Il 7 ottobre sarà un nuovo triste “giorno della memoria” per il mondo intero.
Cercando di accantonare un attimo l’aspetto umano, provo a delineare gli impatti economici di questa nuova guerra in atto. Si è immediatamente parlato di crisi energetica e shock petrolifero, anche attingendo alla vasta letteratura riveniente dalle storiche guerre in cui fu coinvolto Israele: su tutte quella del Kippur di ottobre 1973.
Uno degli effetti collaterali legata a quella guerra fu una impennata del prezzo del petrolio, con una punta del +300% tra il 1973 e il 1974 e il rimando dei nostri genitori che ci raccontavano delle domeniche a piedi in una Italia deserta.
Anche con l’avvento al potere di Khomeyni nel 1979 (rivoluzione iraniana) il petrolio ebbe delle forti impennate, ma relativamente minori grazie alla pronta riorganizzazione delle politiche energetiche tra occidente e produttori mediorientali.
Abbiamo sperimentato anche una recentissima crisi energetica nel 2022, con lo scoppio del conflitto ucraino e le ripercussioni nefaste sui prezzi delle materie prime che hanno esacerbato il livello di inflazione e dunque innalzato il livello dei tassi, soprattutto in Europa.
Questo è la sintesi di fondo. Fermandoci all’analisi dell’area mediorientale ci sono però delle sostanziali differenze rispetto ai conflitti del passato. Premessa importante (e collegata al momento in cui scrivo), le implicazioni economiche dipenderanno dall’estensione del conflitto. Se la portata della guerra rimarrà regionale allora sarà improbabile che avremo impatti duraturi sui prezzi del petrolio e del gas, se invece altri paesi arabi si unissero al conflitto (su tutti l’Iran), allora gli effetti sarebbero su scala globale.
L’Iran è tra i maggiori produttori al mondo di petrolio, ma soprattutto controlla lo Stretto di Hormuz, da cui passano il 20% delle forniture internazionali giornaliere. Un suo coinvolgimento nel conflitto potrebbe far crescere il prezzo del petrolio, ma questo determinerebbe anche una recessione globale, che a sua volta ne soffocherebbe rapidamente la domanda. Non solo: rispetto alle crisi petrolifere passate, gli Stati Uniti sono diventati esportatori netti di petrolio e non importatori. Avere la maggior potenza industriale meno coinvolta dagli impatti economici, limita l’estensione del danno.
C’è un’altra ragione puramente economica che spingerebbe ad una efficace soluzione diplomatica. Ci sono due paesi arabi molto coinvolti dalla situazione, ovvero Arabia Saudita e Qatar. Della posizione ambigua del Qatar se ne parla un po’ ovunque, tuttavia, sono soprattutto i sauditi (almeno per ora) a trovarsi in un pericolosissimo impasse: da una parte potrebbero soppiantare la produzione di petrolio iraniana se questi dovessero attuare un embargo, dall’altra parte un prezzo del petrolio in clamorosa ascesa (ovvero ben sopra il limite psicologico dei 100 $ al barile) determinerebbe un effetto boomerang, poiché molte economie industrializzate cercherebbero fonti alternative al petrolio, determinando un dissesto per le finanze statali saudite.
Non solo. Ci sono almeno altri quattro elementi che alimentano il livello di incertezza in questo conflitto. Il primo si chiama Russia, che si guarda bene di inimicarsi il mondo arabo, ma contestualmente ospita una delle comunità ebraiche più numerose in patria. La Russia ha evidenti interessi che il conflitto israeliano si protragga il più a lungo possibile per costringere gli USA in dispendiose campagne belliche, ma soprattutto, per esporla al rischio di rivalsa del mondo arabo.
Il secondo siamo noi europei, ormai molto frastornati economicamente e politicamente da questi 2 conflitti negli ultimi 2 anni che non hanno fatto altro che indebolirci internamente e a livello internazionale. Per ora ci siamo limitati a sospendere gli avviati progetti di finanziamento per l’area di Gaza. La nostra debolezza è tuttavia palese.
C’è un terzo elemento prettamente economico che in parte giustifica il nostro tergiversare politico europeo: nel corso degli anni “l’oro nero” ha perso progressivamente peso nel mix energetico; oggi è la quotazione del gas che può avere forti ripercussioni economiche e quindi sociali. Nei primi giorni del conflitto, la chiusura delle piattaforme israeliane di Tamar e Ashkelon aveva determinato un incremento del +30% del prezzo del gas sul TTF (il mercato di riferimento per il gas in Europa). Probabilmente la situazione in atto consiglia la cautela, almeno e soprattutto per noi italiani, che per non farci mancare nulla, nel 2022 abbiamo prontamente sostituito il gas russo con quello algerino. Sì, proprio l’Algeria che ha prontamente condannato la reazione bellica di Israele e ha espresso “piena solidarietà al popolo palestinese”.
Ho scritto però che sono quattro gli elementi da considerare. L’ultimo non ha radici economiche, ma solo ideologiche ed è il più pericoloso. Abbiamo ancora negli occhi quelle tremende immagini del popolo israeliano trucidato e del popolo palestinese bombardato. Questa spettacolarizzazione della morte è probabilmente la strategia adottata da Hamas per spostare il conflitto su ragioni ideologiche e attivare cellule dormienti di fanatismo religioso. Siamo reduci da un decennio di terrorismo e sappiamo bene il prezzo pagato in termini di vite umane e libertà individuali. Stiamo probabilmente rientrando in una fase oscura della nostra esistenza, a prescindere dai vinti e dai vincitori. Vincere una guerra allora non basterà più. Sarà più importante organizzare e subito la pace.
Per tutti gli latri commenti: www.nuvolemercati.it
Lascia un commento