Si incendia il dibattito sul salario! In realtà come spesso accade in questo Paese che adora la messinscena (sui talk show importa che si litighi, non per che cosa si litiga) la questione non viene messa a fuoco in modo da poter identificare il problema e ipotizzare soluzioni, ma diventa oggetto di polemiche destinate allo spettacolo. Sui salari italiani, il perché della loro dinamica asfittica, i problemi della loro genesi legale, abbiamo già scritto: è opportuno farlo ancora, e lo faremo quanto prima. In questo momento però il problema all’ordine del giorno è quello della rivalutazione dei salari italiani per tutelare il potere d’acquisto rispetto all’inflazione, e quello dell’introduzione del salario minimo di legge in base alle deliberazioni imminenti dell’Ue.
Si tratta di due problemi del tutto distinti, anche se entrambi riguardano alla fine un’ipotesi di aumento salariale. Che però non hanno alcun nesso di causa o di intervento tra di loro.
L’adeguamento delle retribuzioni contrattuali è evidentemente un’esigenza reale. Meno evidente pare essere il modo di realizzarlo. Prescindiamo un attimo da quello che parrebbe essere naturale, cioè la contrattazione collettiva. Al netto dei tavoli negoziali più tradizionalmente aperti e ispirati alla codeterminazione, come quello dei chimici, si pone un grosso problema: gli accordi interconfederali che regolano la contrattazione dei CCNL prevedono, come si sa, che come riferimento dell’aumento del costo della vita si utilizzi l’indice di inflazione europeo depurato dai costi dell’energia. Una scelta condivisa per evitare che inflazione generata all’estero, e quindi non controllabile da noi, potesse sconquassare il sistema retributivo italiano. Ma tra il dire e il fare… Infatti appena si determinano le condizioni previste dall’accordo (aumento dei costi energetici, peraltro generati fuori dall’Italia) Landini e Bombardieri annunciano che l’accordo non è più valido. Si vede che l’hanno firmato illudendosi sul futuro, o forse (come diceva un vecchio compagno di certi accordi) con la volpe sotto l’ascella.
Sicché pare che ai titolari della contrattazione collettiva paia che l’invocato aumento dei salari debba realizzarsi per altre vie, e la via privilegiata e condivisa pare essere quella di accollare gli aumenti alla spesa pubblica. Confindustria sollecita a tagliare il cuneo fiscale contributivo; Landini è più spiccio e si accontenta di precisare che le risorse per generare gli aumenti dovranno provenire da una tassazione sostanzialmente risarcitrice e di ritorsione di patrimoni, grandi fortune, profitti aumentati, rendite finanziarie. Prescindendo per un momento dalla questione di come finanziare l’aumento di spesa pubblica che comunque un taglio deciso della tassazione sul lavoro provocherebbe, è importante capire concretamente come potrebbe avvenire il taglio. L’ipotesi più gettonata è il taglio dell’IRPEF. Tuttavia com’è noto (Itinerari Previdenziali- Osservatorio IRPEF) 8.250.000 lavoratori dipendenti (il 38% del totale) dichiara imponibile da 15.000 € annui, che grazie al Bonus Renzi fa sì che non paghino nulla di Irpef, anzi in molti casi abbiano imposta negativa. Tra 15.000 € e 20.000 € di imponibile ci sono 3 milioni di dipendenti, che pagano un’imposta media di 1.260 € annui: un po’ meno di 100 € mensili, peraltro ulteriormente limati con l’esecrata riforma Draghi. Dunque per il 52% dei dipendenti non ci sono tasse da tagliare oppure quantità molto modeste. Per ottenere risultati concreti il taglio d’imposta dovrebbe riguardare i redditi da 20.000 € in su, ossia ripetere nella sostanza il provvedimento di riforma delle aliquote tanto criticato solo qualche mese fa.
