incerto, e che di conseguenza questa situazione (che peraltro presenta ancora enormi problemi in relazione al mismatch tra offerta e domanda di lavoro) ha ampi margini di peggioramento. Ciò detto, resta difficile da comprendere l’atteggiamento di media e forze politiche che puntano ad enfatizzare oltre misura, ignorando talvolta la verità dei numeri, solo elementi che presentino una connotazione negativa scelti in modo superficiale e/o strumentale. Un “al lupo, al lupo” tanto gratuito quanto dannoso per la conoscenza della realtà da parte del pubblico.
(questo articolo è uscito su Mercato del Lavoro News n. 135)
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