Interessante la discussione fra Petretto e Boitani, peraltro due amici che stimo profondamente come persone e come studiosi, sulla ricerca del “colpevole” dei mali dell’economia odierna. Boitani individua nel liberismo il male profondo che ha minato le basi di convivenza negli Stati e fra gli Stati negli ultimi decenni. Petretto risponde inserendo il liberismo nel più vasto solco del liberalismo ed individuando attraverso questa “traslazione” gli elementi benefici per la società e per l’economia.
Ho semplificato un po’, non sono un professore, mi sia consentito. Ma la sintesi mi sembra attendibile. Che dire? La prima cosa è che, può essere che mi sbagli in termini di storia delle dottrine economiche, ma il liberismo per me coincide con il movimento delle “aspettative razionali” di Lucas e Sargent e della “scuola di Chicago”. Ed è quel movimento, e non le splendide riflessioni di Hayek, che hanno distrutto a partire dagli anni 70/80 l’idea e la pratica della gestione macroeconomica degli Stati che si cimentava, con successi alterni, a favore dello sviluppo e della occupazione. Praticamente prima di tale movimento gli Stati gestivano con cura gli obiettivi importanti ma contrastanti della bassa disoccupazione e della bassa inflazione con manovre integrate di tipo monetario e fiscale. Con l’avvento vittorioso, prima nelle Università e poi nella Politica, delle “aspettative” razionali si è decretato che non c’è alcun “trade-off” fra disoccupazione e inflazione (Curva di Phillips rigida) e quindi si è convenuto che è meglio attestarsi su una bassa inflazione senza tentare alcun “impulso” alla crescita da parte degli Stati. Ed ecco a voi, l’austerità.
La disoccupazione da fenomeno “macroeconomico”, da affrontare con strumenti “pubblici”, è diventato un fenomeno esclusivamente microeconomico. E’ dentro il “mercato del lavoro” che si deve cercare il “colpevole” della disoccupazione e non dentro il “sistema economico” e le sue variabili macroeconomiche. Keynes diventava così un economista sorpassato e le sue idee diventavano ferri vecchi da non usare nella gestione economica di un paese.
La teoria del “saggio naturale di disoccupazione”, non è casuale la parola “naturale”, è servita per far accettare ai Governi e poi alle Comunità alti tassi di disoccupazione su cui non era possibile intervenire con manovre macroeconomiche e fatti vivere ai soggetti come un “problema individuale” e non come un “problema sociale”. Nella teoria delle aspettative razionali la disoccupazione “naturale” veniva definita come “volontaria”. Sui disoccupati “volontari” non resta davvero molto da dire di più.
Da questo punto di vista, in particolare il mercato del lavoro e la disoccupazione, il liberismo ha fatto “danni rilevanti”. E continua, per alcuni versi e in alcune aree del sistema economico mondiale ed europeo, a fare danni.
Ovviamente , e qui sposo le idee di Petretto in pieno, non si può pensare di passare dal liberismo al “vecchio Keynesismo” che derivava più dalla pratica un po’ “allegra” dei governi (spesso con poche differenze fra sinistra e destra, a parte la Tachter) che dal pensiero “vero” di Keynes. E allora abbandonare il liberismo non può voler dire indebitarsi “ad libitum” tanto qualcuno pagherà, non vuol dire alzare a livelli incredibili la presenza dello Stato innalzando nello stesso tempo tasse e inefficienza operativa, non vuol dire pensare soltanto a redistribuire ricchezza, favorendo continue e diffuse pratiche assistenziali, piuttosto che porsi nel sentiero, più duro e più difficile, della crescita e , più in generale, non vuol dire intervenire contro il mercato e la concorrenza anche nei settori e nelle aree funzionali dove questi hanno dimostrato di fare meglio della “mano pubblica”.
Insomma , non per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, nei confronti di due amici che stimo, posso solo dire che concordo con la valutazione negativa del liberismo come filosofia politico-economica per i danni che ha fatto anche dal punto di vista culturale ma concordo anche con chi pensa che non è ripescando dal cassetto i vecchi arnesi keynesiani, a cui spesso si sono aggiunti altrettanto vecchi arnesi statalisti e assistenzialisti, che si può sperare di rilanciare uno sviluppo efficiente, sostenibile e di lunga durata.
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