Per un risultato più tangibile ed efficace per tutti i dipendenti sarebbe quello di tagliare i contributi, con un vantaggio dell’8,5% circa (al netto dello sgravio già operante per il 2022) sul salario lordo. Occorrerebbe, ma è una technicality, sterilizzare l’aumento dell’imponibile IRPEF generato dal lordo più alto. Ciò detto, non vi è dubbio che un aumento di oltre l’8% del salario netto sarebbe una misura molto concreta: il rovescio della medaglia è un aumento più o meno equivalente del fabbisogno per la spesa previdenziale. O, in alternativa, una riduzione della spesa pensionistica (non futura, ma quella attuale, perché i contributi pagano le pensioni in atto). Si può fare? In Germania i contributi previdenziali sono il 18,6%, equamente divisi tra datore e lavoratore, ma il tasso di sostituzione (ossia la pensione percepita in percentuale sul salario lordo) è pari al 45%, contro il 75% dell’Italia. Saremmo disponibili ad accettare una soluzione simile? Ovviamente no, in un Paese dove la Pensione pare essere in cima alle aspettative dei lavoratori e delle priorità del sindacato.
I corpi intermedi tendono a cavarsela elegantemente, mettendo l’ammontare dei contributi mancanti (e da versare realmente, non da “segnare”) a carico della spesa pubblica. Quant’è il conto? I contributi in entrata per la previdenza obbligatoria sono (dati 2020) quasi 200 mld. Con l’eliminazione dei contributi a carico dei dipendenti verrebbero a mancare (immaginando che gli autonomi continuino a versare) circa 12-14 mld, che andrebbero a sommarsi ai 2670 già riconosciuti. Poco, direte, ma poiché servono “subito” implicano emissioni immediate di titoli di debito di stato o imposte altrettanto rapide. Altro che scostamento di bilancio..!
L’ipotesi che l’aumento delle retribuzioni possa essere prodotto dalla contrattazione collettiva sembra ostico alle parti sociali, pur normalmente tanto gelose delle prerogative negoziali!
L’altro pezzo di dibattito sui salari riguarda l’introduzione del salario minimo legale. Nella realtà italiana si tratta di una misura destinata essenzialmente al lavoro irregolare. Come affermano le Associazioni Datoriali i minimi contrattuali orari, comprensivi degli elementi aggiuntivi, quindi le paghe di fatto, si aggirano attorno ai 10€. Niente a che vedere coi 3 o 4 Euro denunciati dai media. I contratti pirata esistono ma, come recentemente attestato dal Cnel, non si applicano a più del 2% dei lavoratori regolari. Il problema allora è quello dei lavoratori “non regolari”. Per capirci, il minimo salariale di legge non risolve il problema dei part timer o dei lavoratori saltuari, che pur pagati regolarmente hanno basse retribuzioni a causa delle poche ore lavorate. Men che meno quello degli stagisti, che, ope legis, hanno diritto ad un semplice rimborso spese. Non è questo il momento di parlare di questi rapporti di lavoro, se non per sottolineare che l’istituzione di un salario minimo orario non comporta nulle per loro. In una utilissima ricerca Natale Forlani valuta in 2.500.000 i lavoratori subordinati “sommersi”: per costoro un obbligo retributivo minimo potrebbe avere un effetto positivo, ammesso che il nero percepito non equivalga o sia addirittura superiore al netto regolare. L’efficacia del provvedimento dipenderà poi dalle capacità ispettive che lo Stato saprà mettere in campo.
Decisivo potrebbe invece essere in quell’area “grigia” cui si possono fare risalire le proposte di lavoro a 3 o 4 Euro orari, che spesso sottendono ulteriore retribuzione in nero. Non risolverebbe però il fatto, denunciato con molta enfasi, che queste proposte di lavoro, a prescindere dal salario, non prevedono riposi regolari, ferie, ecc. Il punto è che questa è materia regolata dai Contratti Collettivi: allo stato dell’arte l’introduzione ope legis di un minimo salariale non obbliga i datori di lavoro al rispetto delle altre normative previste dai Contratti Collettivi, la cui efficacia erga omnes fa parte di un diverso discorso, che implica anche scelte cui è tenuto il Sindacato.
In sostanza l’introduzione di un minimo salariale di legge sarebbe utile per far riemergere almeno in parte il lavoro nero e quello “grigio”, ma non avrebbe effetto alcuno sulle retribuzioni dei lavoratori con contratti regolari. Per le quali, nonostante il trend che sembra attribuire principalmente al legislatore la capacità di intervenire sui salari, crediamo che la strada logica e sostenibile sia quella della contrattazione, magari riavvicinandola al luogo dove si crea la ricchezza e magari sostenendola, non sostituendola, con interventi fiscali.
Lascia un commento