Nel Partito Democratico manca ancora un’analisi profonda e condivisa della sconfitta e delle esperienze di governo dal 2013 in poi: non sono superati l’autoreferenzialità nei gruppi dirigenti e il peso di correnti fondate sulla negoziazione di candidature ed equilibri interni. Una condizione che può a breve impedire una svolta, nonostante l’elezione a segretaria di Elly Schlein, che ha dato un entusiasmo da troppo tempo dimenticato.
In questo libro, del quale pubblichiamo l’introduzione, Vannino Chiti, dirigente di lungo corso nel PCI e nelle successive filiazioni fino al PD, traccia il percorso che ha condotto il Partito Democratico ad una sconfitta che non è riconducibile solo alle leadership e pone l’accento su cosa è necessario rinnovare, pena la condanna a restare per molto tempo all’opposizione.
Le elezioni politiche del 25 settembre 2022, quelle regionali di Lombardia e Lazio del 13 e 14 febbraio e del Friuli-Venezia Giulia del 2 e 3 aprile 2023 hanno fatto registrare una severa sconfitta di tutte le forze progressiste, non solo del PD. Al tempo stesso hanno visto una significativa crescita dell’astensione: alle politiche ha votato il 63,91% degli aventi diritto, circa nove punti percentuali in meno rispetto alla partecipazione registrata nel 2018. A febbraio, alle elezioni regionali, in Lombardia ha votato il 41,68%, nel Lazio il 37,2%; ad aprile nel Friuli-Venezia Giulia il 45,27%.
L’astensione ha vari motivi: per le regionali, ad esempio, ha inciso anche il fatto che le consultazioni si siano tenute a pochi mesi di distanza da quelle del 25 settembre e <<in solitaria>>, ovvero slegate da un appuntamento più complessivo.
Alle politiche hanno determinato una distorsione nel risultato una pessima legge elettorale – il cosiddetto <<Rosatellum>>, che ho l’orgoglio di non avere approvato insieme ad altri cinque parlamentari (due del PD, gli altri della sinistra, che poi avrebbe dato vita ad Articolo Uno) – e la riduzione dei seggi alla Camera e al Senato.
Sarebbe però un errore fare dell’astensionismo la ragione principale della sconfitta.
La sinistra deve saper guardare più a fondo. 11 70% degli italiani e deluso dal funzionamento della democrazia: nella fascia di popolazione tra trentuno e cinquant’anni il 78% e insoddisfatto; ancora peggio tra i ceti popolari dove la delusione raggiunge il 79%; il 55% dei cittadini italiani pensa che i partiti siano tutti uguali.
Il PD, per il suo peso elettorale nel frastagliato arcipelago progressista, ha le più grandi responsabilità in vista del futuro. Dobbiamo chiederci se vogliamo rassegnarci a una democrazia iper-minoritaria, riservata solo alle élite.
Attenzione: in democrazia si possono perdere le elezioni. Quella che non bisogna smarrire e l’identità che ci caratterizza, la capacità di trasmettere fiducia e speranza. 11 PD negli ultimi tempi non c’è riuscito: nascondere la realtà non aiuta ad affrontarla, ma irrobustisce un’autoreferenzialità, in cui prolifera la confederazione di correnti prive di idealità. Chi guardava o potrebbe guardare a noi, semplicemente non ci vota: siamo diventati nel migliore dei casi un partito privo di interesse per l’elettore, nel peggiore la delusione, a volte, si trasforma in ostilità.
‘È stato un errore, dopo la batosta elettorale, annunciare una fase costituente di sinistra, senza poi realizzarla. Non può essere contrabbandato come fase costituente un comitato di ottanta <<saggi>>, per due terzi designati dalle correnti, il cui unico sforzo è stato produrre un Manifesto per il nuovo PD, da affiancare alla vecchia Carta dei valori. Il congresso, poi, indetto dal segretario dimissionario Enrico Letta, si è svolto come sempre: i candidati alla massima carica si sono presentati solo sulla base di mozioni sostenute dalle correnti, senza un confronto reale tra gli iscritti in grado di costruire possibili convergenze.
Così, aspetti positivi di partecipazione, in particolare di giovani e ragazze, rischiano ben presto di vanificarsi. Del resto, il compito degli iscritti è stato, come sempre, modesto: dovevano principalmente determinare la graduatoria, che avrebbe consentito ai primi due in classifica di sottoporsi al voto di primarie aperte a tutti. Che poi i risultati definitivi di questa consultazione abbiano dato degli esiti imprevisti e spazianti è stata una sorpresa non programmata.
