Quali sono i geni utili che dalla esperienza del PCI si rintracciano nella vicenda storica italiana, contro quali vizi o derive possono contribuire ancora oggi a difendere la sinistra in primo luogo ma assieme la società e la politica italiana?
Quali sono i geni dannosi trasmessi in eredità che hanno contribuito e contribuiscono a frenare le potenzialità ed a condizionare il ruolo e l’azione della sinistra per il cambiamento del Paese ?
È operazione difficile, verrebbe da dire quasi innaturale, per lo storico — al di là degli ideali, dei valori morali e civili che lo animano — tracciare una linea distintiva che separi ciò che di “positivo” o di “negativo” il fenomeno studiato avrebbe prodotto nel passato e lasciato in eredità nel tempo presente. È un’incertezza che si manifesta (o dovrebbe manifestarsi) sempre, ma in modo ancor più particolare quando ci si misura con fenomeni di lunga durata, assai complessi e controversi come la biografia del PCI. Credo, quindi, di non essere in grado di soddisfare appieno quanto richiesto dalle due domande.
Spero, pertanto, che mi si scuserà se proverò ad offrire (percorrendo altre strade) qualche elemento di riflessione e di inquadramento storico, anche per evitare di ripetere cose dette negli interventi finora pubblicati da “Solo Riformisti”, che ho letto con grande interesse.
Inizierei da una considerazione: la storia del partito nato a Livorno nel lontanissimo 1921 — e scioltosi nell’altrettanto lontanissimo 1991 — non si presta ad essere letta in “blocco” come per troppo tempo si è fatto e come si continua ancora in gran parte a fare. Perché si tratta di una storia che ne contiene tante e, aggiungerei, diverse tra loro: esse vanno collocate in precisi contesti di mutamento che hanno segnato, sia sul piano nazionale che internazionale, le numerose riconfigurazioni, alcune delle quali assai profonde, conosciute dal PCI nell’arco della sua esistenza che lo ha visto ergersi tra i principali protagonisti del Novecento. Riflettere sulla storia del PCI significa inoltre, e necessariamente, riflettere sulla storia d’Italia, profondamente influenzata (nel bene e nel male, in positivo e in negativo, a seconda dei giudizi) dalla presenza di un partito nato come sezione del Komintern. Un partito che, lungo tutto il proprio cammino, si sarebbe trovato nella condizione di tenere insieme l’elemento internazionale, costitutivo della propria stessa identità, con la necessità di legittimarsi politicamente e radicarsi socialmente nel contesto nazionale. Qui risiede tutta l’ambiguità, ma forse — direi meglio — la complessità, della storia del partito comunista più grande d’Occidente, il quale, in misura maggiore rispetto agli altri suoi omologhi (si pensi ad esempio al PCF), ha dimostrato di saper coniugare questa doppia dimensione, vivendone ed esprimendone tutte le contraddizioni. Ed è qui che, come grande partito di massa, esso ha mostrato la sua “peculiarità”, la sua “anomalia” prestandosi, tanto ieri quanto oggi — che se ne celebrano i cento anni dalla nascita — al giuoco della distribuzione degli accenti di giudizio sul tema della “eccezionalità” o meno del comunismo italiano e, di conseguenza, intorno al problema del se, del come del quanto questa sua famigerata “diversità” andrebbe ascritta alla dimensione internazionale oppure inscritta nelle anomalie della storia d’Italia. Certo è che il PCI ha condiviso, sino al suo ultimo respiro, aspetti fondamentali di un’identità internazionale che non è mai venuta meno. Basti solo pensare che la trasformazione del partito in una “cosa” che fosse “diversa”, che lo potesse proiettare in una nuova dimensione storica, quella del post-comunismo, si è prodotta esattamente al momento della crisi del comunismo internazionale, esattamente con la fine dell’URSS.
Per provare allora a riflettere con profitto — e direi anche con il necessario sereno distacco, a oltre trent’anni dal crollo del Muro di Berlino — su cosa il PCI possa aver lasciato in eredità, oggi, alla sinistra in particolare e al sistema politico italiano più in generale, occorre soffermarsi su un dato che si lega alle considerazioni precedenti. Dopo la fine della guerra fredda e l’implosione dell’Unione Sovietica, due letture di massima sull’esperienza del comunismo italiano hanno preso forma nell’agone della polemica politico-ideologica, con significative ricadute anche sul piano storiografico, dove, ad eccezione di qualche raro esempio, non si è avuto il rinnovamento metodologico che ci si poteva attendere (e questo solo in minima parte, secondo me, si spiega con l’apertura “temporanea” degli archivi sovietici). Ebbene, queste due letture di massima si sono fissate nell’immaginario collettivo, continuando a tramandare in chiave “mitica” la vicenda del comunismo italiano. La prima di queste letture trova espressione nella più o meno esplicita, a tratti nostalgica, difesa “in blocco” dell’esperienza del PCI — puntando in particolare sulla natura “diversa” del comunismo italiano rispetto agli altri comunismi — tra tante luci e appena qualche ombra che l’avrebbe accompagnata; la seconda, invece, alimentata sia dagli avversari sia dai fuoriusciti, tacciati spesso di “traditori” dai vecchi compagni, o da altri ancora autodichiaratisi “pentiti”, è tutta protesa a interpretare — sempre “in blocco” — la storia del PCI e della cultura politica del comunismo italiano, insistendo sulla perfetta omologazione con Mosca, sugli errori e sugli orrori, sulle colpe e sugli addebiti.
