“L’innovazione che viene dal basso, non calata dall’alto” è il titolo dell’incontro al Festival dell’Economia di Trento con Edmund Phelps, Premio Nobel per l’economia 2006 e “Director of the Center on Capitalism and Society” alla Columbia University.
Come resistere a non ascoltarlo da parte di un ex studente di economia per l’appunto laureatosi nei lontani ‘70 proprio sulle idee innovative di Phelps in tema di “microfondamenti della macroeconomia”.
Il principio, mai abbandonato dall’economista americano, è che le “relazioni macroeconomiche” non si reggono su “rapporti fra grandezze”, in qualche modo dedotti attraverso “intuizioni” (à la Keynes) o attraverso modelli (come faranno i post e i neokeynesiani), ma piuttosto sullo studio comportamentale degli individui che sono i “veri attori” dell’economia.
Il messaggio di Phelps, anche oggi nel 2022 in tema di innovazione, rimane quello originario. Per capire i processi di innovazione nei sistemi economici dobbiamo guardare agli individui, al loro vitalismo e alla loro capacità di creare, di inventare e, cosa importante nel capitalismo occidentale, di investire e fare impresa.
Oggi siamo tutti attratti dalle grandi innovazioni degli scienziati e degli “esploratori”. Ma queste “scoperte” sono disponibili in poco tempo in tutte le parti del mondo. Certo ci sono aree più favorite, dove la velocità e la profondità della conoscenza sono più elevate, ma alla fine la conoscenza “alta” è pervasiva.
Ciò che davvero distingue un sistema dall’altro non è la “conoscenza esterna” (a disposizione, più o meno, di tutti) ma è la “conoscenza endogena” e quindi l’innovazione endogena. Sono le mille e mille “correzioni, adattamenti e nuove scoperte” che i soggetti fanno in un sistema quando ricevono la conoscenza dall’esterno e cominciano a “lavorarci” e a interagire a livello locale. Si tratta di una innovazione che non può essere “programmata dall’alto” ma che richiede sistemi locali ad alto tasso di attività e di ingegnosità.
Mentre Phelps così parlava, come si poteva non ricordare gli studi di Giacomo Becattini sui distretti industriali dell’Italia e della Toscana. Dove l’impegno, l’attivismo e l’imprenditorialità dal basso e quindi un tasso di innovazione incrementale localizzata, hanno di fatto consentito una forte competitività fra i sistemi di piccola impresa italiani e la grande e media industrializzazione dei concorrenti europei, americani e giapponesi.
Phelps ci ha parlato dell’Italia com’era e come, per molti versi, non è più. “Se volete tornare ad essere innovativi e ad aumentare la produttività dei vostri sistemi industriali”, ahimè particolarmente compromessa negli ultimi 15/20 anni, “dovete ritornare in qualche modo a quella società”. Ovviamente rivista e corretta con i valori, le tendenze e i comportamenti di una moderna società ma con alcuni “sani” elementi di “impegno e creatività” di un tempo. Sapendo che una economia innovativa richiede una società innovativa. E una società innovativa richiede una comunità felice e aperta al nuovo.
Due sono gli elementi su cui puntare. Il primo è una società che ha entusiasmo, che vuol progredire, che pensa al miglioramento della vita individuale e collettiva come obiettivo raggiungibile attraverso l’impegno e la volontà. Come non sentire la lontananza con la lettura pauperistica e pessimista dell’Italia di certa politica nostrana più attenta all’assistenza che al rilancio e allo sviluppo.
Il secondo elemento è una comunità soddisfatta non tanto per uno “status raggiunto” quanto per un reale riconoscimento di quanto ognuno apporta al sistema (e quindi stipendi, guadagni, ricchezza, ruoli, riconoscimenti adeguati e raggiunti per merito) e per la possibilità di raggiungere obiettivi sempre più sfidanti. In primo luogo dal punto di vista individuale.
Rispetto all’attuale dibattito italiano sull’incremento dei salari troppo bassi pur a fronte di una produttività che non cresce, l’approccio à la Phelps sembra diametralmente opposto. L’innovazione e la crescita della produttività in Italia sono oggi possibili e sono raggiungibili in un contesto di conoscenza e innovazione crescente nel Mondo. Occorre che la comunità italiana “si svegli dal torpore dell’attendismo, dell’assistenzialismo e dello statalismo” per recuperare quella capacità di intraprendere, di rischiare e creare innovazione che un tempo le è appartenuta. Occorre un grande, nuovo, spazio di immaginazione per i soggetti dell’economia e della società. E con la crescita dell’imprenditorialità, delle capacità diffuse e della voglia di impegnarsi in ogni singola, anche più piccola attività, crescerà la produttività e dovra’ quindi contemporaneamente crescere la distribuzione dei redditi e della ricchezza in maniera più diffusa, più giusta e più equilibrata. Questa è la modalità corretta di “redistribuzione” del reddito e della ricchezza in una società e in una economia liberale e innovativa.
Un’ultima annotazione interessante ai fini del dibattito sul futuro del lavoro avviato dai due guru dell’economia come Elon Musk e Mark Zuckerberg. Il primo più “fisico” ha richiesto ai propri lavoratori di ritornare in sede. Perché è lì che devono stare. Il secondo più “digital” ha parlato di aziende che lavorano in “smart working” dove si dialoga a distanza. Phelps si è schierato con la fisicità. L’innovazione richiede “scambio e interazione” fra i soggetti anche di tipo casuale, non programmato. Come era l’incontro al bar degli imprenditori dei nostri distretti industriali. E questa casualità, feconda e foriera di innovazione, non si crea negli incontri programmati a distanza. Un interessante dibattito. Vedremo nelle prossime puntate.
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