Infatti, stavolta è successo qualcosa di nuovo
Qualcosa di nuovo, ma anche d’antico
L’istituto <<Noto sondaggi>>certifica che del 22% delle persone che sono andate negli oltre 5.500 gazebo, più di uno su cinque aveva votato alle elezioni politiche per i Cinque Stelle o per altri partiti.
Secondo <<Candidate & Leader Selection>>la partecipazione degli elettori dei Cinque Stelle non ha influito sul risultato: ha coinvolto poco più di 25.000 cittadini, circa il 5% dei votanti. Sull’esito delle primarie avrebbero inciso, piuttosto, elettori di Verdi-Sinistra e di +Europa, con una partecipazione di circa 75.000/80.000 voti (il 13% dei primi e il 5% dei secondi) a favore di Elly Schlein. Si tratta, comunque, di un elettorato contiguo a quello del PD. Secondo questa ricerca, Stefano Bonaccini avrebbe avuto il sostegno del 6% di elettori del Terzo Polo.
Nel 2023, come si sa, l’esito delle primarie aperte è stato imprevedibile: per la prima volta si è verificato che gli elettori hanno ribaltato il risultato del voto degli iscritti. E sempre per la prima volta ha vinto una donna: Elly Schlein.
La nuova segretaria ha davanti a sé un compito impegnativo, da guardare con speranza, fiducia ma al tempo stesso con un’attenzione critica: saprà cambiare le posizioni del PD sui temi più controversi, in primo luogo sulla guerra? Saprà unire impegno sui diritti civili e lotta per quelli sociali, a differenza di quanta il PD ha fatto negli ultimi anni? Saprà far camminare nel concreto di un’azione di governo la priorità dell’ecologia? Sulle grandi questioni aperte – dal nucleare alle privatizzazioni di beni essenziali come l’acqua, dalla difesa del suolo allo stop alla cementificazione – saprà mantenere una posizione netta contro il neoliberismo?
In ogni territorio ci sono sfide e impostazioni – ad esempio in Toscana, la regione che conosco meglio, il nuovo gassificatore di Piombino, la multiutility da quotare in borsa e il potenziamento dell’aeroporto di Firenze da rendere coerenti con nuovi valori guida affermati, altrimenti le parole d’ordine, dopo avere suscitato speranza, diventano delusione. Quella che si può oggettivamente registrare è che Elly Schlein ha saputo suscitare un entusiasmo che sembrava sopito, e già questo rappresenta una potenzialità da apprezzare per chi ha a cuore le sorti della sinistra italiana.
Non è facile dirigere un partito in cui, tra gli iscritti, si è in minoranza. I problemi da affrontare restano gli stessi e sarebbe un errore clamoroso ritenere che il risultato imprevisto delle primarie generi di per sé il <<nuovo PD>>. Occorre rendere il PD una comunità politica tenuta insieme da valori condivisi e da una capacità di includere, di confrontarsi sui progetti, senza paura del dissenso costruttivo: il pluralismo nella sinistra è una ricchezza, guai a demonizzarlo come avviene nei partiti personali. L’identità, espressione di valori e coerenze politiche e programmatiche, non è un menu <<à la carte>>, in cui ognuno sceglie ciò che più gli piace. L’identità perduta è peggio di una sconfitta elettorale: ci possono volere generazioni per ricostruirla.
Il PD a volte mi appare ammantato da un istinto conservatore verniciato di nuovismo: da un lato non si pone il tema del rapporto tra tradizione di sinistra – mi riferisco a quella del PCI, del PSI, dei cattolici progressisti – e innovazione, cioè quali radici selezionare e quali lasciar cadere per innestarvi le culture e il progetto richiesti dal nostro tempo. Dall’altro lato, continua invece ad assumere come un vangelo politico, valido in tutto e in eterno, il discorso di Walter Veltroni al Lingotto, a Torino, nel 2007. Quell’intervento fu certo importante, la base su cui è stato costruito il PD, ma è anche datato:deve essere sottoposto a un esame critico. La cultura politica del PD ha bisogno di essere rifondata.