Si tratta di visioni che, di là da alcune sfumature intermedie, si riproducono allo stesso modo da almeno tre decenni e che a me appaiono affatto approssimative, euristicamente assai poco interessanti se non addirittura stucchevoli, in particolare quando si traducono in semplicistiche formule oppositive del tipo: Gramsci e Togliatti vs Turati; Berlinguer vs Craxi; comunisti vs socialisti; PCI partito nazionale vs PCI partito sovietico … e si potrebbe continuare a lungo ad arricchire questa lista. Ciò detto, al netto della mia personalissima allergia alle ricorrenze e alle relative manifestazioni, nella maggior parte dei casi incentrate sulle agiografie e/o sulle condanne — poiché sono convinto che la ricerca storica si debba condurre con i dovuti tempi e ritmi guardando i documenti e non i calendari — questo centenario della nascita del PCI potrebbe forse rappresentare (chi lo sa!) il momento propizio per cominciare a compiere uno sforzo di tipo metodologico volto a superare una lettura monolitica della vicenda del PCI (ma anche della vicenda di tutti gli altri partiti della “prima” Repubblica), per tentare di comprendere, intanto con maggiore serenità di giudizio e poi, alla luce di una lettura più aperta e articolata, in che termini quel grande partito e la cultura di cui è stato portatore abbiano inciso sull’evoluzione del sistema politico italiano nel suo complesso e, più in particolare, sulla vicenda della sinistra. Per eventualmente valutare, tra ricostruzione storica e memoria (non certo “condivisa” ma “critica”), che cosa sia rimasto nell’immaginario, nella cultura politica e civile degli italiani. Come? sforzandosi, ora che gli steccati ideologici sono crollati da tempo, di uscire dalla vecchia logica dei “recinti” (ognuno chiuso in casa propria!) che ha segnato, durante e oltre la “prima” Repubblica, tanto il confronto politico-ideologico quanto il dibattito storiografico sulla storia dei partiti italiani. Come? mettendo finalmente in relazione momenti e passaggi della vicenda del PCI con la vicenda degli altri partiti e culture politiche, “mescolandone” cioè le storie; approfondendo quelle fasi e individuando quei luoghi dove si sono prodotti non solo rotture o contrasti insanabili — come la logica del “recinto” ha portato inevitabilmente a credere, alla luce più che altro di asseverazioni senza appello —, ma anche processi di transfert tra le istanze programmatiche, tra le strategie di azione, dell’uno e degli altri. E ciò nella presa di coscienza che, quando in Italia c’era ancora non dico lapolitica, ma un certo modo di fare politica (che oggi non esiste semplicemente più), una parte risentiva inevitabilmente della relazione con le altre parti (soprattutto quelle più tenacemente avversarie) e che, alla luce di quella relazione, di scontro o di incontro che fosse a seconda delle situazioni, quella stessa parte si riconfigurava, inevitabilmente, nel proprio modo di operare e in certi casi anche nel proprio modo di essere. Questo è accaduto al PCI nella sua relazione con le altre forze politiche con le quali ha fatto la storia della prima fase del sistema politico repubblicano.
Si tratta di un altro aspetto che oggi si dovrebbe porre al centro dell’attenzione: da un lato per riscrivere una biografia del PCI e, con questa, la biografia di tutte le altre forze e culture politiche italiane, dall’altro, per riflettere, con una sensibilità nuova, libera cioè dalle tensioni che hanno attraversato il secolo delle ideologie, sull’eredità che esse hanno lasciato.
In Italia abbiamo una tradizione storiografica sui partiti politici — che non trova paragoni in altri paesi d’Europa — assai ricca e solida da un punto di vista del rigore della ricerca, ma prodotta esclusivamente da storici “organici” ai partiti stessi o comunque gravitanti nelle relative aree. Per capirci, la storia dei comunisti è stata fatta sostanzialmente da storici d’area comunista, quella dei socialisti da storici d’area socialista e così è stato per la storia della DC, del PRI, del PLI e via dicendo. Una storiografia robusta, lo ripeto, ma “recintata”. Una “condizione” affatto comprensibile se si entra in empatia con l’epoca storica che ha forgiato coloro che l’hanno prodotta, quando lo spirito di appartenenza era forte, per non dire consustanziale all’attività intellettuale. Il problema però è che, in buona parte, gli storici della nuova generazione continuano a risentire di quel “timbro”, in quanto esso è ancora in grado di incidere in ambito accademico e negli istituti di ricerca, dove si fatica ad allentarne la pressione per dare nuovo respiro alla storia dei partiti.
