Quali sono i geni utili che dalla esperienza del Pci si rintracciano nella vicenda storica italiana, contro quali vizi o derive può contribuire ancora oggi a difendere la sinistra in primo luogo ma assieme la società e la politica italiana?
Tanti sono stati i “geni utili” che dalla esperienza del PCI si rintracciano nella vicenda storica italiana: ogni ricognizione in questo senso richiederebbe un grande lavoro di ricostruzione di fasi e di situazioni, le più diverse, che altri, più attrezzati di me, possono fare. Il mio contributo si limiterà, pertanto, a qualcosa di più limitato che partirà dal mio vissuto personale e dall’impatto che certi fatti hanno avuto sulla mia formazione politica.
Il primo “gene utile” è stato l’antifascismo e la concezione della democrazia come valore universale. Le discriminazioni, le angherie e l’organizzazione del partito nella clandestinità sotto la dittatura, la svolta di Salerno del 1944, la Resistenza e la Liberazione nel 1945 hanno segnato nel profondo la vita di tante famiglie. Non possono essere dimenticate. Il PCI è nato e cresciuto in questo contesto storico, culturale e sociale. C’e’ un bellissimo libro, “Il sarto di Ulm”, nel quale Lucio Magri ha scritto delle particolari circostanze, tra le altre, degli anni di formazione del partito di massa nel secondo dopoguerra e ricorda come Luigi Longo descrivesse il partito stesso in quegli anni con queste parole: “questo non è un partito è una folla”, diceva, o giù di lì. Una espressione che rappresenta bene l’insieme tumultuoso di speranze, problemi, contraddizioni, spinte, sentimenti, emozioni che si rivolgevano al PCI e che il PCI si proponeva di organizzare e dirigere in un determinato percorso politico che non era fare come in Russia, ma era la via democratica al socialismo. Una peculiarità originale, tutta italiana.
Qui sta la sostanza del progetto che in quegli anni, e ancor prima nelle riflessioni di Antonio Gramsci, fu pensato e delineato, ma che ancor oggi è rimasto incompiuto, nonostante alcune importanti realizzazioni che non devono essere dimenticate, quali, ad esempio, il suffragio universale, lo Statuto dei diritti dei Lavoratori, la Riforma Sanitaria e il Servizio Sanitario Nazionale, la legge 180, le Regioni, il diritto di famiglia, la legge 194, la sconfitta del terrorismo. Tutte realizzazioni che hanno visto il contributo determinante del PCI.
Quali sono i geni dannosi trasmessi in eredità che hanno contribuito e contribuiscono a frenare le potenzialità ed a condizionare il ruolo e l’azione di sinistra per il cambiamento del paese?
Tra i “geni dannosi” che contribuiscono a frenare le potenzialità ed a condizionare il ruolo e l’azione di sinistra metterei la concezione della politica come tattica burocratica per il potere fine a se stesso, incapace di ascoltare il malessere diffuso e di coglierne le spinte positive per il cambiamento.
La stessa vicenda della svolta di Occhetto del 1989-1990 che portò alla chiusura del PCI, alla quale mi opposi con convinzione, l’ha dimostrato chiaramente. Non per niente è avvenuto, a cascata da quel passaggio ad oggi, un succedersi di scissioni e di cambiamenti fino alla scomparsa formale della Sinistra nel nostro Parlamento. In quella vicenda, per sorte, mi trovai a dover svolgere la funzione di coordinatore provinciale della Mozione 2, che per pochi voti mancò la maggioranza relativa dei consensi al Congresso della Federazione di Pistoia, ed ho vissuto dal di dentro prese di posizione, scadenze, procedure, modalità di percorsi, comportamenti che tangibilmente dimostravano quanto la cosiddetta volontà di “innovazione” e di “cambiamento” ripercorreva vecchi riti e logiche asfittiche.
Chi si opponeva alla svolta non metteva in discussione la necessità di adeguare in profondità le scelte strategiche del partito, ma sosteneva che questo non poteva voler dire rompere, frantumare, abbandonare un patrimonio di elaborazione, di lotte, di conquiste, di relazioni, di idee.
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