Qual è lo stato di salute della nostra democrazia?
Questo tema è antico quanto la democrazia stessa. Infatti, omettendo il dibattito sulla democrazia delle polis greche che ci porterebbe troppo lontano, e attestandoci sul piano della sola democrazia dei moderni, nel 1840 Alexis de Tocqueville metteva sotto la sua lente critica certe tendenze già allora in atto nella democrazia americana. Secondo lo studioso francese, la prevalenza della passione dell’eguaglianza sul principio della libertà avrebbe portato a lungo andare alla massificazione, al conformismo e alla perdita di quello spirito pubblico che aveva sostenuto in origine la battaglia per la libertà e l’indipendenza del popolo americano.
Questa corrente di riflessione, che è passata attraverso il pensiero di Hannah Arendt e ha avuto sviluppi anche in alcuni autori francesi (penso a Claude Lefort), è approdata alla definizione di una forma di regime degenerativa rispetto alla forma democratica ideale, ossimorica nella sua espressione, e tuttavia ritenuta possibile secondo una certa evoluzione di componenti interne, che è la “democrazia totalitaria”: cioè l’idea che le tendenze uniformanti delle società di massa, che puntano ad omologarsi sugli stessi valori – indotti dalle economie basate sul consumo – conducano i popoli a pensare allo stesso modo sulle questioni più importanti della vita pubblica, con l’effetto di esaurire e chiudere ogni reale spazio pubblico e di rendere impossibile di fatto il pluralismo delle idee. Questo regime sarebbe democratico, perché tutti comunque possono continuare ad esprimersi, ma totalitario perché le condizioni sociali, economiche e culturali non permettono nessuna diversificazione di posizioni e quindi nessun confronto libero di idee.
Questo sembra essere il retroterra teorico delle posizioni che oggi criticano lo stato di salute della nostra democrazia, parlando di dittatura sanitaria come effetto dei provvedimenti assunti per contrastare la pandemia da Covid-19: il fatto che la stragrande maggioranza della popolazione abbia seguito prima le restrizioni del distanziamento sociale, poi la raccomandazione imperativa della campagna vaccinale, e infine l’uso del green pass come strumento selettivo di godimento di certi diritti, dimostrerebbe che la nostra democrazia ha raggiunto quel livello di assuefazione che annulla ogni forma di opposizione, quindi di pluralismo, e quindi di libertà, con il consenso di tutti o quasi tutti.
Ma è davvero questo il processo di indebolimento e di degenerazione di cui soffre oggi la nostra democrazia?
Provo a proporre qui un altro punto di vista, per vedere se arriviamo agli stessi risultati. Nel 1984 Norberto Bobbio pubblicava un aureo libretto, una raccolta di articoli usciti tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, che si intitolava Il futuro della democrazia (nel 1995 è uscita una seconda edizione che faceva tesoro del crollo del muro di Berlino e della fine del blocco sovietico, ma il nucleo teorico non aveva bisogno di correzioni). Il tema sviluppato era quello delle “promesse non mantenute della democrazia”, che venivano di seguito così elencate: la persistenza del potere invisibile, l’esistenza ancora delle oligarchie, la mancata soppressione dei corpi intermedi, la rivincita della rappresentanza degli interessi su quella degli individui, l’abbandono del progetto di formazione di cittadini educati alla democrazia.
Queste promesse non mantenute sarebbero la risultanza dei processi di adattamento della democrazia ideale nella democrazia reale, cioè la traduzione pratica dei principi nei contesti territoriali, culturali e politici. Solo la prima, quella del potere invisibile, resta secondo Bobbio una contraddizione insanabile, perché non ci può essere compromesso tra l’istanza democratica di una sfera pienamente pubblica e uno spazio inaccessibile ai più dove si assumono decisioni che riguardano tutti. Le altre promesse non mantenute, invece, sarebbero frutto dell’attuazione pratica delle regole democratiche. Le elite (o oligarchie) non colliderebbero alla radice con la democrazia, perché nella competizione democratica è naturale che si formino e si selezionino i gruppi più forti: la condizione essenziale che siano plurali, cioè siano in grado di offrire proposte diverse tra cui i cittadini possano scegliere. Sempre la procedura competitiva del gioco democratico ha fatto sì che non si attuasse il principio individualistico, cioè l’idea che i cittadini fossero i soli soggetti a definire lo Stato; nella realtà, i cittadini si organizzano, in gruppi, partiti, movimenti, ed è attraverso questo canale che promuovono la rappresentanza, e mettono a confronto i diversi interessi.
Infine, l’idea che il cittadino democratico, educato a ciò, “investito del potere di eleggere i propri governanti avrebbe scelto i più saggi, i più onesti, i più illuminati tra i suoi concittadini, si può considerare come l’effetto di un’illusione”. Secondo Bobbio, questo auspicio semplicemente impossibile, e bisogna abituarsi al fatto che i cittadini scelgono secondo gli interessi che in quel momento sentono più urgenti, e non secondo un giudizio morale sulla classe politica.
Questa verità l’abbiamo verificata più volte, durante la nostra storia repubblicana, e c’è da dire che i partiti si sono ben acconciati a tale realtà, cercando di rispondere alle istanze più forti del momento piuttosto che badare alle virtù dei propri leader.
Alla fine di tutta questa disamina, Bobbio conclude che non di crisi o di degenerazione della democrazia si deve parlare, ma di trasformazioni che seguono le diverse fasi storiche, e che nessuna di queste trasformazioni è tale da snaturare il senso che noi attribuiamo alla democrazia e tantomeno da evocare altre forme di Stato. Non ce n’è una migliore.