Il rinnovamento avverrà, ma ci vorrà ancora del tempo.
Tuttavia, tale “condizione” della storiografia politica italiana merita di essere spiegata. Essa è dovuta all’importanza rivestita dai partiti nel Novecento italiano. Un’importanza cruciale, che si può tentare di comprendere considerando che le difficoltà incontrate dallo Stato uscito dal Risorgimento, sul fronte del suo radicamento nella società, hanno fatto sì che gli italiani preferissero stringere un rapporto di interlocuzione “diretta” con i partiti piuttosto che con le istituzioni. Uno “speciale rapporto” che trova origine nel quadro dei complessi processi di ingegneria costituzionale avviati in Europa tra Illuminismo e Romanticismo, mentre su un piano più specifico affonda le radici nella dialettica tra le diverse correnti ideali e politiche che hanno animato il processo di indipendenza e di unificazione nazionale. Tale rapporto ha poi iniziato a manifestare i propri esiti, tra la crisi del primo dopoguerra, con l’emergenza dei partiti di massa, e il ventennio fascista, sino ad assumere nuove e più profonde implicazioni nel quadro del regime repubblicano. Già nella fase critica del 1943-45, di fronte al crollo dello Stato, i principali partiti del CLN avevano agito da collegamento tra le istituzioni e la società, nel nord della Penisola. Con la fuga del Re a sud, essi si erano sostituiti de facto allo Stato, divenendo i diretti artefici della riorganizzazione dei servizi pubblici, incaricandosi persino della nomina dei prefetti. Per gli italiani usciti dal Ventennio rapportarsi al partito in luogo delle istituzioni aveva dunque rappresentato un passaggio per così dire naturale, anche perché a questa dinamica erano stati abituati dal PNF. Lo aveva compreso, su tutti, proprio Antonio Gramsci, quando volle riflettere sui moduli organizzativi, del tutto originali, che il fascismo aveva ideato per la conquista stessa delle istituzioni, ma soprattutto, nell’ottica dell’avanzamento del processo totalitario, per la conquista della società. Un PNF obbligato a misurarsi con una nuova forma di “cittadinanza politica” — che l’introduzione del suffragio universale maschile e l’esperienza della Grande guerra avevano contribuito a creare — rifondando il rapporto politico tra popolo e Stato attraverso uno strumento nuovo: il partito di massa, ossia il più potente vettore di cultura politica. Tale aspetto sarebbe stato perfettamente colto non solo dal PCI ma anche dal PSI e dalla DC, partiti di massa, i quali, nel rinnovato contesto di pluralità e garanzia oggettiva delle libertà civili, avrebbero operato, secondo le loro capacità e modalità d’intervento, sì, al servizio della comunità politica, ma con lo scopo precipuo di (ri)fondarla prima nel quadro del compromesso costituzionale e poi nel corso dell’esperienza repubblicana. Da qui la nascita della “Repubblica dei partiti” avvenuta nel segno di una compresenza di diversi soggetti politici organizzati e attivi nella scelta delle persone che dovevano occupare ruoli istituzionali, tanto a livello locale quanto a livello nazionale. Da qui, il nuovo sistema politico che, dopo le ceneri del regime totalitario, non avrebbe abbandonato la “connotazione“ partitica, continuando ad operare per il coinvolgimento della cittadinanza.
La logica seguita dai partiti — e qui si possono leggere segni di continuità tra fascismo e post-fascismo — rimase in sostanza quella del “partito-Stato” e/o del “partito-società”, quale elemento di raccordo tra popolo e istituzioni e diretto a non occuparsi esclusivamente degli elettori, ma anche della creazione di quei luoghi di sociabilità politica dove forgiare, trasmettere e radicare la propria cultura (norme, simboli, miti, riti, comportamenti…). Sospinti da questa “tensione”, i partiti si sono via via meglio strutturati, potenziando i propri apparati organizzativi. In questo senso furono orientati dal clima della guerra fredda, da un contesto cioè che contribuiva sia a legittimarli, sia a conferire loro una natura “carismatica”, la quale, combinata con la “macchina” organizzativa, rendeva sensibilmente efficaci i canali di diffusione e di radicamento delle relative culture.
