Nell’Unione Europea questi sono giorni intensi, decisivi si dice per il suo futuro nel quale paesi colpiti pesantemente dalla pandemia che tuttavia li ha colti in condizioni differenziate devono approvare il bilancio pluriennale e attivare le procedure per il Recovery Plan. Un momento importante si dice nel quale è riemerso lo spirito dei padri fondatori contrastato solo dagli egoismi degli impresentabili, Polonia ed Ungheria contro i quali sui social e nella stampa si invoca l’espulsione. Ma non ci sono solo loro, ci sono anche altri che si riservano di intervenire nella partita a seconda di come si evolverà.
Non è la prima crisi dell’Unione europea, non sarà l’ultima, tra la politica della sedia vuota di De Gaulle e la Brexit.
Su questi temi rivolgiamo alcune domande ad un profondo conoscitore dell’Europa, Vannino Chiti già ministro dei rapporti con il Parlamento nel governo Prodi e Vice Presidente Vicario del Senato nella scorsa legislatura.
Si è sbagliato a far entrare frettolosamente i paesi dell’est come sollecitavano esigenze geopolitiche? Nessuna pietà verso paesi oppressi da secoli dalle potenze continentali e che sono stati schiacciati dai totalitarismi del XX secolo? Servono scomuniche od azione politica di lungo respiro? D’altronde la Costituzione europea è stata bocciata dai referendum in francia ed Olanda e nessuno chiese l’espulsione di questi paesi.
Non si è sbagliato a fare entrare nell’Unione Europea i Paesi dell’est che, attraverso rivoluzioni democratiche e pacifiche, si erano liberati dalla sovranità limitata imposta dall’Unione Sovietica. Si è sbagliato a non portare avanti l’altra decisione che doveva accompagnare il loro ingresso e cioè la riforma della governance dell’Unione. Il blocco del progetto di Costituzione europea, elaborato sotto la guida di Valéry Giscard d’Estaing e Giuliano Amato, bocciato nei referendum di Olanda e Francia, ha rappresentato un colpo troppo spesso sottovalutato. il problema politico che si pone non è quello della espulsione dei refrattari, bensì quello di una conquista della maggioranza dei popoli all’obiettivo di una vera democrazia federale europea. Senza dubbio non può essere consentito a nessuna nazione dell’Unione di colpire le basi dello stato di diritto ed è una urgente necessità quella di cambiare l’articolo 7 del Trattato, oggi ingestibile, per consentire interventi efficaci alle istituzioni europee quando si violino i principi cardine. Soprattutto è venuto il tempo di aprire un confronto sul destino dell’Europa nello scenario del XXI secolo, dominato da giganti economici e politici, sui rischi di declino, sulle potenzialità di una democrazia sovranazionale, sul suo contributo ad un governo democratico della globalizzazione. La globalizzazione può avere valori guida, finalità, governo diversi ma è irreversibile. Per le forze progressiste mi limito a dire che non è possibile il riformismo in un Paese solo.
In queste situazioni ritorna sempre la richiesta della eliminazione del diritto di veto. L’Italia grida a gran voce che va abolito (salvo minacciare di ricorrervi quando le conviene), Francia e Germania non sembrano seguire su questa strada: non è questione tecnica ma di alto profilo politico. E’ in gioco il rapporto tra l’utopia del Manifesto di Ventotene (non fondata sulla volontà degli elettori) che prefigurava il superamento degli stati nazionali ed il disincanto che guida l’Europa dai padri fondatori ad Angela Merkel che assume la convergenza delle volontà degli stati nazionali.
