«attenti a dettare i nomi
perché il ghiacciaio li inghiotte
e ne modifica il destino –
una stele di neve – l’odore degli
abiti che furono il preludio
alla glaciazione – l’ala – il gusto
progredito tra le orche oppure
l’Ave che divampa» non credere
alla pace con cui il Nord
avviluppa i cieli – c’è una storia
e una ferocia anche mille secoli
sotto il ghiaccio – una parola che
ti turba quando con le lenzuola
costruisci un igloo per la fama dei figli.
Leggiamo una stanza della raccolta Abbecedario antartico (Raffaelli editore, Rimini 2017) di Davide Brullo, di gran lunga il più grande poeta italiano della sua generazione. La raffinatezza linguistica di questo testo è di una specie null’affatto frequente, è tutta al servizio della sensatezza di confine del nome e della non pietosa materialità della lingua.
Tra la conclusiva forma domestica dell’«igloo» costruito con le lenzuola «per la fama dei figli» e il «ghiacciaio» del secondo verso si distende una trama avanzata in cui il nome resiste alla sintassi ed esprime un suo peculiare eroismo. La traccia della vita che non cede alla sepoltura glaciale e nevosa è tutta addensata nell’essere il nome stesso una traccia precaria e insieme resistente alla livellazione indistinta del linguaggio. Come in Baudelaire, il consueto diviene qui indisciplinato scatto allegorico, disobbedienza delle cose al loro canone, comunicazione impossibile tra distanti, fino all’accensione del sospetto che nel codice dei ghiacci di questi versi si possa nascondere l’«enigma rovente» (per usare il titolo di una raccolta di Nelly Sachs) di una qualche inconfessata intimità creaturale e terrestre. Se sotto l’igloo delle lenzuola può giungere l’antica parola che turba, può anche accadere l’opposto: che la spessa coltre dei ghiacci antartici sia il deposito non solo del mito, ma anche di umane effettività, di catastrofi mai raccontate.
Lascia un commento