Ma proprio seguendo il ragionamento di Bobbio, non possiamo accontentarci di queste conclusioni, perché le trasformazioni sono l’esito di adattamenti portati avanti da soggetti politici, e non dobbiamo subirli come naturali, ma costruirli anche con la nostra partecipazione o perlomeno col nostro consenso.
Tolta l’illusione del cittadino ben educato e passata in giudicato l’organizzazione in gruppi e partiti, che è diventata la forma da cui nasce la rappresentanza (e la democrazia dei moderni, la democrazia rappresentativa), restano due promesse non mantenute che a mio avviso costituiscono oggi un problema rilevante e denotano la scarsa qualità della nostra attuale democrazia: il potere invisibile e il ruolo delle oligarchie.
Sul primo problema, avremmo bisogno di un dibattito maggiore nella politica. Invece, esso sembra quasi un rimosso che denota un atteggiamento o di paura o di connivenza. A distanza di molto, troppo tempo, sono venute alla luce le trame che sono state causa delle stragi terroristiche: da piazza Fontana del 1969 alla stazione di Bologna del 1980, alla strage di Via Georgofili a Firenze del 1993, per ricordarne solo alcune. Queste trame che sono via via emerse hanno visto coinvolti servizi segreti deviati, massoneria, gruppi neofascisti, mafia. Quanto pesa il potere invisibile sulle decisioni politiche del paese? Si manifesta soltanto con la violenza, o agisce anche con strumenti pacifici, occupando sedi di rappresentanza e di gestione del potere? E la politica è strumento o anche attore dei poteri occulti?
Anche prendendo atto della persistenza dei poteri invisibili, a quest’ultima domanda dovrebbe essere data risposta. Perché un conto è se la classe dirigente di una democrazia contrasta questi poteri, in coerenza con il mandato costituzionale, altro conto invece se ne è condizionata. E poiché forme di condizionamento sono state rilevate, un tempo ciò avveniva per questioni ideologiche, oggi accade per banale ricerca di consenso.
Sulle oligarchie, è necessario dedicare più di spazio di riflessione. Ne ha parlato recentemente anche Nadia Urbinati, con Pochi contro molti. Il conflitto politico del XXI secolo. In democrazia il potere deve circolare, ma ora constatiamo che nelle democrazie cosiddette complesse si determina una crescente concentrazione del potere nelle mani di pochi: quelli che sono più ricchi e possono investire proprie risorse anche nella competizione politica, quelli che sono esperti dei meccanismi di funzionamento dei mercati globali e vengono consultati per decisioni compatibili con le dinamiche finanziarie, quelli che occupano i vertici degli apparati burocratici (che già Max Weber nel 1920 vedeva come decisori finali sopra la politica). Se il potere si esercita a questo livello, la soglia di accesso è molto alta, ed esclude di fatto la gran parte dei cittadini. Oggi vediamo che è la stessa politica che in parte si immedesima con questi attori di potere, in parte si affida loro.
E’ il tema che nel linguaggio corrente si esprime nel rapporto tra tecnica e politica, ma a mio avviso questa è una definizione riduttiva. Perché nel mercato politico (cioè nello spazio della concorrenza politica, che mutua dall’economia le leggi di funzionamento interno), non c’è soltanto il primato dell’idea che vince il più forte, ma c’è anche un preciso profilo di chi sia il più forte: chi ha le risorse, chi ha avuto un’alta formazione (meglio se all’estero), chi ha competenze economiche e rapporti con le principali istituzioni finanziarie.
In questo modo si è andata formando un’ elite, alla quale si attinge quando la politica democratica non sa più scegliere. Come è accaduto ripetutamente in Italia, in ultimo con il governo Draghi.
Sia chiaro, non ho nulla contro i “migliori”, anzi spesso ultimamente tendo anch’io a cercare fuori dalla politica, fuori dai partiti, le persone più capaci e competenti come quelle da impegnare in responsabilità pubbliche, a livello locale e nazionale: società civile versus partiti.
Il punto è a monte. Perché la politica spesso deve abdicare di fronte a problemi che appaiono più grandi di lei? Non è che nel meccanismo di organizzazione e selezione della rappresentanza si è tradita l’istanza democratica più feconda, cioè quella della possibile partecipazione di tutti alla vita pubblica della propria comunità? Oppure, non è giunto il momento di produrre adattamento e trasformazione di questa novità, tale da non snaturare il nucleo originario della democrazia, ovvero il governo di tutti?
Intendo dire che, o si interviene sui partiti, e riusciamo a regolamentarne il funzionamento per garantire la loro stessa democraticità, o si democratizzano gli spazi dell’economia e della tecnica, in modo tale che attingendo ai loro rappresentanti preserviamo la regola della rappresentanza e della circolarità del potere.
In conclusione, a mio parere non è la torsione totalitaria la patologia attuale della democrazia, che vivaddio è smentita dalla assoluta libertà di espressione esercitata nelle forme più incontrollate e incontrollabili (qui andrebbe aperto un focus sulle potenzialità democratiche e comunicative della sfera pubblica dei social media). Al contrario, malattia è l’accentramento di potere in una elite sempre più piccola e per questo sempre meno rappresentativa.
Dai pochi contro i molti ai molti contro i pochi, come ci insegna la storia, il passo è breve.
Democrazia in prima istanza la capacità di gestire questo passaggio verso un nuovo equilibrio di potere, senza violenza e senza spargimento di sangue.
Come dice Urbinati alla fine del suo saggio, “il conflitto tra pochi e molti può essere anche un lievito di libertà, se il nuovo ordine che ne può risultare riequilibra il potere nella società”.
Ecco la vera sfida per la politica, oggi.
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