Il veto deve essere superato. Le maggioranze qualificate si possono prevedere su scelte di decisivo rilievo quali la partecipazione a un’azione militare o l’ingresso di nuovi Stati nell’Unione, non su altro. Altrimenti si bloccano i processi decisionali. Tutto questo è il frutto del perdurare di un metodo intergovernativo,che frena il processo di costruzione di una democrazia federale. Per me è indispensabile avviare un confronto pubblico non chiuso solo nei confini delle istituzioni europee, dei governi, dei parlamenti, insomma degli addetti ai lavori, ma che coinvolga i cittadini, soprattutto le giovani generazioni, sul traguardo finale che ci poniamo. Io sostengo l’obiettivo di una democrazia federale, che abbia competenza sulla politica estera, di difesa e sicurezza, sugli indirizzi della macroeconomia, su clima e ambiente. Mi pare evidente che su questi temi gli Stati nazionali non hanno più gli strumenti necessari per intervenire e ciò, se non affrontato in modo risoluto, può mettere in crisi la stessa esperienza e funzione della democrazia. Sta già accadendo: basta leggere il rapporto 2019 di Freedom House. Stabilite le competenze dell’Unione la mia convinzione è che il modello di organizzazione democratica da fare nostro sia nelle linee portanti quello esistente negli USA, con almeno una modifica: il presidente è eletto direttamente dai cittadini, non con il meccanismo semi diretto dei grandi elettori. Tanti anni fa l’allora cancelliere della Germania federale Helmut Kohl sottolineava in un’intervista al giornale spagnolo El Pais come l’Unione Europea avesse un’organizzazione democratica inedita, che non si riscontra in nessun testo di diritto costituzionale. E’ vero e posso convenire che per una fase questa situazione abbia consentito all’Europa di fare progressi sulla strada dell’unità. Oggi però non è più così. E’ indispensabile definire con un coinvolgimento dei popoli chi vogliamo essere: stabilito l’approdo sarà possibile costruire tappe intermedie realistiche, graduali ma coerenti. Penso a cooperazioni rafforzate nel campo della difesa, nella prospettiva di un esercito europeo, della politica estera ad esempio rendendo il seggio permanente detenuto dalla Francia nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU espressione di indirizzi europei. Sento le solite obiezioni: la democrazia federale è un’utopia. Veniva detto nel XIX secolo a chi si batteva nel Risorgimento per l’unità nazionale, nel XX a chi si opponeva al fascismo e nazismo, poi nei Paesi del cosiddetto socialismo reale ai dissidenti. La storia ci ha mostrato che quelle utopie sono diventate realtà. Le sconfitte inappellabili sono quelle subite nelle battaglie non fatte. L’emergenza sanitaria, la crisi economica e sociale hanno avuto da parte delle istituzioni europee risposte nuove e forti: mi riferisco alle risorse per la cassa integrazione, al Recovery Fund, alle scelte della BCE. E’ la chiara dimostrazione delle potenzialità dell’Europa, tanto più, per utilizzare una cruda frase di Kissinger, quando oltre ad essere un gigante economico, cesserà di essere “un nano politico e un verme militare”.
Ma oltre agli impresentabili dell’est ci sono anche le resistenze meno declamate ma fortissime dei paesi frugali che temono l’azzardo morale dei paesi della spesa senza regole. Non concorda questi timori siano rafforzati dalle posizioni della Spagna e del Portogallo che del Recovery Fund accetterebbero solo i sussidi a fondo perduto ma non la parte di prestiti? O dell’Italia che rifiuta di accedere alle risorse del MES? Davvero sono egoisti quelli che si rifiutano di pagare il conto a piè di lista delle spese altrui?
Eviterei luoghi comuni: i cosiddetti Paesi frugali non sono gendarmi occhialuti che hanno a cuore solo i conti e non anche il benessere e lo sviluppo, le nazioni del Sud non sono abitate da scansafatiche irresponsabili. Dobbiamo affermare l’idea di una patria europea che non cancella la ricchezza di quelle esistenti, ma le integra, unisce, valorizzando le esperienze virtuose che ognuna ha in sé stessa e può offrire. Detto questo, vorrei in modo schematico mettere in evidenza tre aspetti: nella crisi scoppiata nel 2008 le politiche di austerità adottate sono state un serio e grave errore; sulle risorse messe a disposizione dall’Unione per fronteggiare epidemia sanitaria e crisi economica si è già aperta una riflessione- ho presenti ad esempio alcuni interventi del presidente del parlamento europeo David Sassoli- su una loro possibile e più ampia assunzione come debito nel bilancio europeo. Dipenderà penso dai tempi, dalla profondità e dalla qualità della ripresa dello sviluppo; noi italiani dovremo una volta per tutte affrontare e superare l’enorme debito pubblico che grava sul presente e condizionerà, se non risolto, il futuro. L’Unione Europea è un aiuto per porci dietro le spalle, gradualmente ma risolutamente, il debito, non possiamo pensare che ci sostituisca in questo impegno. Nessuna persona e nessuna nazione costruisce il proprio domani se smarrisce il senso del sacrificio, se non tiene strettamente uniti diritti e doveri. Le rispondo infine sul MES: Spagna e Portogallo hanno situazioni differenti non per l’epidemia o per la crisi economica ma per l’incidenza del debito pubblico. L’Italia avrebbe già dovuto a mio giudizio richiedere questo fondo, che non è quello usato dalla Grecia ma è stato messo a punto con una finalizzazione esclusivamente sanitaria, a condizioni di interesse favorevoli e restituibile nell’arco di un decennio. Sono 34 miliardi di euro che possono essere impiegati per un miglioramento complessivo della nostra sanità. Se si farà, bene: meglio tardi che mai!
