Quali sono i geni utili che dalla esperienza del PCI si rintracciano nella vicenda storica italiana, contro quali vizi o derive può contribuire ancora oggi a difendere la sinistra in primo luogo ma assieme la società e la politica italiana?
Il Pci è stato certamente un grande partito e ha svolto un ruolo determinante nella costruzione della politica e della società italiana dopo le devastazioni del fascismo e della guerra. Tuttavia è stato anche corresponsabile dei principali vizi e debolezze del paese, dei quali ora ci rendiamo conto in modo drammatico. Perciò mi riesce difficile dire quali siano i “geni positivi” trasmessi dal Pci alla sinistra italiana. Non c’è una parte tutta positiva e una tutta negativa. C’è un intrico di buono e cattivo. Per esempio si potrebbe dire che certamente positiva è l’eredità di difesa e allargamento della democrazia. Ma questa eredità positiva è in parte guastata dalla identificazione della democrazia con la rappresentanza proporzionale e con un sistema parlamentare in cui prevale quello che è stato chiamato “complesso del tiranno”: cioè la diffidenza verso il potere dell’esecutivo, da cui deriva la sua debolezza strutturale. Basti pensare alla impossibilità per il presidente del consiglio di licenziare e sostituire un ministro. La debolezza dell’esecutivo era in passato compensata, o surrogata, dalla forza dei partiti; e anche dal condizionamento esercitato dall’alleanza atlantica. Oggi non abbiamo più né l’una né l’altro, e quella debolezza risalta in modo nuovo, anche nel confronto con gli altri paesi europei a regime parlamentare.
Forse l’eredità positiva più consistente è proprio quella dell’essere “partito”. Non è un caso che l’ultima propaggine del Pci, il Partito democratico, sia anche l’unico partito italiano che si riconosca tale. “Partito” per i comunisti significava anzitutto organizzazione – e questo è un significato ancora attuale e positivo, anche se poco realizzato nel Pd. Significava coltivare la capacità, la vocazione direi, di coinvolgere cittadini e ceti sociali nella vita politica, attraverso una pedagogia diffusa. In sostanza, per usare termini attuali, il Pci formava il consenso, non lo inseguiva. Di questo ci sarebbe ancora bisogno – naturalmente con contenuti e strumenti diversi – e almeno per questo varrebbe la pena di non dimenticare l’esperienza del Pci.
Un altro punto positivo – anch’esso, sia chiaro, da ripensare profondamente – è il peso dato alla riflessione teorica e scientifica. Il Pci aveva numerosi centri di ricerca, che sono stati a lungo luoghi di elaborazione originale, anche se il rapporto col partito non era sempre facile. Oggi il Pd sembra del tutto disinteressato alla ricerca, e anche questa è una ragione di perdita di consensi e di autorevolezza. Il mondo accademico e scolastico, che era uno dei principali bacini di forza del vecchio partito, è stato lasciato a se stesso ed è ora preda di una sinistra nostalgica e conservatrice.
Quali sono i geni dannosi trasmessi in eredità che hanno contribuito e contribuiscono a frenare le potenzialità ed a condizionare il ruolo e l’azione della sinistra per il cambiamento del Paese ?
Tra i “geni negativi” metterei anzitutto l’ossessione della responsabilità. A prima vista la responsabilità è una virtù, ma, come insegna il filosofo, la virtù è una posizione mediana tra gli estremi.
Il Pci ha coltivato la responsabilità come equilibrio politico, per esempio quando ha frenato la reazione popolare all’attentato a Togliatti, nel 1948. O quando ha evitato facili toni anticlericali. O quando si è fatto carico, pur contro i suoi umori più profondi, delle battaglie per il divorzio e per l’aborto. Ma la responsabilità è diventata la coperta per una linea politica precisa, che sceglieva l’alleanza con la Dc invece di cercare di costruire una sinistra più larga, e che si sarebbe dovuta discutere in questi termini e non con il ricatto della responsabilità. Col passare del tempo, e l’avanzare della crisi italiana, la responsabilità è diventata quasi una scelta obbligata, che è stata tra le cause del declino del Pci. Ma questa tendenza è rimasta anche nei partiti che ne hanno raccolto l’eredità, e che preferiscono sempre gli accordi parlamentari alle sfide elettorali. La responsabilità tende a sostituire la volontà e la capacità di trovare il consenso nella battaglia per le proprie idee. Ma alla lunga non paga.
Un’altra eredità negativa – forse la più importante – è la struttura oligarchica del partito. Gli scienziati politici ci dicono che la tendenza alla strutturazione oligarchica è insita nei partiti, ed è generalmente riequilibrata con il rinnovamento del ceto politico. Non sembra che il Pci prima, i suoi eredi poi, siano riusciti a operare tale rinnovamento, se non in forme marginali. Paradossalmente, l’attuale ubriacatura populistica, che non risparmia nessuno, non fa che rinforzare l’oligarchia. I canali di comunicazione sono sempre più quelli – populistici, appunto – dei social network, mentre la strategia politica viene decisa da pochi dirigenti, senza una discussione aperta. Anche le riunioni di Direzione non sono che ratifiche di decisioni già prese.
Nessuno s’immagina che si possano fare riunioni fiume di vari organismi prima di prendere decisioni. Al contrario; ma se le strategie di fondo fossero state discusse in momenti specificamente a ciò dedicati, sarebbe possibile anche dare una maggiore libertà di manovra al leader. Il leaderismo, tanto esecrato (basi pensare alla vicenda di Renzi) è invece, se accompagnato alla trasparenza della discussione politica, e alla forza della designazione delle primarie, il migliore antidoto all’oligarchia.
Infine, un gene senz’altro negativo, che il Pci ha trasmesso ai suoi eredi, è quello che si riassume in tre aspetti strettamente collegati tra loro: demonizzazione dell’avversario attraverso la sempreverde accusa di fascismo; giustizialismo, cioè l’incoercibile spinta a sperare nella magistratura per liberarsi di avversari considerati pericolosi perché di destra; senso della propria diversità o forse meglio superiorità, che non avrebbe bisogno di essere dimostrata nei fatti, perché certificata dalla storia. La storia, ormai, non certifica più niente; anzi sembra mettere in discussione proprio la forza della democrazia, alla quale è legata la sinistra in qualunque paese. Gli eredi del Pci non hanno più la rivoluzione russa, con o senza forza propulsiva, a garantire il loro ancoraggio alla storia. Dovrebbero riuscire a essere una sinistra veramente nuova, liberale e popolare, ma non populista; capace di costruire il suo consenso in una società frammentata e parcellizzata, che ha un disperato bisogno di vedere davanti a sé strade nuove. Per questo obiettivo l’eredità del Pci ha poco da dire.
Salvatore Carollo
Lucida e brillante analisi. Sottolineo soltanto l’importanza che la ricerca e la
capacità di elaborazione aveva nel PCI. Dalle attività alle Frattocchie al lavoro delle Commissioni della Direzione, dove venivano raccolte tutte le intellingenze all’interno del Partito ma anche fra gli intellettuali democratici, si era in grado di capire i cambiamenti del mondo e della società.
Il PD oggi si affida alle esternazioni di personaggi impreparati che non sentono il bisogno di capire e studiare, che cavalcano attraverso i canali della comunicazioni le emozioni viscerali dell’elettorato senza saper dare direzioni e soluzione alle emozioni. Energia ed ambiente sono l’esempio più vistoso. L’allenaza coni grilli sta diventando sempre più una sovrapposizione identitaria.