VICOLO DELLA NEVE
È nella notte d’inverno
il pallido azzurro fornaio
disegnato di vene,
la luna a mezzo febbraio,
quel parlare di cene.
Il vicolo aveva la neve
del dolce nome granito,
un uomo triste che beve
il suo vino appassito.
Il vicolo aveva il balcone
della puttana smargiassa
e quell’odore di nassa
di polpo bollito e limone.
Il vicolo aveva l’inverno
il canto della canaria
i numeri rossi del terno
l’ultimo palpito d’aria
di fresca cantina, d’arancio
che torna – oh se torna! – nel grano
fiorito della pastiera.
Il vicolo aveva nel gancio
l’insegna contrabbandiera
del c’era una volta il lontano
racconto del tempo che fu.
Straniero, se passi a Salerno
in una notte d’inverno
di luna a mezzo febbraio,
se vedi il bianco fornaio
che batte le mani sul tondo
di quella faccia cresciuta,
ascolta venire dal fondo
degli anni la voce perduta.
L’odore di menta t’invita,
la tavola bianca, la stanza
confusa dall’abbondanza.
In quell’odore di forno
per qualche sera la vita
si scalda con le sue mani
e quegli accordi lontani
del tempo che fu.
Questo gioiello di Alfonso Gatto è quasi incommentabile tanto è esatta la sua parola. È esempio vivido di come la voce del mito non abbisogni di una vera e propria mitologia. Di come il mito stia nella polvere e nella farina, nell’odore di forno dell’abbondanza e nel vino appassito della privazione.
Cliccando nel link tra parentesi (https://youtu.be/2yGEgkXrDPU) si può sentire una bellissima versione della poesia, musicata, arrangiata e cantata dal cantautore Lorenzo Ignudi.
Massimo Pizzingrilli
Bravo Massimo, grazie del florilegio che stai costruendo con questa rubrica. Bello e atroce. Perché comincio a temere di non saper più leggere queste poesie, non so chi sia più conservatrice queste tutte poesie o la mia lettura