Ci pare utile rilevare le inesattezze contenute, a nostro parere, nel lungo articolo di Milena Gabanelli pubblicato nel “Data Room” del Corriere della Sera circa la “trappola” costituita dalla flessibilità del lavoro. Vediamole una per una.
I VOUCHER
La prima è ovviamente quella che concerne gli odiatissimi voucher. Pensati per far riemergere un po’ di lavoro sommerso, ne è anche stato fatto un abuso. Tuttavia la modalità citata da Gabanelli, ossia che le aziende comperano qualche voucher se mai dovesse arrivare un’ispezione ma poi fanno lavorare in nero, è impossibile dal 2017: è obbligatorio comunicare all’Inps tramite SMS l’attivazione del contratto.
Il voucher non è neanche un lavoro “povero”: per verificare quest’osservazione vale la pena fare un raffronto con il trattamento “corretto”, ossia quello di un Ccnl che abbia al suo interno un profilo professionale paragonabile a quelli cui normalmente appartengono le figure che fanno prestazioni occasionali; ho scelto Pubblici Esercizi, Ristorazione Collettiva e Commerciale e Turismo (Confcommercio). Per il 7° livello (il più basso) e prestazione discontinua (ossia con le caratteristiche tipiche del lavoro occasionale) la paga oraria lorda è di 6,9€; per il livello superiore (sesto) è di 7,26 €. Per il lavoro occasionale è di 10€ lordi, 7,5 netti. Peraltro non può essere reiterato dopo 6-7 settimane: da escludere quindi il suo utilizzo in vece di un posto di lavoro stabile, che peraltro non costerebbe di più. Del resto fin dall’inizio era una formula pensata non per flessibilizzare il lavoro stabile ma per offrire un’alternativa al lavoro nero.
IL CONTRATTO A TERMINE
La seconda è un grande classico: il contratto a termine (inteso come “precariato” nella sua più negativa accezione). Qui gli errori di lettura dei dati sono marchiani. È falso che il contratto di lavoro più diffuso sia quello a termine: nel 2022 i lavoratori con contratti a tempo indeterminato hanno superato stabilmente i 15 milioni, record di sempre. Sul totale dei lavoratori dipendenti i rapporti stabili hanno toccato l’83,4%, in rialzo di 0,7% rispetto al 2021. La differenza (16,6%) è del tutto in linea con la media dell’Unione Europea.
In realtà l’articolo gioca sulla confusione ingenerata dal confondere contratti in essere con attivazioni di contratti: gli 8,5 mln di contratti a termine attivati nel 2022 non corrispondono a 8,5 mln di lavoratori assunti a termine, ma ad un numero molto inferiore, perché ad ogni lavoratore in un anno corrispondono normalmente diversi contratti a tempo determinato; infatti a fine 2022 risultavano essere poco più di 3 mln i lavoratori con contratti a termine (contro, giova ripeterlo, gli oltre 15 mln di contratti stabili).
Errato che il record di occupati di 23,3 mln (che comprendono anche gli autonomi) sia dovuto alla crescita del lavoro precario: nel 2022 all’incremento occupazionale ha contribuito quasi esclusivamente la componente a tempo indeterminato. Sono stati creati nel corso dell’anno oltre 410mila posti di lavoro stabili, a fronte della sostanziale stazionarietà degli impieghi a termine. In effetti il saldo delle assunzioni a termine, al netto di cessazioni e trasformazioni a tempo indeterminato, è stato di 23mila unità contro le 323mila del 2021, mentre gli avviamenti a tempo indeterminato, comprese le trasformazioni da tempo determinato (al netto delle cessazioni), sono stati 412mila, contro i 236mila del 2021.
I CONTRATTI PART-TIME
Veniamo ora ai contratti part-time: in Italia sono il 17,4% del totale dei contratti dipendenti, quando la media dell’area Euro è del 20,1%. Per capirci meglio in Germania sono il 28,3% e in Francia il 16,1%. Resta da capire quanti di questi part-time sono indesiderati, e su questo dato è giusto dire che è sostanzialmente corretto il dato citato da Gabanelli.
Non ha invece ragione quando mette assieme tutte le forme di lavoro atipico, che hanno origini e motivazioni molto diverse tra loro per dire che il loro numero mette in discussione la crescita occupazionale degli ultimi 12 anni, in quanto “non sono contratti standard”. Quando sostiene che il 30% dei lavoratori resta “inchiodato” all’impiego precario, evidentemente (tenere presenti i numeri visti prima) considera tendenzialmente precario chiunque non abbia un contratto di lavoro dipendente full time e a tempo indeterminato.
I SALARI
Infine i salari: l’affermazione che i salari in Italia non crescono “perché non sono legati alla produttività” identifica uno che non è del mestiere: i salari li determina la contrattazione, che tiene conto di molti fattori tra cui, ovviamente, la produttività. Ma non esiste un automatismo tipo scala mobile tra produttività e retribuzioni. Dal 2009 al 2014 la produttività totale dei fattori è aumentata mediamente dello 0,6% annuo, e dal 2014 al 2021 dello 0,5%, e la produttività del lavoro rispettivamente dello 0,9% e dello 0,6%. Non si capisce da dove la Gabanelli abbia tirato fuori il 21,9%.
L’affermazione che il lavoratore a tempo determinato percepisce 9.634 € all’anno non tiene conto del fatto che lo stesso lavoratore ha normalmente più contratti in un anno: lo stesso vale per l’apodittica (?) affermazione che l’8,7% percepisce meno di 10.000 € all’anno. Qui stiamo in un’area grigia, in cui il lavoro regolare convive col nero, fino a determinare queste cifre di imponibile francamente incompatibili con le condizioni reali del Paese. Questo non vuol dire che esitano nel mercato del lavoro situazioni di sfruttamento e di sofferenza di cui occorre farsi carico, come l’elevata percentuale di giovani che non studiano né lavorano e, soprattutto, il gravissimo ritardo dell’occupazione femminile (ignorato nell’articolo) che costituisce il vero banco di prova dell’evoluzione sociale ed economica del paese. Ma una corretta analisi della realtà è fondamentale proprio per la ricerca di proposte efficaci per la soluzione dei problemi.
L’ESEMPIO SPAGNOLO CITATO NEL DATA ROOM
La stessa conclusione dell’articolo sull’esempio spagnolo denota l’adesione ad una campagna di propaganda senza avere eseguito alcun fact-checking: i limiti imposti ai contratti a termine (che comunque restano, con oltre il 20% ben superiori alla media italiana) sono controbilanciati dalla facoltà per le aziende di licenziare anche senza giusta causa pagando una penale pari a un mensilità di stipendio per anno lavorato, con un massimo di due. Credo che chi nel sindacato italiano invoca di fare come in Spagna promuoverebbe lo sciopero generale se lo si facesse davvero.
(questo articolo è già uscito su StartMagazine, www.startmag.it )
Lascia un commento