Il PCI è stato protagonista, fra i principali, di questo processo di costruzione della centralità dei partiti nella storia d’Italia. Senz’altro è stato protagonista assoluto nella costruzione del rapporto con la società, attraverso i suoi modi organizzativi animati da un’ideologia internazionalista e rivoluzionaria calata in un contesto nazionale. Operazione resa possibile dallo sviluppo della strategia di Togliatti che, alla guida di un PCI ormai “altro” da quello delle origini (seppur legato a doppio filo con Mosca e sebbene non avesse abbandonato l’ostilità anti-riformista e anti-socialdemocratica), era riuscito a far smaltire al popolo comunista l’onta del patto Molotov-Ribbentrop del 1939, adducendo ragioni geopolitiche (come sarà poi nei drammatici tornanti del 1956 et del 1968), e avrebbe operato per construire la “diversità” del “partito nuovo” tra geopolitica appunto e politica nazionale.
Infatti, se è vero che le ricerche di Aga Rossi e Zaslavskij hanno certificato che la svolta di Salerno e la conseguente strategia moderata erano state decise a Mosca, è altrettanto vero che i contenuti di quella “moderazione” furono una invenzione del segretario del PCI, il quale ben seppe recepire Gramsci, l’esperienza del frontismo e in particolare l’esperienza della guerra di Spagna da cui riprese la prospettiva di una rivoluzione che fosse al tempo democratica e antifascista. È ancora da Togliatti, sulla eco delle tesi di Lione, che deriverà la formulazione della centralità ideologica dell’antifascismo secondo l’assunto che la democrazia potrà diventare un sistema forte soltanto nel giorno in cui sarà capace di annientare tutti i residui del fascismo. Una strategia, sintetizzata nell’equazione antifascismo=democrazia volta al monopolio comunista dell’antifascismo, che egli avrebbe utilizzato sia come strumento per l’annientamento dell’anti-comunismo sia per la rivendicazione della presenza dei comunisti in un sistema repubblicano egemonizzato da una maggioranza anti-comunista (la DC e i suoi alleati).
Il contesto in cui operò Togliatti rientrato in Italia dall’URSS era dunque diverso rispetto a quello pre-fascista e del Ventennio. La seconda guerra mondiale del resto aveva aperto uno scenario del tutto inedito. Il rapporto del PCI con Mosca rimase, come detto, strettissimo, vincolante. Ma questo rapporto, affatto complesso, non può spiegare da solo sic et simpliciter tutto ciò che avvenne in quel momento e che sarebbe avvenuto poi. O meglio, esso lo spiega se si considera che non solo il PCI, ma il sistema politico italiano, nel suo complesso, veniva forgiato dagli equilibri di forza stabiliti a Yalta, alla luce dei quali i comunisti trovarono “sponda” nella stessa DC, bloccando con essa il sistema da ogni possibile alternativa. E ancora, il rapporto con Mosca, pur non esaurendosi, cambierà nuovamente durante la segreteria di Berlinguer, il quale, tra conservazione, ritardi e aperture, avrebbe provato a rilanciare la questione comunista per iscriverla con inchiostro “nuovo” nella storia dell’Italia democratica e europeista.
Tornando, in conclusione, al tema della pluralità della storia del PCI, va considerato un altro aspetto, che, in fin dei conti, potrebbe aiutare, magari anche più delle considerazioni fin qui avanzate, ad individuare quei geni identitari ancora “visibili”, sebbene non più spendibili politicamente come potevano esserlo un tempo, ma che potrebbero forse rivelarsi, in qualche misura, utili per riprendere in mano la politica come momento di condivisione, di partecipazione.
Questo aspetto riguarda un’altra storia, ancora, del PCI. È la storia di quelle persone, di quei “semplici” militanti, lavoratrici e lavoratori, dotati di una tempra e di una dedizione alla causa che li distingueva dai militanti di tutti gli altri partiti. È la storia dei protagonisti della “comunità comunista italiana”. Una storia non sempre “in fase”, nonostante la presenza capillare della macchina organizzativa e la ferrea disciplina che regolava il ruolo dei suoi funzionari, con le vicende del gruppo dirigente. È la storia di milioni di donne, di uomini e di giovani, di gente “normale” che facevano della sezione di partito, della festa dell’Unità i luoghi di sociabilità privilegiati, dove condividere riti e simboli e liturgie, dove riunirsi (anche rifugiarsi) nel quotidiano, per ascoltare i racconti di chi per l’ideale aveva rischiato la vita, e dove studiare, dibattere, leggere e interpretare il mondo a loro modo.
Gigliola Sacerdoti Mariani
Un esempio di conoscenza, coerenza e coesione!
Gian Luca Corradi
Ho veramente apprezzato quanto esposto, in particolare l’analisi non condizionata dalle antiche logiche contrapposte dei partiti, e di delineare cosa di buono si potrebbe riprendere dalle esperienze del passato. Grazie Simone