In sedici anni la società e cambiata: il partito liberal secondo il modello statunitense, trapiantato in Europa, risulta un corpo estraneo. Non avere una precisa rappresentanza di ceti sociali – da cui muovere per costruire più ampie alleanze e la stessa funzione politica nazionale ed europea – non è segno di modernità, ma di una sorta di eclettismo ideologico. Il bipolarismo non è più scontato nel sistema italiano né in quello europeo; il bipartitismo addirittura si presenta come una chimera fuori dall’orizzonte.
È un’illusione la conquista di un più ampio consenso trasversale, ottenuto attraverso la cancellazione teorica dell’esistenza delle classi sociali e dei ceti popolari.
Il maggioritario – per cui io stesso ho lavorato con convinzione in tutti gli incarichi istituzionali e di partito svolti – non corrisponde all’evoluzione attuale del nostro paese e alla necessita di una riqualificazione dei partiti. Oggi c’è bisogno di una legge elettorale proporzionale con lo sbarramento al 5%.
La forma partito e lo statuto – varati alle origini del PD – nonché le primarie per l’elezione del segretario e dell’assemblea nazionale aperte a tutti in modo indistinto sono tra le cause di uno sradicamento dai territori, dell’assenza di ogni formazione politica, del venir meno di sedi riconosciute di discussione e decisione.
Nonostante qualche ritocco riformatore, i diritti e i doveri degli iscritti restano scoloriti o, se si preferisce, insignificanti. D’altra parte, l’albo degli elettori è un’araba fenice, che si forma nei gazebo al momento delle primarie e poi scampare, sostituito da un nuovo registro, composto in occasione della successiva elezione di un nuovo segretario.
Primarie: principi e signorie
L’organizzazione del PD si articola in un’investitura plebiscitaria del segretario nazionale e in un moltiplicarsi di autonome signorie locali, con al seguito strascichi di clientelismo politico. Il segretario è detentore di un potere pressoché assoluto sulle scelte nazionali, dal momento che alla sua elezione e collegata la maggioranza negli organismi dirigenti, in genere pletorici. I potentati locali difficilmente, però, possono essere scalfiti nelle loro prerogative, dato che il sostegno alle primarie si deve ogni volta negoziare con i loro capi.
Dal 2007 in poi il PD ha interpretato il ruolo dei militanti e dei simpatizzanti come partecipazione a primarie aperte in cui si scelgono i candidati alle segreterie e per le istituzioni locali, più che come confronto sui programmi e sugli obiettivi prioritari. Le conseguenze sono state una selezione dei diri genti sulla base dell’abilità nel portare le persone a votare e il sommarsi di divisioni aspre e permanenti, cementate attorno ai vari candidati piuttosto che sulle strategie.
La stessa partecipazione delle persone alle primarie conosce una fase di logoramento: nel 2007, tre milioni e mezzo di votanti si recarono al voto; nel 2017, un milione e ottocentomila; nel 2023, poco più di un milione.
È questo insieme di cultura politica, idealità, riferimenti sociali, modello di organizzazione che bisogna cambiare.
La nomina del segretario non è il problema principale del PD e soprattutto non basta: prima di Elly Schlein, sono stati eletti altri sette leader: Veltroni, Bersani, Renzi, Zingaretti con le primarie, Franceschini, Martina e Letta dall’assemblea nazionale per le dimissioni del segretario in carica.
Non sono per abolire le primarie: come potrei pensarlo, essendo stato nel 2005 responsabile politico di quelle della coalizione dell’Unione, con cui ci presentammo e vincemmo le elezioni dell’anno successivo? Quelle primarie videro la partecipazione di quattro milioni e mezzo di cittadini e <<l’incoronazione>> di Prodi a candidato premier con oltre il 70% di voti, vincitore nella sfida con Bertinotti, Di Pietro, Mastella. Sono per riformarle, distinguendo le primarie per i candidati sindaco, presidente di Regione e premier, da quelle per l’elezione del segretario e dell’assemblea nazionale del PD.
Antonio Floridia, un politologo intelligente, esperto sul sistema dei partiti, nel suo ultimo libro, PD Un partito da rifare, avanza un insieme di proposte precise, sostenute da una analisi rigorosa. Mi limito a riprenderne due per me fondamentali: una, che alle primarie del partito dovrebbero avere diritto di voto iscritti e quanti si sono registrati nell’albo degli elettori, l’altra che anche quest’ultimo dovrebbe essere chiuso tre mesi prima del congresso.
