Il 16 agosto 2021 i talebani riconquistavano Kabul, e in pochi giorni riprendevano pieno possesso dell’Afghanistan, dopo averlo già dominato tra il 1996 e il 2001.
La rapidità con la quale i talebani sono tornati al potere, dopo pochissime settimane dal ritiro delle truppe NATO, ha impressionato il mondo intero. In venti anni di presenza militare e civile, l’Occidente non è evidentemente riuscito a costruire un paese solido, fondato sui valori della libertà e della democrazia. La fuga precipitosa del governo afghano ha dimostrato l’inconsistenza del sistema politico e militare del paese, mai diventato pienamente autonomo dalle truppe di occupazione NATO; paragonata con la posizione del presidente dell’Ucraina Zelensky, che ha rifiutato “il passaggio” offertogli dagli Stati Uniti per rimanere a guidare la resistenza del suo popolo contro l’invasione russa, quella fuga assume oggi contorni tra l’inquietante e il ridicolo.
Fin da subito, nonostante le mielose rassicurazioni dei leader talebani, la preoccupazione della comunità internazionale si è concentrata sul futuro delle donne afghane. Era chiaro che le donne sarebbero state le prime vittime di questo ritorno indietro, vista la particolare durezza con la quale i talebani interpretano la legge della sharia.
Ma se sul fronte delle istituzioni e del governo tutto è crollato come un castello di carta, sul fronte dell’avanzamento della condizione delle donne i segni del progresso non potevano essere cancellati. Così, la condizione femminile costituisce a un tempo una minaccia per coloro che restano e una salvezza per tentare di non perdere tutto.
Non c’è dubbio che nei vent’anni di presenza occidentale in Afghanistan, i risultati più importanti siano stati raggiunti sulla strada dell’empowerment femminile. Per un paese nel quale era vietata l’istruzione alle donne, milioni di ragazze hanno potuto frequentare la scuola. Nel 2000 le donne alfabetizzate erano appena un quarto della popolazione; oggi, metà delle donne afghane tra i 15 e i 24 anni di età sanno leggere. La presenza sul mercato del lavoro, al 2021, era ancora di molto inferiore rispetto alla maggior parte degli altri Paesi, ma molte donne avevano trovato occupazione nelle istituzioni, nella magistratura e nel mondo dell’informazione.
Infine, più di un quarto dei seggi parlamentari era stato riservato alle donne. Tra queste, Naheed Esar, 33 anni, esperta delle questioni di genere, era diventata Viceministro degli Esteri. Ha iniziato da allora a subire minacce, e dopo l’accordo di pace stipulato tra USA e talebani nel 2020, ha subito capito che per sopravvivere avrebbe dovuto lasciare il paese.
Anche lo sport ha rappresentato per tante donne una via di liberazione. Dieci anni fa, Shannon Galpin aveva contribuito a fondare la squadra femminile afghana di ciclismo, e da allora si è dedicata a sostenere le donne afghane nello sport. Con l’occupazione talebana, gli sportivi hanno iniziato a fuggire, e tra questi soprattutto le donne: scalatrici, sciatrici, maratonete, squadre femminili di calcio e basket. Galpin ha iniziato a organizzare percorsi sicuri di evacuazione verso l’aeroporto e contatti per voli charter, e ha lanciato una raccolta fondi per finanziare i viaggi, riuscendo a mettere insieme oltre 30.000 euro che hanno pagato a molte donne sportive interi tragitti, dal taxi all’aereo.
L’estate scorsa una campagna dal titolo Protect Afghan Women, coordinata da alcune diplomatiche americane, ha aiutato ad evacuare giudici, giornaliste e attiviste per i diritti umani. In Italia la rete “Le Donne per le Donne” si è costituita per sostenere l’accoglienza di quelle profughe, che rimanendo in Afghanistan avrebbero trovato morte certa. A livello europeo, la rete Scholars at Risk si è mobilitata per accogliere docenti, ricercatrici e studentesse provenienti dall’Afghanistan per proseguire in sicurezza il loro lavoro e il loro percorso di studi e di ricerche.
E le donne che sono rimaste?
Hanno ancora il punto di riferimento di Pangea, l’organizzazione non governativa che ha scelto di restare nel paese, a proprio rischio e pericolo perché il lavoro fatto sulle donne, sulla loro crescita culturale, sull’assistenza sanitaria, sull’approvvigionamento alimentare e la cura dei figli, rappresenta una spina nel fianco per il regime talebano.
Anche grazie alle volontarie che operano lì, le donne afghane hanno acquisito più fiducia in loro stesse, più autonomia.
