Quali sono i geni utili che dalla esperienza del PCI si rintracciano nella vicenda storica italiana, contro quali vizi o derive può contribuire ancora oggi a difendere la sinistra in primo luogo ma assieme la società e la politica italiana?
In un celebre discorso pronunciato a Gettysburg il 19 novembre 1863, Abramo Lincoln così immaginò una vera o piena democrazia: “un governo del popolo, dal popolo e per il popolo”. Circa cento anni prima, era stato coniato il motto del dispotismo illuminato: “Tutto per il popolo, niente dal popolo”.
Parafrasando Lincoln, e con i necessari caveat, si potrebbe dire che il Pci è stato a lungo un partito del popolo, dal popolo e per il popolo. Del popolo nel senso che, nonostante il centralismo democratico e le frequenti cooptazioni, esisteva una reale comunità politica che esprimeva una classe dirigente in cui si riconosceva. Dal popolo nel senso che molti leader, locali e nazionali, avevano umili origini o vivevano in condizioni di povertà, a partire da Gramsci e Togliatti. Per il popolo perché il Pci ha ricercato, e dato, un contributo positivo al bene comune del paese: dall’opposizione al fascismo, alla stesura della carta costituzionale, alla lotta al terrorismo.
Quali sono dunque i geni utili che il Pci lascia in eredità alla sinistra e alla democrazia italiana? Quelli di una forza politica autenticamente popolare e mai populista, capace di favorire la partecipazione di milioni di persone alla vita delle istituzioni tenendo presente il bene comune del paese.
Quali sono i geni dannosi trasmessi in eredità che hanno contribuito e contribuiscono a frenare le potenzialità ed a condizionare il ruolo e l’azione della sinistra per il cambiamento del Paese ?
Il 21 gennaio 1921, a Livorno, si consumava la scissione dal Partito Socialista Italiano. Il nuovo partito nasceva per dar vita alla sezione italiana della Terza Internazionale comunista guidata da Lenin. Fin dall’inizio, si manifestava la progressiva trasformazione di un ideale di giustizia sociale in un’arida ideologia che aveva la pretesa di predire il moto della storia.
Hannah Arendt, nelle ultime pagine de Le origini del totalitarismo, ha descritto alcuni caratteri che accomunano ogni ideologia: tra questi, il bisogno di formare una classe di “soldati politici”. Pensiamo per un attimo ai segretari politici (e al ristretto gruppo dirigente) che si sono succeduti alla guida prima del Pcd’I, poi dei suoi eredi. Quanti hanno svolto una normale vita civile e professionale? Forse nessuno. Non è un giudizio ingeneroso verso persone che, per capacità, avrebbero potuto ricoprire ruoli apicali in ogni ambito professionale. Basti pensare a Togliatti e Berlinguer. Anzi, la loro decisione di dedicare la vita a un ideale politico è per molti versi ammirevole. Ma, in tempi di pace e di democrazia, è un errore considerare la politica una professione. La politica resta un servizio alla comunità. Molti ritengono che, per essere dei buoni amministratori della cosa pubblica, occorra specializzarsi, intraprendendo, fin dall’inizio, la carriera politica. Il punto è che, per essere dei buoni amministratori del bene comune, non si può essere solo dei politici di professione: occorre avere una parallela o antecedente vita professionale che consenta di conoscere, per esperienza personale, la vita reale delle persone e di poter abbandonare, se necessario, gli incarichi istituzionali. Questo non significa che non si possa o non si debba fare politica fin da giovani. Certo che si può, ma come semplici militanti e svolgendo comunque un’attività lavorativa.
I geni dannosi che il Pci ha trasmesso alla sinistra e alla democrazia italiana sono quelli di una politica intesa come professione che, lentamente ma inesorabilmente, ha scavato un fossato tra rappresentanti e rappresentati rischiando, involontariamente, di riportare indietro le lancette della storia, dal discorso di Lincoln sulla democrazia partecipata al motto dell’illuminismo elitario.
Lascia un commento