Aggiungo una terza proposta: il voto dovrebbe svolgersi nei circoli al termine del dibattito, per non incoraggiare una separazione tra partecipazione alla discussione e votazioni. Non tutto delle pratiche politiche di un tempo è da gettare via, come ci ricorda il noto proverbio sul bambino e l’acqua sporca, da non buttare via contemporaneamente mentre si fa pulizia! Né chiedo al Partito Democratico di sciogliersi o cambiare il nome: di camaleontismi ce ne sono stati fin troppi. Il PD è indispensabile al successo di una coalizione progressista: ma non questo PD!
Un confronto a tutto campo
Sono convinto della necessita di una fase costituente vera che il PD dovrebbe promuovere, coinvolgendo ogni forza o associazione di sinistra disponibile, sollecitando nel confronto sui programmi anche i sindacati.
Non c’è città italiana che non abbia la presenza di associazioni di sinistra: escluse o deluse dai partiti, a volte si presentano alle elezioni locali alleate del PD, a volte in alternativa, oppure non partecipano al voto. Sono una potenzialità di energia progressista che appare e scompare, senza trovare collocazione stabile in un partito, dal momento che il PD finora, da una parte, non ha voluto interpretare il ruolo di una sinistra plurale e, dall’altra, il movimento Cinque Stelle quel modello lo ha rifiutato.
La separazione, ben oltre l’autonomia reciproca e l’incompatibilità, tra partiti progressisti e sindacato, contribuisce a determinare la debolezza di entrambi, nel momento in cui il capitalismo digitale e finanziario imporrebbe un di più d’intesa.
Dopo tante divisioni occorre dar vita a un impegno per unire una sinistra plurale: questo sarà possibile solo se ci si confronta con tutti e su tutto, dai valori guida al rapporto con la tradizione, dal progetto di società ai programmi che ne sono la sostanza, dalle alleanze alla forma partito. Si, anche la forma partito: perché significherebbe vanificare tutto, se il PD si aprisse a un approfondimento su temi decisivi, programmatici e di strategia politica, promuovesse il coinvolgimento di tutte le aree della sinistra disponibili, per poi mettere un veto su come ci si organizza sul territorio, si decidono le priorità, si eleggono i gruppi dirigenti. Una vocazione al gattopardismo ucciderebbe la sinistra!
La sinistra in questi anni non se la passa bene, non solo in Italia, ma in numerosi paesi europei. Ci sono però delle differenze: in Spagna, Portogallo, Germania i socialisti sono al Governo, da noi abbiamo il primo premier donna, Giorgia Melani, e il governo più di destra nella storia della Repubblica.
Sono d’accordo con Prodi, che in un’intervista su Repubblica, ha posto l’obiettivo di <<riformare i riformismi>>: è questo che deve avere l’ambizione di proporsi la fase costituente di sinistra. Il riformismo non è moderazione, addolcimento delle misure della destra, ma analisi della società e del mondo di oggi, progetto per il futuro, regale democratiche, ambientali e sociali da imporre al capitalismo, azione per il disarmo e la pace.
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Non spetta a me né convocare né stabilire l’ordine del giorno o le modalità di una fase costituente. Elly Schlein, nel suo discorso di insediamento a segretaria del PD, ha assunto questo impegno. Mi auguro dunque che questa fase ci sia, ma promuoverla non basta: è decisivo che sia guidata da un metodo rigoroso, che sia davvero aperta a tutte le componenti di sinistra, non limitata ai partiti, che crei occasioni di partecipazione nei territori, che si sviluppi in modo serio, non improvvisato. Magari potrebbe essere indetta nell’autunno per concludersi prima delle elezioni europee, consentendo di valutare le impostazioni proposte, indicare modifiche, poter decidere. Sono la segretaria nazionale, Elly Schlein, e la direzione politica che devono assumersi la responsabilità dei temi da affrontare e le proposte nel merito. Questo è, invece, ciò che è mancato alle Agorà lanciate da Letta, che pure per alcuni aspetti sono state un’esperienza innovativa. Il limite insuperabile di quella vicenda è stato l’assenza di un nesso tra discussione e decisione. Si è dato il via a dibattiti liberi su tanti argomenti, una sorta di mille fiori, con la conclusione finale della loro valutazione e selezione per il partito affidata a un comitato nazionale di saggi. Anche per questo il risultato politico è stato pressoché nullo e nessuna iniziativa concreta è seguita alle tante attese. La politica non è un concorso universitario o una prova d’ esame. In caso contrario si riduce a una consultazione.
