Mai come stavolta, gli auguri di buon anno nuovo suonano improbabili ma assolutamente necessari. Il 2020, per chiunque di noi, è stato un periodo terribile, quasi surreale. Nessuno – anche pochi mesi prima, quando già il “germe” di un cambiamento tanto improvviso quanto traumatico circolava da tempo nelle nostre città, e sulle nostre gambe – avrebbe potuto immaginare che in poche settimane l’intero scenario globale – dunque, ad esso collegati, quelli più piccoli, locali, che misurano rassicuranti, apparentemente stabili, il normale scorrere delle nostre vite quotidiane – sarebbe stato messo letteralmente sotto sopra. E invece – complice un evento naturale come i tanti che hanno costellato la storia e che continueranno, negli anni e nei decenni a venire, a costellarla – nel giro di pochissimo tempo consuetudini e certezze date per scontate, procedure e automatismi considerati come irreversibili, sono profondamente mutati, e con essi i nostri stati d’animo, i nostri umori, io credo i nostri stessi modi di percepire le cose. Alcuni dicono che ne usciremo migliori, più sobri, con una maggior consapevolezza e quindi più propensi ad una maggior solidarietà e ad un atteggiamento più responsabile verso gli altri e verso le cose che ci circondano; altri, più pessimisti, sostengono invece che questa prova epocale che è la pandemia non farà altro che accentuare i tratti più timorosi del nostro carattere, e le tendenze al ripiegamento su sé stessi della nostra mentalità. Io so solo che ne usciremo trasformati, semplicemente. In un modo o nell’altro – o meglio, visto che entrambe le possibilità si realizzano sempre in maniera inestricabilmente miscelata: con la preponderanza di una polarità o dell’altra – ciò dipenderà, oltre che dall’evolversi delle circostanze, innanzitutto dalle nostre scelte, politiche e sociali.
Prendere coscienza di questo nostro potere di orientamento dei cambiamenti significa in primo luogo porsi una domanda solo apparentemente banale: la pandemia che stiamo vivendo – che sta riscrivendo i nostri sistemi produttivi e la stessa logica economica che li ha sinora animati, che ha licenziato quasi sessant’anni di storia istituzionale europea imponendole, in tempi brevissimi, di ripensarsi ed innovarsi radicalmente – ha un senso oppure no? Insegna qualcosa o è solo un accidente, per quanto grave, cui adattarsi, così come si fa ad esempio nel caso di un terremoto devastante, dopo il quale – non importa quanti anni siano necessari alla ricostruzione – si riprende la normale vita di ogni giorno, grazie anche ai meccanismi psicosociali di rimozione indispensabili a sospendere l’angoscia provata per l’inaspettato e a riconquistare fiducia nella conduzione della nostra esistenza? Qualsiasi evento, qualsiasi cosa, animata o inanimata, qualunque forma di vita – dalla più sofisticata, come quella umana, a quella meno, come quella di un virus – in sé e per sé non vogliono dir nulla. Acquistano rilevanza solo se dotati di senso, solo cioè se inquadrati dagli esseri umani nella loro esperienza vissuta e soltanto se sono da lì trasposti in una cornice di significato condivisa, presidiata da simboli, ritualità e sigilli di memoria collettiva. Non è un processo solamente ideale. Si forma anzi a partire dalla “durezza” dei dati di fatto che, per quanto “partigianamente” interpretabili in ragione dei rapporti sociali e di potere, forzano con potenza propria i nostri schemi mentali. Sono allora tre le lezioni che – secondo me – questa “realtà là fuori” ci sta imponendo.
