Dopo un anno di assuefazione agli orrori di questa assurda guerra e non avendo velleità da statista, provo a mettere un po’ di ordine (senza la presunzione di riuscirci) nella ridda di informazioni che giornalmente leggiamo o sentiamo sugli effetti economici del conflitto.
Degli effetti sulle economie occidentali se ne è già ampiamente parlato, con i casi limite di Germania e Italia, emblemi di una pessima politica che ha preferito affidarsi completamente al gas russo, soffrendo poi di una inflazione da offerta devastante e dovendo andare a reperire e strapagare il poco gas in giro per il mondo.
Spesso però leggiamo che l’economia russa sia vicino al tracollo. È davvero così? Limitandoci alla mera analisi numerica, la risposta è no. Il Pil russo è in affanno, ma non è agonizzante. Dopo un 2021 molto vivace (+4,7%), il PIL russo chiuderà negativo di circa il -2,0%e il -2,5%, un risultato allineato al -2,7% del periodo Covid del 2020.
E le previsioni per il 2023 dei maggiori organismi internazionali (FMI, Banca Mondiale, Banca di Russia) oscillano tra il -0,5% e il -4%, ovvero, una situazione difficile, ma non impossibile per un Paese che è in guerra e in un contesto internazionale pre-recessivo.
Allora le sanzioni occidentali non hanno funzionato? No, neppure sostenere questo sembrerebbe corretto. La Russia non è l’Iran, la Libia o l’Iraq, ovvero, rimane il Paese con la maggiore dotazione di risorse naturali al mondo (petrolio, carbone, gas, oro, terre rare…), per cui è difficile falcidiare un gigante del genere. Molti analisti sostengono che la Russia potrebbe continuare a cannoneggiare per altri 3 anni, senza avere grossi problemi economici.
Tuttavia… tuttavia l’insieme dei pacchetti di sanzioni messi in atto dall’Occidente ( più Giappone e Corea) stanno fiaccando l’economia russa e nel lungo termine, le difficoltà non potranno che aumentare, determinando una possibile instabilità sociale e quindi politica.
È vero che i Paesi che stanno crescendo più velocemente nel mondo non sono, almeno attualmente, contro lo Zar (Cina, Turchia, Paesi Arabi e India su tutti), ma è anche vero che stanno sfruttando a loro vantaggio la debolezza della Russia, che ha perso il suo principale mercato europeo e che è costretta a svendere l’oil&gas a prezzi ridotti e con contratti di fornitura a volumi ridotti. Qualche numero: la Cina è diventata il primo partner commerciale russo e ha annunciato un obiettivo di approvvigionamento di circa 88 miliardi di metri cubi di gas nel 2030. Peccato che solo nel 2021 la fornitura con l’UE fu di 154 miliardi di metri cubi. Un bel divario insomma. Bisogna poi re-inventare la logistica: la differenza la fa ancora una volta la presenza di infrastrutture, ad oggi tutte orientate verso l’Europa (pensiamo al North Stream ad esempio).
Ma sono soprattutto gli embarghi occidentali sulla lavorazione dei fattori dell’oil a minacciare il futuro russo: il tetto di 60 $ sul prezzo del barile imposto alla Russia costa circa 170 milioni di $ al giorno. Considerando che il prezzo (nonostante il taglio annunciato a Putin della produzione) si sta assestando sotto i 50 $, è chiaro che così diminuiscono anche le entrate fiscali legate all’energia (già -46% rispetto a gennaio 2022). Non il massimo per un Paese che deve sostenere gli ingenti costi della guerra.
Infine, la Russia si ritrova nell’impossibilità di accedere alle riserve in oro e valuta detenute presso le banche centrali di Europa e Stati Uniti. E la Banca centrale Russa deve dare fondo alle sue riserve valutarie per sostenere l’economia locale. Ma si arriva anche a un paradosso: la quota in yuan del Fondo sovrano Russo è stata portata al 60% e anche i futuri pagamenti di petrolio e gas saranno fatti in valuta cinese. Bene. Peccato che la de-dollarizzazione dell’economia russa, di cui Putin si mostra orgoglioso, si traduca in una sostanziale yuanizzazione, ovvero, un asservimento valutario verso la Cina. Lo yuan costituisce ad oggi il 3% circa delle riserve valutarie globali, mentre il dollaro il 60% e l’Euro il 20%. La Russia è già diventata il quarto più grande centro offshore dello yuan, ma la Cina ha bisogno di un dollaro forte per sostenere la propria bilancia commerciale, in tempi duri anche per il dragone. Un corto circuito insomma dove la domanda di yuan come valuta di riserva non indebolisce, allo stato attuale, la forza relativa del dollaro. Insomma, anche da un punto di vista economica sembra che siamo finiti in un pantano che non avvantaggia né le economie occidentali, né tanto meno quella russa. A voler pensare male, sembrerebbe che le sole due potenze che ne escono avvantaggiate da questo conflitto, sia per ragioni economiche che di prestigio internazionale siano a Cina e gli USA.
Ma come scrisse Tucidide, storico del V secolo A.C., nella sua famosa “trappola”, una potenza dominante tende a ricorrere alla forza per contenere una potenza emergente e la paura di perdere il primato, porta inevitabilmente allo scontro. Lo scriveva riferito a Sparta ed Atene. Auguriamoci che non sia così. O la trappola sarebbe letale. Per tutta l’umanità.
Lascia un commento