Credo sia indispensabile, inoltre, parlare anche di metodo. Mi riferisco, cioè, alla necessita di affermare con chiarezza le discontinuità con la fase precedente, senza nascondere gli errori compiuti. Saper riconoscere gli sbagli politici è indispensabile per superarli. Altrimenti non si è credibili. Ad esempio: se vogliamo sostituire il Jobs Act con una nuova legislazione del lavoro, dobbiamo riconoscere che è stato sbagliato approvarlo. L’esperienza ha dimostrato che ridurre diritti e forza contrattuale di chi e più debole nel conflitto sociale non aumenta di per sé l’occupazione, ne fa aumentare dimensione e robustezza delle imprese.
La sinistra e il PD hanno bisogno di una fase costituente che non sia né una consultazione, né un talk show della politica spettacolo. Tutti dobbiamo saper cambiare, anche profondamente. Lo richiedono le sfide da affrontare.
Da dove partire
Questo libro si propone di offrire degli spunti di confronto con tutti quelli che guardano a sinistra e si unisce alla voce di chi chiede in primo luogo al PD una fase costituente, non per il partito in sé stesso, ma per una sinistra plurale.
Sono consapevole che i temi qui affrontati non siano gli unici importanti, basti pensare a clima, ambiente, uguaglianza di genere. Credo, però, che sia no quelli più urgenti a cui la sinistra deve dare risposte, quelli da cui bisogna partire per cominciare a confrontarci.
Infatti, secondo me, è necessario tornare a porre il lavoro al centro del pensiero, dell’azione, del sentire della sinistra: la persona e la sua dignità sono il fine del lavoro e dello sviluppo. Questo va ribadito prima ancora di presentare proposte specifiche sulla riduzione degli orari, la sicurezza, la redistribuzione dei vantaggi dell’innovazione tecnologica, il diritto per tutti a un’occupazione, il freno alle delocalizzazioni produttive.
Ugualmente ritengo fondamentale una riflessione sulla democrazia nel XXI secolo. Essa deve difendersi dagli attacchi che le sono fatti da terrorismi e regimi autoritari, e questo porta con sé anche il discorso di quale sia l’essenza del fascismo e, quindi, il senso dell’antifascismo oggi.
In un mondo in cui finanza, economia, comunicazione sono globali, la democrazia non può svolgere la sua funzione se resta prigioniera all’interno dei soli confini nazionali.
ONU e democrazia federale europea sono due stelle fisse. L’ONU esige una riforma che valorizzi la rappresentanza di nazioni e continenti chiave nel Consiglio di Sicurezza e lo liberi dal diritto di veto. Senza una democrazia federale l’Europa non è protagonista ed è destinata a un declino, così come senza un’Internazionale Progressista e un Partito Socialista europeo, la sinistra non può vincere nessuna battaglia. Battaglia, non guerra, perché questa parola non ha più un significato astratto e metaforico: è diventata con le armi nucleari una minaccia alla sopravvivenza, non solo dell’Ucraina o dell’Europa, ma del pianeta stesso.
Ed ecco perché, per contribuire alla riflessione sul rilancio della sinistra, in questo testo presento le mie considerazioni in parti ben definite: nella prima affronto l’argomento che riguarda lavoro, welfare e fisco (temi collegati fra loro); nella seconda, proseguo analizzando le implicazioni della parola <<democrazia>> (compresa l’attualità dell’antifascismo), per continuare nella terza parte con un tema divisivo, ma ineludibile, cioè quello del disarmo, della guerra e della pace. La quarta e ultima parte di questo mio contributo è un po’ diversa dalle altre: è costruita sul dialogo con dei giovani dell’area di sinistra, su quello che pensano e chiedono. Senza di loro il rinnovamento è impossibile.
Infine, nelle conclusioni, spiego perché resto nel PD pur essendo così critico e azzardo degli auspici per dar vita a un confronto aperto, pluralista, di vero rinnovamento.
Solo riaccendendo l’amore per la politica, l’impegno, il senso di fratellanza dei giovani e degli uomini e donne di buona volontà si possono spegnere i roghi dell’autoritarismo, della guerra, della decadenza e della barbarie.
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