E sono cento gli anni che ci separano da un momento tanto drammatico quanto cruciale nella storia d’Italia. A Roma, il 10 giugno 1924, il deputato Giacomo Matteotti, segretario del Partito socialista unitario, è appena uscito di casa. Si incammina sul lungotevere Arnaldo da Brescia per recarsi a Montecitorio. Sono all’incirca le 16,30. D’improvviso è aggredito e sequestrato da una banda di sicari, membri della cosiddetta “Ceka fascista” (o “del Viminale”), istituita all’inizio di quell’anno per svolgere operazioni illegali contro gli oppositori. Una vera e propria organizzazione criminale, informale e segreta, che gode della copertura della presidenza del Consiglio.
Aggredito da due, il deputato socialista si divincola e ne butta a terra uno. Sopraggiunge un terzo, che gli sferra un pugno sul volto. Tramortito, viene così caricato in auto, una Lancia Lambda nera che sfreccia sgommando col clacson suonato ininterrottamente per soffocare le urla di Matteotti che, ripresosi, continua a lottare contro i suoi aggressori. Ad un certo punto, mentre la colluttazione prosegue, uno di questi, Giuseppe Viola, estrae un pugnale e trafigge Matteotti tra ascella e torace. Il colpo è fatale, il deputato socialista morirà dopo alcune ore di agonia. Il suo cadavere, ovvero quel che ne resta, devastato dal tempo e dagli animali, sarà ritrovato il 16 agosto nella macchia della Quartarella, un bosco nel comune di Riano, a meno di 25km da Roma. Mani e tessuti muscolari non ci sono più. Occorrerà una perizia odontoiatrica per identificarlo con certezza.
Il 30 maggio, undici giorni prima della sua uccisione, Matteotti era intervenuto alla Camera dei deputati denunciando con fermezza, dati alla mano, i brogli, le intimidazioni e le violenze che avevano caratterizzato sia la campagna elettorale sia le operazioni di voto nei seggi durante le consultazioni del 6 aprile precedente, stravinte dalla lista nazionale fascista. Al termine del suo intervento, tra le urla e le minacce provenienti dai banchi della maggioranza, rivolgendosi ai compagni di partito che si stavano complimentando, rispose: «Io il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il mio elogio funebre».
L’omicidio di Matteotti è la conferma di quanto egli stesso aveva denunciato pubblicamente in un precedente discorso parlamentare, tenuto il 31 gennaio 1921:
Oggi in Italia esiste una organizzazione pubblicamente riconosciuta e nota nei suoi aderenti, nei suoi capi, nella sua composizione, nelle sue sedi, di bande armate, le quali dichiarano apertamente (hanno questo coraggio, che io volentieri riconosco) che si prefiggono atti di violenza, atti di rappresaglia, minacce, violenze, incendi, e li eseguono non appena avvenga, o si pretesti che avvenga, alcun fatto commesso dai lavoratori a danno dei padroni o della classe borghese. È una perfetta organizzazione della giustizia privata.
Il fascismo ha fatto propria la lezione bolscevica, implementata dall’esperienza bellica, nonché l’insegnamento elitista: una minoranza organizzata ha sempre la meglio su una maggioranza disorganizzata. Se poi l’organizzazione consiste anche nel disporre di una milizia privata tollerata, quando non apertamente supportata, dalle forze pubbliche, carabinieri ed esercito, la conquista del potere è senz’altro agevolata. Il partito armato è l’asso nella manica dell’azione di Benito Mussolini, che si muove dentro l’anarchia politica e sociale del primo dopoguerra italiano seguendo un doppio binario. Da un lato, c’è l’azione illegale, violenta e sovversiva dello squadrismo che dalle campagne dilaga in molte città tra la fine del 1920 e si protrae ben oltre la fine del 1922. Dall’altro lato, il duce del fascismo si insinua nelle molte crepe di quella che in altri tempi era stata la diga dello schieramento parlamentare liberale, ora incrinato dai successi di socialisti e popolari alle elezioni del 1919, per proporsi come collante e restauratore di un ordine pubblico e di una stabilità istituzionale che egli stesso aveva – e avrebbe – contribuito non poco a minare. Presentarsi come contro-rivoluzione per di fatto rivoluzionare il sistema dell’Italia liberale, sia pure in direzione opposta alle intenzioni di socialisti massimalisti e comunisti, questo il disegno mussoliniano. Un esito altrettanto illiberale della minacciata (col senno di poi, più a parole che nei fatti, ma in politica conta il presente, la contingenza) repubblica dei soviet.