La prima è la necessità di un profondo ripensamento dei processi della così detta globalizzazione. Per decenni l’abbiamo da un lato magnificata, vedendovi una forza in grado di scardinare i provincialismi, di superare i tradizionalismi locali e di sprigionare oltre ogni confine la forza della razionalità e dei suoi correlati: tecnologie, efficienza produttiva, consumo personalizzato e mode distintive, logiche meritocratiche, amministrazione tecnica e tecnocratica dei conflitti sociali, ricondotti alla difesa miope di interessi di parte; dall’altro l’abbiamo temuta e paventata, come fonte di indistinzione, di omologazione, di colonizzazione culturale, di erosione di sovranità di “popoli” e di categorie sociali. I tempi che stiamo vivendo ci dicono che quella dicotomia è fuorviante. La globalizzazione è ormai un connotato umano irreversibile (peraltro maturato da secoli). Non c’è praticamente area del mondo in cui il CoviD non sia comparso e non si sia diffuso, nessuna realtà geografica in cui il lockdown, anche più duro, sia riuscito ad arginarlo completamente e a respingerlo oltre le sue mura, senza pagare un duro prezzo di vite umane. Globalizzazione è interconnessione e – piaccia o no – i salti del virus da una specie ad un’altra sono stati agevolati dalla prossimità patologica imposta dallo sfruttamento di risorse naturali che hanno compromesso irrimediabilmente gli equilibri ecosistemici, ponendo le basi – avverte l’OMS – di ben più potenziali pericoli sanitari di cui il Sars-Cov-2 è solo un pur grave campanello di allarme. E tuttavia, quella stessa globalizzazione è ciò che ha straordinariamente consentito uno dei più grandi successi della scienza, la messa a punto cioè, in tempo praticamente reale, di vaccini e di farmaci che sono il prodotto di un’intelligenza collettiva che si è alimentata dello studio, dell’applicazione, dello sviluppo tecnologico, delle diverse visioni del problema da risolvere tipici dei luoghi in cui gli scienziati di ogni parte del pianeta hanno lavorato e si sono scambiati informazioni, conoscenze, intuizioni e capacità di cogliere anche l’importanza dell’errore (il caso del vaccino anglo-italiano Oxford-AstraZeneca). La globalizzazione del domani che verrà sarà diversa da quella polarizzata che abbiamo fin qui schizofrenicamente coltivato. I geografi sociali registrano in questi giorni la rimessa in discussione della logica centripeta dei gradi centri urbani, metropoli e megalopoli. Ciò che spinge ad un crescente decentramento urbano non è solo la paura per una densità sociale che favorirebbe il contagio ma anche i semi di una fiducia interpersonale che sembra meglio (ri-) germogliare negli insediamenti di piccola e media dimensione, nei quali il rischio di reazioni violente ed intolleranti (ad esempio la corsa alle armi all’insorgere della pandemia negli Stati Uniti, appena pochi mesi fa) è potenzialmente arginato da una prossemia fatta di maggior conoscenza e di più affidabile spirito di comunità (sul punto, fra gli altri, Pisano C. [2020], Strategies for Post-COVID Cities: An Insight to Paris En Commun and Milano 2020, in “Sustainability”, Vol. 12, Issue 15).
La seconda lezione è quella di un nuovo federalismo “verso l’alto”. Se la tendenza al decentramento cui abbiamo accennato sopra – un decentramento che non è solo di demografia urbana ma che non potrà che avere risvolti anche sul piano delle infrastrutture tecnologiche, dell’innovazione e della competitività produttiva (i temi dell’economia socialmente responsabile, di quella eco- e socio-sostenibile, di quella circolare, ma pure della disarticolazione delle grandi concentrazioni oligopolistiche nei campi della comunicazione digitale) – segna la direttrice botton/up (quella tradizionalmente fin qui praticata dalla riflessione federalista), l’esperienza fattuale della pandemia indica adesso la crucialità dell’altro versante, quello top/down, dall’alto verso il basso. Non c’è localismo – sia questo a scala intercomunale, consortile, regionale, finanche statuale rispetto livelli di coordinamento politici ed economici più generali – che, senza un contro-bilanciamento da parte di un potere più accentrato e dalle chiare competenze, non si ripieghi alla fine su sé stesso, per degenerare in comunitarismo e chiusura. Un tempo, questo vertice di riferimento era lo Stato nazionale, e da lì lo sforzo a ritagliare condizioni di possibilità alle autonomie locali interne. Oggi lo Stato-Nazione mantiene – nonostante la retorica astratta dei “cosmopolitisti” (il suffisso “-ismo”) – un’importanza dirimente ma le sfide globali, quand’anche di una globalizzazione policentrica e radicata nei territori, gli impongono il confronto dialettico con istanze obbligatoriamente sovranazionali, perché dai rischi globali ci si salva soltanto insieme e cooperando a livello planetario.