In Italia tra cadute delle entrate fiscali e contributive ed incremento della spesa pubblica per garantire la sopravvivenza di chi è stato colpito duramente dalla chiusura delle attività esercitate il debito pubblico è esploso. Si sta affermando che lo stato deve garantire tutti e comunque, è il pagatore di ultima istanza. Non sarebbe il caso per rispondere ai paesi che temono una deriva assistenzialista senza remore attraverso una decisa affermazione della volontà entro un tempo ragionevolmente indicato in rinnovate regole di governo della spesa pubblica, di un patto di stabilità intelligente?
In parte ho già risposto. Se le forze politiche vogliono dare prova di senso dello Stato e di visione del futuro del Paese dovrebbero ricercare un minimo comun denominatore di misure da adottare per uscire in un determinato numero di anni dall’enorme debito pubblico che ci strangola. O quantomeno, in presenza di legittime impostazioni alternative tra centro sinistra e centro destra, convenire pubblicamente che il debito pubblico è questione centrale, da affrontare e rimuovere. Avanzare nel confronto e nella battaglia democratica proposte diverse, non negare la centralità del problema, cantando il ritornello che non c’è bisogno di sacrifici equi e di impegno. In Italia c’è una paurosa e insostenibile evasione fiscale. Le tasse sono soffocanti per quanti le pagano, mentre si ritrovano ad essere premiati gli evasori. Non si risana il debito pubblico con una evasione scandalosa ma con una riforma fiscale rigorosamente progressiva. Ho dubbi crescenti sull’avere abolito praticamente ogni tassa di successione. Concorderà con questa fotografia della situazione italiana, la cui evidenza si accompagna a una specie di anomalia del nostro Paese rispetto alle altre grandi nazioni europee: da noi con tutti i limiti e le difficoltà è stato il centro sinistra a porre in evidenza il debito pubblico e l’impegno per ridurlo. Dal 2006 al 2008 il governo Prodi, con Tommaso Padoa Schioppa ministro dell’economia, aveva riportato, pur avendo una minima maggioranza al Senato, il debito pubblico italiano sotto la soglia di 100 rispetto a PIL. Il governo Berlusconi dal 2008 al 2011 portò l’Italia a mezzo passo dal baratro. Poi si è preferito crocifiggere politicamente Monti e Napolitano, ma l’Italia era alla bancarotta.
L’altra preoccupazione presente nei circoli europei è che le risorse europee vengano sprecati in mille rivoli fatti di tramite bonus, incentivi, misure assistenziali o con frammentazione campanilistica degli investimenti infrastrutturali. senza riuscire incidere sui nodi strutturali che da venticinque anni frenano l’economia italiana. Le mosse del presidente Conte alimentano questo timore, sembrano più finalizzate a costruirsi una base elettorale per una inevitabile discesa in politica. Qual è il suo giudizio sulla costruzione del Recovery Plan?