Nel profluvio di pubblicazioni uscite sul delitto Matteotti nel corso dei decenni abbiamo scelto di segnalarne tre, non tanto perché più recenti (una, peraltro, non lo è), ma in quanto di più agevole lettura e quindi utili per rilanciare la conoscenza di una figura umana e politica di cui si sa forse il nome, ma sempre meno la storia. Lo sottolinea con efficacia Sergio Luzzatto nella prefazione ad una recente edizione Garzanti dei due celebri discorsi parlamentari, che abbiamo sopra ricordato. Scrive lo storico genovese:
Nell’Italia di oggi, il nome di Giacomo Matteotti vive unicamente nella toponomastica: viale Matteotti, corso Matteotti, largo Matteotti, piazza Matteotti […]. Ma se non fosse per questo […] Matteotti sarebbe scomparso dalla nostra vita pubblica e privata. […] Non se ne sono ricordati o quasi neppure i fondatori del Partito democratico, quando hanno discusso (o hanno fatto finta di discutere) chi più meritasse di far parte del loro “pantheon”.
Eppure, prosegue Luzzatto, la figura del deputato socialista, se adeguatamente studiata e divulgata, risulterebbe quanto mai esemplare e di sprone alla vita politica dell’Italia contemporanea. Anzitutto Matteotti fu davvero un politico radicato sul territorio, amministratore locale attento all’equilibrio dei bilanci comunali, all’efficacia dell’azione amministrativa e alla correttezza nella gestione delle opere pubbliche. Da recuperare sarebbe anche «la sua interpretazione della militanza politica quale etica del lavoro e della conoscenza» (p. 7), perseguìta anche nelle vesti di deputato, dal 1919 al 1924.
Questa attenzione alla verità dei fatti, allo smascheramento della propaganda falsa e tendenziosa, propalata anche da accreditati organi di stampa, contrassegnò anche la sua azione antifascista, già ben delineata da quanto egli stesso affermava nel discorso alla Camera del 31 gennaio 1921. Matteotti non considerava affatto effimero il fenomeno fascista e vi lesse subito la saldatura tra convergenti interessi di classe, dei ceti medi con gli agrari: «Siamo i primi a riconoscere le origini storiche e la necessità del fascismo, siamo i primi a interpretarne la giustificazione economica, quasi direi come necessità sociale di questo momento» (Contro il fascismo, p. 20). Il contesto ne aveva determinato la nascita, la crescita e il consenso. Ciò non faceva del fascismo l’autobiografia della nazione, secondo l’interpretazione che ne dava in quegli stessi anni Piero Gobetti, che di Matteotti apprezzò il coraggio, la tempra di uomo forte e severo, giudicato come del tutto alieno rispetto alle tendenze compromissorie e opportunistiche del riformismo socialista. Ciò però significava, come sottolinea Massimo L. Salvadori in un agile e denso saggio uscito pochi mesi fa per l’editore Donzelli, disconoscere la coerente e decisa adesione matteottiana all’ala riformista del socialismo italiano. Espulsi dalla risicata maggioranza massimalista il 3 ottobre 1922 in occasione del XIX congresso del Psi, i gradualisti guidati da Filippo Turati avevano il giorno dopo costituito il Partito socialista unitario (Psu), di cui Matteotti assunse la segreteria. Nonostante egli ne rappresentasse l’ala “sinistra”, per così dire, o “rivoluzionaria”, per usare le parole di Salvadori, la scelta riformista lo legava strettamente e con convinzione a quel Turati che invece Gobetti, nel suo celebre saggio Rivoluzione liberale, uscito nel marzo del 1924, non esitò a bollare come «il più formidabile diseducatore dell’Italia moderna» (cit., p. 82). Ennesimo esempio, questo giudizio gobettiano, delle profonde divisioni interne allo schieramento antifascista che non seppe, nemmeno all’indomani del delitto Matteotti, sfruttare l’ondata di indignazione popolare che attraversò il paese e che per alcuni mesi incrinò la solidità del governo guidato da Mussolini.
Salvadori evidenzia come «i modi in cui Turati da un lato e Gramsci dall’altro si volsero a guardare alla figura dell’ucciso testimoniarono il fossato incolmabile che divideva i socialisti unitari e i comunisti» (p. 77). In un articolo pubblicato il 28 agosto 1924 su «Lo Stato operaio», il segretario del Partito comunista giudicava l’uccisione del leader riformista come la conferma della via errata perseguita dai socialisti, tanto riformisti quanto massimalisti:
Il sacrificio di Matteotti è celebrato nel solo modo degno e profondo dai militanti che nelle file del partito e dell’Internazionale comunista si stringono per prepararsi a tutte le lotte del domani. Solo per essi la classe operaria cesserà di essere «pellegrina del nulla»; cesserà di passare di delusione in delusione, di sconfitta in sconfitta, di sacrificio in sacrificio (cit., p. 79).