Questo versante è ancora da costruire ma si impone “senza se e senza ma”. Fra le vittime della pandemia, acanto al cosmpolitismo ideologico, giace anche il sovranismo populista, ormai praticamente afono e dalle armi spuntate di fronte allo scenario attuale post-CoviD19. Non una proposta – da parte sua – che non rimastichi vecchi slogan dello scorso XXI secolo (durato appunto solo vent’anni) per fronteggiare la ricostruzione. Oltreoceano, la sua forma più involuta è durata appena quattro anni. Scorre ancora nelle vene americane, non è questione di che li lo ha interpretato. Caduto questo “connettore”, è però come se la sua proteina spike si sia spuntata. Sono possibili mutazioni. Ma bisogna vedere se e quali, con un’apertura al campo delle possibilità sino a pochi mesi fa impensabile. E lo stesso discorso vale qui per la Gran Bretagna, uscita dall’Europa come chi sceglie di calare una scialuppa di presunto salvataggio in mare confidando nel traino di un’altra nave che è però improvvisamente affondata. Costruire finalmente questo nuovo versante top/down del federalismo richiede – io credo – scelte fino a poco tempo fa nemmeno percepite: superamento del diritto di veto nell’architettura decisionale europea, elezione diretta del Presidente della Commissione Europea, rilancio della grande questione di una Costituzione Europea e, alla luce di questa, realizzazione di un potere legislativo e di un potere giudiziario nel senso pieno della parola, in grado di sanzionare l’infrazione dei principi fondamentali, liberal-democratici, alla base dell’Unione.
Leadership: l’ultima lezione del CoviD. Innanzitutto un effetto collaterale. Ciò che ci salverà è il lascito della cultura occidentale, quella di cui, per intenderci, parlava Max Weber, dunque nello specifico quella europea, prima ancora che americana: il pensiero e il metodo scientifico, i valori e le istituzioni di una democrazia che ha saputo sinora coniugare – con il welfare e grazie (e a dispetto) dei continui tentativi di riforma – efficienza economica e giustizia sociale, tecnica ed etica. Dopo un lungo periodo durante il quale abbiamo troppo facilmente accettato di considerarci una tradizione di pensiero ormai “debole”, tutto sommato figlia di una stagione storica superata da quella attuale, dominata piuttosto dai nuovi “leoni” dell’Est (la Cina, il “Sultanato” mediorientale), l’Occidente, in questo frangente, ha dato prova tangibile della sua vitalità e dell’importanza “universale” (nel senso di condivisa, partecipata) della sua esperienza storica, radicata nei millenni. L’“anno che verrà” – gli anni che lo cadenzeranno – porranno quindi il problema di tradurre quella vitalità in rinnovata intraprendenza e capacità di guida di un’élite e di una classe dirigente di nuovo degne di questo nome. In Europa, dati alla mano, ad oggi, c’è una sola vera Leader, la Cancelliera tedesca. Ma da sola – e alla fine del suo mandato – non basta. I leader, in ogni campo, sono frutto di esperienza sul campo, di gavetta, di studio e formazione, di conoscenza e di quel pizzico di “magia” (ma dalle base sociali e relazionali) che Weber chiamò “carisma” (ma un pizzico, non le manciate; magia, non pericolosi incantesimi).
Oggi, guardando l’esperienza italiana, non può che prendere il più profondo sconforto. E questo sentimento desolante io credo si avverta sempre di più trasversalmente, fra le generazioni post-Covid. Non si scambi il consenso verso l’attuale Governo – e verso l’attuale élite politica – come una piena legittimazione di fronte alle sfide che ci attendono, prima fra tutte l’accesso, il merito e l’efficacia del monumentale Piano Nazionale di Crescita e Resilienza nel quadro di Next Generation EU. Nei momenti di crisi e di smarrimento – quale quello che stiamo vivendo, sospesi fra inalterati pericoli di contagio e speranze nelle nuove armi mediche – qualunque autorità decisionale vale più del salto nel vuoto di una sua mancanza o di un’alternativa poco delineata ed attardata. Una volta riconquistata una abitudinaria (per quanto diversa) normalità, le domande torneranno ad incalzare, e con bisogni del tutto inediti. Servirà preparazione, lungimiranza, prospettiva, riforme e decisioni. Che per ora si intravedono appena.
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