Che cosa sono le istituzioni? La risposta a questa domanda basica stenta ad emergere dalla foschia della tempesta verbale, oggi attraversata dai lampi del premierato e dell’autonomia.
Nell’immaginario collettivo, le istituzioni sono “palazzi”, “sedi”, “poteri”: il Quirinale, Montecitorio, Palazzo Madama, Palazzo Chigi, Palazzo della Consulta… Palazzi occupati e, in democrazia, occupabili e contendibili. Ma l’essenza delle istituzioni è altra.
Esse sono, innanzitutto, le regole rapprese e solidificate della convivenza civile e le reti di imbrigliamento del Potere politico, che tende per natura sua a franare sulle strade della società civile. Le regole addensano e formalizzano i costumi – l’etica storica – la morale individuale, il diritto, nella sua duplice faccia di “moral suasion” e “physical constriction”.
Sono il prodotto di un contratto sociale, che è, a sua volta, la risultante effettuale del conflitto e della cooperazione. Sono espresse nel formalismo del linguaggio giuridico, ma non perciò riducibili a formalismi o a galateo. Esse sono “la forma” di ogni società. Senza la quale, o la società esplode in mille conflitti o viene compressa da un potere dispotico. Gli esempi non mancano, né quelli del primo caso né quelli del secondo.
Il Nuovo Titolo V: una riforma necessaria e mal decisa
Il primo corollario logico di questo discorso è che le regole-istituzioni “si definiscono insieme” da parte di tutti i soggetti politici. Sulla “politics” e sulle “policy” ci si può scontrare, a lungo e ostinatamente, ma sulle regole occorre accordarsi.
Se non lo si fa, “politics” e “policy” vacillano. Naturalmente, sarebbe ingenuo ignorare che è fatale tentazione dei gruppi umani quella di proporre regole favorevoli agli interessi della propria parte.
Si sta seduti al tavolo delle regole, ma si guarda a lato, per prevedere se esse favoriranno i miei interessi o no. Tutti i soggetti seduti al tavolo sviluppano questo “fisiologico” approccio egoistico.
Si deve però prendere atto che nel sistema politico italiano questa fisiologia è divenuta patologia. C’è una data di inizio: l’8 Marzo 2001 il Senato ha approvato con la Legge Costituzionale n. 3/2001 la riforma del Titolo V della Costituzione – artt. 114-132 -, entrata in vigore, a seguito di referendum confermativo, l’8 novembre 2001.
La ratio della riforma era cogente da tempo: adeguare il dettato costituzionale all’istituzione delle Regioni, avvenuta vent’anni dopo il varo della Costituzione. In forza del nuovo dettato, la Repubblica non si identificava più con lo Stato, era più larga. L’art. 114 pone sullo stesso piano i Comuni, le Province, le Città metropolitane, le Regioni e lo Stato quali entità costitutive della Repubblica.
Alle Regioni è riconosciuta ampia autonomia statutaria, legislativa, organizzativa e finanziaria. È la base dottrinale dell’autonomia differenziata. Il Nuovo Titolo V muoveva dal riconoscimento che nel Paese esisteva una “questione meridionale” storica, ancorché irrisolta, ma che stava montando, anzi era già esplosa, anche una “questione settentrionale”, di cui la Lega di Bossi era l’epifenomeno e la rappresentanza politica.
Era la presa d’atto che il sistema delle Regioni, nato in ritardo, rispecchiava, senza essere riuscito a ricomporla, la frattura scomposta del Paese. Le Regioni del Nord erano – sono – in grado di governare meglio dello Stato centrale, quelle del Sud lo facevano – e continuano a farlo – sempre peggio. Devolution, deleghe, autonomia differenziata avevano e hanno un solo senso: una gara pacifica tra loro e con l’Amministrazione centrale tra chi è più capace di amministrare le risorse pubbliche date. Ottimo!
Ma tale imponente riforma è stata approvata dal solo centro-sinistra. Il quale, nel tentativo di sottrarre in extremis, come nel 1994, il federalista Bossi alle spire avvolgenti di Berlusconi, ha perpetrato uno smaccato uso/abuso politico di riforma. Da allora in avanti, prima Berlusconi e poi Renzi hanno provato a varare riforme della “forma-governo”, sempre per via unilaterale.
Sottoposte a referendum confermativo, ha sempre vinto il NO. Anche perché l’invenzione del referendum confermativo avente per oggetto questioni costituzionali complicate, tradotte in quesiti formulati in linguaggio astruso, non è stata felice. Così la posta in gioco finisce per essere, ogni volta, il consenso non all’oggetto del referendum ma al soggetto che lo ha proposto, cioè al governo di turno.
(articolo ripreso, con il consenso dell’autore, dal sito sotto indicato)
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