Insomma, ogni occasione era buona per portare avanti le polemiche interne al fronte variamente socialista, anche la barbara uccisione di un esponente del calibro di Matteotti, probabilmente in quel momento il vero leader dell’antifascismo. Del resto, ancora più eloquente un altro discorso gramsciano, tenuto un paio di settimane prima al Comitato centrale del PCd’I (13-14 agosto):
Oggi siamo in linea per la lotta generale contro il regime fascista. Alle stolte campagne dei giornali delle opposizioni rispondiamo dimostrando la nostra reale volontà di abbattere non solo il fascismo di Mussolini e Farinacci, ma anche il semifascismo di Amendola, Sturzo, Turati.
Com’è noto, il primo di coloro che Gramsci bollava come “semifascisti” sarebbe stato vittima delle violenze fasciste nella primavera successiva, mentre agli altri due sarebbe toccato l’esilio. Ma questo era il contesto hobbesiano, di bellum omnium contra omnes, dell’Italia postbellica nel quale la duplice azione mussoliniana, eversiva e politico-parlamentare, poté insinuarsi e infine trionfare. Decisivo il ruolo svolto dalla Corona, come dimostrarono in modo definitivo i sei mesi successivi all’uccisione di Matteotti. Per una ricostruzione del contesto e del clima che dal 10 giugno del 1924 condusse al discorso del 3 gennaio 1925, con il quale Mussolini si assunse «la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto», il libro di Giovanni Borgognone, uscito in prima edizione nel 2012 per i tipi di Laterza, offre ancora una sintesi chiara ed efficace. Si comprende, appunto, come nasce una dittatura, o almeno quella che afflisse l’Italia per un ventennio.
A proposito della posizione politico-ideologica del deputato socialista, Luzzatto azzarda a definirlo un liberale, sia pure «alla sua maniera» (p. 11). Con ciò intende dire che, una volta fatta la scelta di seguire l’espulso Turati e assunta la segreteria del Psu, Matteotti si preoccupò di tenere alta la bandiera della libertà coniugata con la democrazia, quest’ultima intesa come equità sociale ed emancipazione delle classi subalterne, le plebi rurali anzitutto. Individuò nella difesa delle prerogative del Parlamento l’ultimo bastione di una cittadella liberale e democratica, certo ancora fragile e da consolidare, in quel frangente assediata tanto dall’estremismo fascista, alimentato dalla borghesia più conservatrice e arroccata nelle proprie paure e rendite di posizione, quanto dall’estremismo comunista, a cui si accodavano i massimalisti del Psi. A proposito del giudizio matteottiano su origini e sviluppo dell’estremismo politico in Italia, Salvadori riporta ampi stralci di un articolo apparso nel marzo del 1924 su «La Giustizia»:
L’estremismo italiano, in gran parte di brutta copia francese, vecchia e nuova, blanquista, herveista, Sorelliana [sic!] – prima ancora della guerra e delle sue conseguenze di accensione ideologica, prima della rivoluzione russa e del suo contagio nelle nostre masse – è sempre stato vostro, signori del fascismo! Ed ha sempre avuto in noi, negli attuali esponenti del Socialismo unitario, i fermi e costanti oppositori, in nome del socialismo, della gradualità, della educazione delle folle, della «lotta di classe e non guerra di classe», della concezione classista contemperata e integrata dalla visione dei nessi e delle coincidenze con la realtà circostante, con lo sviluppo della produzione e con gli interessi generali e nazionali, in nome della civiltà e del buon senso, in nome di tutte le ragioni pratiche ed etiche per cui sempre aborrimmo il catastrofismo e la violenza, il miracolismo e l’odio, l’utopismo e il terrorismo, il ciarlatanesimo e la demagogia! […] Vi è una continuità logica, una dirittura di linea perfetta nei rapporti fra noi e quegli uomini che in passato capeggiarono l’estremismo rosso e oggi capeggiano il fascismo. […] Essi, passando dall’estremismo al fascismo, ci combattevano allora come ci combattono adesso. È ben per questo che il loro rancore ha così antiche radici (cit., p. 55).
Ad accomunare fascisti ed emuli italiani del bolscevismo era dunque l’antiriformismo, che si traduceva in antiparlamentarismo e nel culto dell’azione diretta, spesso violenta e sommaria, nel mito della rivoluzione come atto palingenetico, che non crede al miglioramento lento e paziente, fatto di compromessi virtuosi, acquisizioni graduali di spazi di libertà e crescenti livelli di equità. Ancora più esplicito, se possibile, un altro intervento, sempre del marzo del 1924:
Noi siamo per la libertà per tutti, dentro i limiti fissati dalle maggioranze. Il proletariato diventa maggioranza via via che diventa cosciente, e non sostituendo una barbarie o una sopraffazione ad un’altra. […] Il fascismo trova nel suo avversario, che gli somiglia, un naturale alleato. Se il Comunismo non ci fosse, il Fascismo lo inventerebbe, poiché esso è il pretesto alla sua Violenza e alla sua Dittatura: esso è lo spettro, di fronte al quale le classi medie e produttrici subiscono la violenza e la dittatura attuali. I due sistemi oligarchici si giustificano e si «tengono» a vicenda (cit., pp. 39-40).
