E’ più facile parlare di Livorno, della sua economia, dopo l’uscita a cura della Regione Toscana e dell’Irpet del libro “La storia illustrata della costa toscana”. Nel quale il solito Stefano Casini Benvenuti, direttore dell’Irpet, traccia le linee storiche dello sviluppo della costa toscana rilevandone i potenziali punti di forza e, con più dovizia di dati, i reali punti di debolezza.
Sì perché se si guarda ai dati nella loro crudezza la situazione economica della costa toscana, con la sola esclusione dell’area urbana di Pisa, mette in evidenza una difficoltà oggettiva. Che si è venuta acuendo nel periodo della cosiddetta deindustrializzazione, che ha colpito questa area nell’ultima parte degli anni ’80 con le forti crisi produttive e occupazionali delle grandi imprese per lo più a partecipazione statale, e che si è stabilizzata poi negli anni successivi ma lasciando minori livelli di peso economico e occupazionale sui territori.
Livorno sta, pur con alcune differenze in positivo legate principalmente all’attività portuale, in questo contesto. Gli indici economici sono inflessibili. A fronte di un peso demografico del 4,25% rispetto alla Toscana, si rileva un peso per l’occupazione complessivo a Livorno del 4,02%. Sembrano differenze minimali ma tradotte in posti di lavoro si tratta di un “gap” di 7000/8000 unità. Non poche per una popolazione attiva di poco più di 100000 persone. Su questa linea si situano anche gli indicatori di reddito, di export (addirittura al 3,0% come sistema locale) e anche di invecchiamento della popolazione.
Insomma Livorno, dentro il contesto della realtà costiera toscana, dopo aver vissuto una forte fase di ristrutturazione economica nell’ultimo decennio del ‘900, un secolo che aveva visto quest’area anche sui livelli più elevati dello sviluppo regionale e nazionale, se ne sta in una situazione di stallo sospesa fra le aspettative e le opportunità di nuovo sviluppo e una realtà più statica e senza grande dinamismo né economico né sociale, quasi aspettando che “qualcosa si smuova”.
Ecco, se dovessi definire l’atmosfera che si vive e si respira in città l’attesa di qualcosa mi sembra che renda in maniera generale il sentire della popolazione, delle categorie economiche e dei gruppi dirigenti locali.
E, come succede spesso, quando si attendono soluzioni a proprie interne criticità dal mondo esterno e queste tardano a venire si è soliti trasformare l’ansia in rabbia e risentimento. In una sorta di vittimismo che tende a sollevare tutti i soggetti coinvolti dalle proprie responsabilità e dalla dura ricerca di una via di cambiamento.
Intendiamoci non è che la città non ha bisogno di risposte a problemi oramai annosi che si protraggono nel tempo senza trovare una via di uscita certa e trasparente. Sia in termini di decisione strategica, di progettualità operativa e di copertura finanziaria. E, senza scendere in tematiche più locali, due mi sembrano le tematiche infrastrutturali a cui è interessata la città. La prima è il porto. La decisione del suo rafforzamento e ampliamento sembra non avere contrasti né in città né fuori. Ma i tempi e il contesto di discussione in cui tale rafforzamento si è avviato non sembrano consoni a segnare un cambio di marcia richiesto dalla velocità con cui si modificano nel mondo le opportunità di sviluppo legate al mondo degli scambi e quindi della portualità. Legato a questo ruolo strategico in ambito portuale, ma non solo a questo, c’è il tema dell’autostrada tirrenica e degli snodi e passanti di collegamento necessari a dare efficienza e sostenibilità nel rapporto con la città.
Anche in questo caso i tempi sono già oltre. E pensare che il tutto sta fermo per la mancanza di poche risorse rispetto all’importanza del problema e alla mancanza di decisione definitive su poche, marginali, opposizioni all’opera sicuramente risolvibili con maggiori risorse e con qualche accorgimento tecnico, lascia ancora di più l’amaro in bocca.