Prima del ritiro americano dal paese, tra le donne era diffuso un sentimento duale, tra la fiera opposizione al ritorno del governo talebano, e la speranza che il ruolo delle donne non potesse più essere messo in discussione. Infatti, in un articolo del 2020, scritto dopo l’accordo tra USA e talebani, Shinkai Karokhail, parlamentare e attivista per i diritti delle donne, affermava: “Non siamo contro la pace, non siamo contrarie al fatto che i talebani tornino ad avere un ruolo politico in Afghanistan, se questo serve a porre fine a questa lunga guerra”.
Ma purtroppo le cose sono andate diversamente.
Il 3 settembre 2021, 50 donne hanno manifestato nella piazza di Herat, e poi anche a Kabul sono seguite altre dimostrazioni per difendere il diritto al lavoro, all’istruzione, alla vita. Nuove manifestazioni si sono svolte a ottobre, a dicembre, a febbraio, per stigmatizzare ogni ritorno all’indietro della libertà femminile.
Lo scorso febbraio il governo talebano ha riaperto le porte delle università pubbliche anche alle donne, per rispondere alle critiche mosse dalla comunità internazionale. Ma i corsi sono stati rigorosamente suddivisi per classi e orari tra studenti maschi e femmine, e per controllare che queste regole venissero rispettate, ed evitare qualsiasi contatto tra ragazze e ragazzi, l’ingresso alle università viene presidiato da pattuglie di talebani armati.
Il tentativo dei talebani di accreditarsi col resto del mondo con iniziative come queste è ora naufragato con l’atto che impone alle donne non troppo giovani né troppo anziane di indossare il burqa, per evitare di provocare quando incontrano uomini che non siano mahram – parenti stretti. A varare la legge è stato il Ministero “per la prevenzione del vizio e per la promozione della virtù”, che ha sostituito il precedente Ministero degli Affari Femminili.
Ancora una volta le donne afghane si sono mobilitate. In piazza, sono tornate a reclamare “Pane, lavoro e libertà”, e le manifestazioni si stanno diffondendo così rapidamente che i talebani non riescono a reprimere con celerità il crescente dissenso.
Queste donne rischiano il carcere, i maltrattamenti, le violenze, fino alla morte. Eppure continuano a resistere, dimostrando a se stesse e al mondo una forza che apre alla speranza. La loro è una resistenza nonviolenta, ma dura, che costruisce alleanze con gli uomini, che rischiano anch’essi una pena carceraria se la moglie, la sorella, la figlia, non rispetta l’obbligo del burqa.
Per sostenere la legittimità del provvedimento, il portavoce del Governo talebano Zabiullah Mujahid ha dichiarato: “Secondo il diritto internazionale, ogni società ha il diritto di vivere secondo i propri valori e le proprie convinzioni”. Ma è un argomento risibile, oltre che falso. La teoria del multiculturalismo, tradotta come tolleranza indifferente che consente la convivenza tra culture molto diverse tra loro, sta mostrando su tanti aspetti la propria fallacia ideologica, ma nello specifico, sui diritti delle donne, è stata letteralmente demolita. Anche una liberale come Susan Moller-Okin ha messo in guardia sulle tesi multiculturaliste, ponendo la questione della non negoziabilità dei diritti delle donne.
Gli stessi documenti internazionali, con buona pace del portavoce talebano, subordinano le tradizioni e i costumi locali al valore fondamentale della parità dei diritti tra donne e uomini. Basti ricordare la Dichiarazione di Vienna del 1993, sulla eliminazione di ogni discriminazione delle donne, e poi la Piattaforma di Pechino del 1995 che ha iniziato la battaglia contro ogni forma di discriminazione e violenza di genere. Nella Convenzione del Consiglio d’Europa per l’eliminazione della violenza contro le donne e della violenza domestica, si dice espressamente: “la cultura, gli usi e costumi, la religione, le tradizioni o il cosiddetto ‘onore’ non possano essere addotti come scusa per giustificare tali atti. Rientrano in tale ambito, in particolare, le accuse secondo le quali la vittima avrebbe trasgredito norme o costumi culturali, religiosi, sociali o tradizionali riguardanti un comportamento appropriato”.
E’ questa la ratio del diritto internazionale, è questo il fondamento di ogni costruzione di una comunità democratica.
La tolleranza o è fondata sul rispetto reciproco o non è. Il regime dei talebani, evidentemente, non rientra in questo ambito, e la comunità internazionale ha l’obbligo di sostenere la società civile che si batte per la libertà e in diritti. Le donne afghane sono diventate in quanto tali un soggetto politico. Se avverrà un cambiamento politico in quel paese, sarà solo grazie a loro.
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