Due lunghe citazioni giustificate dal fatto che vi troviamo riassunte le idee per le quali Matteotti si sentì non di rado un isolato anche tra i suoi compagni di lotta, ma per cui fu disposto a rischiare la vita nonostante minacce reiterate, nonché aggressioni e violenze subite a più riprese negli anni del primo dopoguerra, compreso un breve sequestro nel marzo del 1921 quando subì persino sevizie e atroci umiliazioni. Per quanto intimidatorie e degradanti volessero essere le azioni vigliacche perpetrate nei suoi confronti dallo squadrismo fascista, lo spirito di Matteotti rimase indomito e combattivo, fino al sacrificio supremo. Un autentico eroe, si sarebbe detto in altri tempi.
Sia Luzzato che Salvadori ricordano giustamente l’importanza che la scuola e la pubblica istruzione ebbero nel pensiero e nell’azione del deputato socialista. A giudizio di quest’ultimo, come scrive Salvadori, «alla scuola spettava il compito […] di attrezzare le menti e dotare degli strumenti necessari a favorire lo sviluppo economico, sociale e civile» (p. 57) e, al contempo, «in nome della serietà, che è dire di criteri di moralità, di giustizia e di senso di responsabilità verso la società, Matteotti chiedeva che non si tollerasse la scuola facile» (p. 63). Egli non esitava a dichiarare che, nel corso degli studi superiori,
non dovrebbe essere più ammesso alcuno che si trascini a stento per il curriculo [sic!] delle classi. Chi sa e ha le attitudini necessarie, proceda; chi non sa dev’essere rimandato. […] il proletariato deve esigere senz’altro che gli studi siano aperti solo a chi abbia intelligenza, attitudine e volontà, all’infuori di ogni considerazione economica [cit. ibid.].
Per tutti gli altri, «quelli che non sanno o sanno poco o male» (ibid.), si doveva indirizzare al lavoro manuale. Laica e indipendente dovevano essere istruzione e cultura. Salvadori ha ragione: un’eco mazziniana, anche se mai menzionata, è lecito rinvenire nell’attenzione matteottiana all’elevamento spirituale e politico delle massi popolari tramite educazione e istruzione, da affiancare al miglioramento materiale da ottenersi tramite riformismo economico e sociale. Non ebbe remore a redarguire persino il proprio gruppo parlamentare, così come gli amministratori del suo partito, per lo scarso impegno talora profuso a favore delle politiche scolastiche, dall’edilizia alla diffusione delle biblioteche popolari. Luzzatto, dal canto suo, ci ricorda quanto Matteotti esprimesse critiche severe nei confronti degli insegnanti poco scrupolosi (p. 8).
Il grande poeta americano Ezra Pound, affascinato dalla figura di Mussolini e diventato perciò convinto sostenitore del fascismo, arrestato nel 1945 dai suoi connazionali per collaborazionismo e tradimento, ebbe a dire che «se un uomo non è disposto a rischiare per le proprie idee, o le sue idee non valgono niente, o non vale niente lui». Può sembrare paradossale, e non s’intende certo essere irriverenti o provocatori, ma si può affermare con certezza che Giacomo Matteotti abbia incarnato perfettamente il senso di questa frase poundiana. Valeva l’uomo, valgono ancora molte delle sue idee. Fu un maestro di coraggio contro il fascismo, che nell’ucciderlo mostrò di essere un esempio tanto di ferocia quanto di viltà. Pensando alla tragica vicenda di Matteotti e a come sorse la dittatura mussoliniana, è proprio il caso di chiudere con questa frase di George Eliot, scrittrice di epoca vittoriana: «Ogni codardo può combattere una battaglia quando è sicuro di vincere; ma datemi l’uomo che si è messo a combattere quando era sicuro di perdere». Ecce homo: Giacomo Matteotti è il suo nome.
Recensione a: M.L. Salvadori, L’antifascista. Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio, cent’anni dopo (1924-2024), Donzelli, Roma 2023, pp. 184, € 19,00; G. Matteotti, Contro il fascismo, prefazione di S. Luzzatto, Garzanti, Milano 20222, pp. 96, € 4,90; G. Borgognone, Come nasce una dittatura. L’Italia del delitto Matteotti, Laterza, Roma-Bari 20132, pp. 266, € 10,50.
Silvano
Articoli belli, secchi e ben collegati. Come sarebbe bello se fossero commentati con senso storico ed etico nelle scuole superiori . Senza farne scopo di interrogazioni!!