Mi pare che non avendo ancora né il soggetto che predisporrà i progetti né il loro contenuto ma solo generali linee guida, si stia facendo un processo alle intenzioni, per ragioni partitiche di interessato controllo o per interessi economici che vorrebbero metterci sopra le mani. Considererei l’apertura di una crisi di governo un atto di irresponsabilità che aggraverebbe la sfiducia, anzi per essere precisi, il distacco esistente tra cittadini e partiti. Siamo dentro l’emergenza sanitaria, la predisposizione e attuazione di un piano per i vaccini, la crisi economica, i progetti per utilizzare i 209 miliardi di euro per un rilancio dell’Italia: una crisi sarebbe un avventuroso salto nel buio, probabilmente darebbe vita a un durissimo scontro elettorale. Accrescerebbe in Europa i dubbi sulla tenuta del nostro Paese. Si vorrà dare atto all’attuale governo di avere svolto un ruolo di primo piano nella svolta operata dall’Unione per il Recovery. Dubito che un governo Salvini-Meloni avrebbe suscitato un grande appeal in Europa. Panebianco ha scritto valutazioni di indubbia lucidità sui limiti e l’insufficienza per ruoli di governo di una destra a trazione anti-europea. Mi auguro che si operi per costruire e attuare progetti forti e seri di rilancio del Paese, coinvolgendo non formalmente le parti sociali e tenendo conto degli storici errori compiuti con i fondi europei: miriade, a volte un migliaio, di interventi per lo più di piccole dimensioni, localistici, difficili da seguire, da realizzare e in ogni caso, anche se portati a compimento, ininfluenti sullo sviluppo e sulla vita delle popolazioni. Le nostre difficoltà, da evitare questa volta, derivavano dalla frammentazione degli interventi e dal confuso sommarsi delle molteplici competenze istituzionali.
Non solo investimenti ma anche riforme chiede l’Europa nelle sue linee guida. Riforma della pubblica amministrazione, della giustizia, riforma fiscale. E ovviamente dovrebbero essere implementate prima dell’erogazione dei fondi. E’ un gioco delle parti in cui alla fine saranno riforme di facciata o su questo rischiamo di sbattere e compromettere il futuro del paese, di quei giovani il cui futuro rischia di essere compromesso? C’è qualcuno che ha intelligenza politica ed autorità morale per imporre scelte coraggiose? O sarà un tirare a campare, la prosecuzione dell’arte del non governo?
Non so fare previsioni certe, nutro speranze e mi sforzo di essere ottimista. Quantomeno di non smarrire l’ottimismo della volontà. Abbiamo bisogno di riforme profonde nei campi che lei dice, pubblica amministrazione, giustizia, fisco. Sono riforme da tempo necessarie all’Italia, da realizzare per avere un sistema politico-istituzionale efficiente, una democrazia in grado di assicurare rappresentanza e governabilità, non perché ce le chiede con insistenza l’Unione Europea. Aggiungo che resta necessaria la riforma delle nostre istituzioni. Dopo la riduzione del numero dei parlamentari bisogna cambiare la legge elettorale. Da sola però una nuova legge elettorale non basterebbe. Si deve introdurre la sfiducia costruttiva che, come dimostra la Germania, dà stabilità ai governi parlamentari e quella clausola di supremazia che esiste negli stessi Paesi federali. Sono un regionalista convinto ma quando si sia in presenza di un’emergenza o di una scelta di assoluto interesse nazionale un governo deve poter chiedere al parlamento, che valuta e decide, l’assunzione della responsabilità in prima persona. La babele di competenze, dissidi, polemiche emersa nel pieno della esplosione del covid 19 ci fa vedere che non l’Unione ci impone scadenze ma noi per essere protagonisti nell’Unione abbiamo bisogno di portare a compimento questa eterna transizione italiana. Mi faccia concludere con un’ultima sottolineatura. Si può essere critici con la politica. lo sono anch’io. E’ diritto dei cittadini sollecitare in modo efficace e costruttivo chi abbiamo eletto nelle istituzioni. Al tempo stesso bisogna cessare di dare una rappresentazione acritica della società civile. I protagonisti della politica non vengono da Marte. I cittadini hanno diritti e insieme doveri. Nella nostra Costituzione si parli di partecipazione democratica, di istruzione, di lavoro, sempre diritti e doveri sono indissolubilmente connessi. Sono convinto che dovremmo tutti riscoprire e tenere presente nei nostri comportamenti quotidiani quella celebre affermazione ripetuta da John Kennedy nel discorso dopo il giuramento come presidente degli Stati Uniti: non chiediamoci cosa lo Stato può fare per noi, ma quello che noi possiamo fare per lo Stato. Non è retorica: è responsabilità e senso civico che rende forte la democrazia. Se quel sentimento sarà fatto proprio da una maggioranza di cittadini, il futuro dell’Italia sarà degno e oggi potremo essere all’altezza delle sfide da vincere.
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