Ma fatta questa premessa sulle mancanze, in particolare di decisione politico strategica , che compete in buona parte al mondo esterno rimane la difficoltà locale nel darsi una via di uscita dalla stasi. Una via che non sia velleitaria, che sia credibile e possa trovare il consenso, non dico della maggioranza della popolazione, ma almeno della maggioranza dei gruppi dirigenti generalmente intesi. Che dovrebbero sentirsi obbligati non tanto ad assecondare l’attendismo dei più ma a sollecitare e sostenere le risposte positive di quanti vogliono mettersi in discussione e tentare di aprire strade nuove. Non dico che Livorno può e deve diventare un’area di piccola impresa e di imprenditorialità diffusa come lo è, storicamente, la parte centrale della Toscana. Ma forse può fare appello alla voglia di fare e di intraprendere che in alcune parti della città e della sua struttura sociale può rinvenirsi dando a questa parte tutto l’appoggio, politica, finanziario e logistico che è possibile con gli strumenti di intervento pubblico oggi in campo.
Alcune aree di intervento possono già individuarsi. La prima è quella della rigenerazione urbana. Livorno è una città strana. Dove si è costruito tanto e molte volte male. E’ una città col mare ma spesso chiusa al mare (ricorda in questo la Barcellona prima della grande stagione di riqualificazione “olimpica”). Si tratta di ricostruire pezzi di città, partendo dai piccoli interventi (fermi certe volte solo per un eccesso di burocrazia “vincolistica” senza senso) ma anche dai grandi progetti che non siano soltanto centri commerciali. Insomma ripensare la città, pianificarne il divenire e lasciare un po’ le briglie sciolte a chi vuol renderla più bella e più produttiva con magari più vincoli a chi vuole soltanto sfruttare la rendita. Nella rigenerazione c’è anche il grande tema di come “sistemare” l’abusivismo collinare in un’area che deve diventare un pezzo, magari bello, di città e non una vergogna da occultare. E tramandare alle amministrazioni successive.
La seconda area è quella del turismo in città e nella parte della costa sud. Un tema non facile in un’area marina cresciuta in maniera anarchica e senza un grande disegno. Ma anche con una salvaguardia complessivamente decente di presenze naturali legate al binomio collina/mare di indubbio interesse paesaggistico e naturale. Ed è proprio la presenza della collina, con la sua capacità di sviluppare attività oggi in grande sviluppo come il trekking, la bici e le passeggiate che può aggiungere valore alla risorsa marina.
La terza area è quella relativa ai servizi commerciali, culturali, di ristorazione, alla persona e anche all’impresa che possono venire dall’affermarsi di Livorno come una città più moderna, più aperta allo scambio e più attenta alla qualità che sola può funzionare in termini di attrazione sulla popolazione e sulle imprese del resto della Toscana.
Su queste aree, e su altre che potranno emergere dalla evoluzione della città, occorre far sviluppare la voglia di impresa che è tradizionalmente bassa in questa area ma che non è detto che sia preclusa per sempre. Ma su questo punto occorre essere chiari. La stasi di un sistema che, come a Livorno, non scade in una crisi profonda, spesso non genera la forza necessaria al cambiamento. Perché il cambiamento costa. In termini psicologici individuali ma anche come sistema sociale collettivo. E’ per questo che le comunità sono in generale avverse al rischio e quindi al cambiamento. E oggi, ancora di più con alcune scelte politiche fatte in tema di sostegno alle persone in difficoltà, sembra quasi che si venga a far perdere la responsabilità individuale e collettiva verso lo sviluppo e la ricerca di una occupazione. Occorre quindi non assecondare le tendenze alla stasi e alla deresponsabilizzazione per aprire, in una città di forti opportunità come Livorno, una fase di innovazione e di cambiamento in grado di dare alla città un vero e duraturo sviluppo economico sostenibile. Per l’oggi e per le generazioni che verranno nel futuro.
Lascia un commento