Interessanti, come sempre, le analisi dettagliate e documentate di Alessandro Petretto sull’economia della Toscana e centrate le proposte di policy suggerite per cercare di uscire dalla crisi. Una crisi che non è, almeno per ora, una débâcle generalizzata del sistema economico territoriale della regione ma che mette in evidenza una lenta ma continua perdita di dinamismo rispetto non tanto al resto d’Italia quanto al resto d’Europa. Ed è lì che la Toscana si deve confrontare e non tanto con una media italiana dove pesano negativamente le regioni del Sud oramai abbandonate da una spesa pubblica senza limiti e non ancora capaci di innescare uno sviluppo autonomo e autocentrato.
Sull’analisi non c’è nulla da aggiungere. Peraltro le analisi dell’Irpet che si susseguono da anni danno, a chi le sa e le vuole leggere, ampi elementi di interpretazione del ciclo lungo in cui si trova la regione.
Sulle proposte invece dobbiamo soffermarci di più. Visto che siamo alla vigilia di una tornata elettorale in cui, forse per la prima volta, si presenta una contendibilità del centrodestra sulla storica gestione del centrosinistra. E questa contendibilità, anche se può apparire a molti un segno di decadenza di certi valori da tempo rappresentati anche se non sempre con la stessa cura coltivati della sinistra toscana, può essere invece un elemento che rivitalizza il dibattito politico in Toscana.
E che costringe la sinistra, da sempre al governo regionale e da sempre egemone nella cultura più profonda dei toscani e in tante subculture territoriali che rappresentano il ricco e differenziato mosaico della regione, a fare i conti con sé stessa.
E allora, rispetto alle proposte ad alto contenuto tecnico presentate da Alessandro Petretto, che come ho detto condivido in toto, vorrei aggiungere esclusivamente alcune proposte di approccio che possono servire a integrare “in politico” le modalità con cui un centrosinistra di governo dovrebbe presentarsi in questa tornata elettorale.
Il primo punto riguarda l’antifascismo. Un valore di grande tenuta in Toscana e che, indubbiamente, trova ampia eco in larghe fasce della popolazione. Bene, direi di utilizzare questo valore in maniera sobria. Come un profumo che si deve sentire ma che non deve eccedere. L’antifascismo usato come una “clava” per darsi una identità fa certamente presa su alcune parti dell’elettorato, spesso in cerca di qualcosa di “tradizionale e certo” a cui aggrapparsi, ma lascia indifferente gran parte dell’opinione pubblica e dei giovani. Non perché quei valori non abbiano più senso, ma perché un certo modo di ricordarli ha oramai fatto il suo tempo. E appunto in questo caso, in maniera forte, il centrosinistra dovrebbe lavorare di più nella coltivazione quotidiana di questi valori, in particolare fra i più giovani, piuttosto che nella spesso burocratica rappresentazione di feticci fra nostalgici di una stagione.
Il secondo punto riguarda il dinamismo e il decisionismo. Si tratta di due principi usati spesso negli ultimi anni in maniera impropria. Cioè come grimaldelli usati dal leader di turno per rendere meno democratico e meno partecipato il processo decisionale della politica. Bisogna far presto, magari con la velocità di un Twitter, e bisogna che il capo possa decidere senza “lacci e lacciuoli”. È chiaro come di fronte a questa deriva, a sinistra, non si possa che reagire, e reagire richiamando i sani principi della democrazia partecipata, degli organi dirigenti che ci parlano di pluralità di capi e non dell’uomo solo al comando e quindi, di riflesso, del necessario tempo delle decisioni. Tutto giusto ma guai a ritornare ai vecchi tempi del “rimando continuo”. La Toscana soffre un po’ di questo male. Occorre dare una assicurazione che democrazia e partecipazione, importanti e decisivi per la sinistra, non mettono da parte la necessità del dinamismo e del decisionismo. Non più un uomo solo al comando ma neppure tanti uomini e tante istituzioni che decidono di rimandare e non fare. La Toscana non può permetterselo.
Il terzo punto riguarda la supremazia del pubblico sul privato. Per uno di sinistra è quasi automatico. Se si parla di rispetto di diritti, di controllo delle esternalità, di gestione di beni collettivi e di ogni altra funzione che sta al di fuori dei meccanismi tipicamente economici ebbene in questi casi non si può che parlare di gestione pubblica. Per uno di sinistra governo e gestione di uno strumento di intervento nell’economia e nella società sono pressoché sinonimi. Ed invece non lo sono e lo spazio che sta fra il governo e la gestione è amplissimo. Ed è li che potrebbe rafforzarsi il ruolo del terzo settore e di tante nuove imprese giovanili capaci di gestire con più efficienza e qualità quello che oggi è demandato quasi interamente alla gestione pubblica. Ma già lo si fa, mi potrebbe rispondere qualcuno, e non è che le cooperative che gestiscono il sociale o le imprese che gestiscono “pezzi di pubblico” sono esenti da critiche. Ed infatti, è vero, già lo fanno. Chi bene e chi male. Ma il problema, come insegna la vicenda delle concessioni autostradali, sta altrove. Non tanto in chi gestisce “al posto del pubblico” ma chi deve “controllare” questa gestione. Il pubblico che non gestisce, o che gestisce sempre meno, deve saper controllare sempre di più. Non un controllo burocratico. Ma un controllo gestionale, sui conti e sulle prestazioni, ed anche controlli incrociati di qualità e di soddisfazione da parte degli utenti. Insomma, un pubblico che sa controllare e sa far funzionare il sistema pubblico-privato. E che è lontano dalla banale, e spesso inefficace, gestione privata di servizi pubblici abbandonata in una sorta di “terra di nessuno”. Dove valgono poco, troppo poco, i diritti degli utenti e ancor meno quelli dei lavoratori.
Ed infine come ultimo punto, l’innovazione tecnologica. Il pubblico non può giocare la partita dell’innovazione tecnologica, che oramai sta facendo passi da gigante nell’area dei “big data”, dei “cloud”, della “cybersecurity” e quindi nella grande area della “intelligenza artificiale”, in difesa. Già oggi si possono fare tante cose per aiutare i cittadini a vivere e a svolgere le proprie funzioni quotidiane. Senza dover fare le file, senza stare ore al telefono per prenotare un appuntamento e così via solo per citare le cose più banali. Non servono singole innovazioni su singoli pezzetti di pubblico. Ma serve un “nuovo pubblico” meno burocratico e più attento a pensare di essere al servizio della comunità e non al comando della comunità. La libertà dei singoli e dei gruppi, la voglia di intraprendere e di fare, il bisogno dei cittadini di ritagliarsi spazi di manovra e di impegno devono essere al centro dell’azione del pubblico. Insomma, meno Stato ma non solo ed esclusivamente per più mercato ma anche per più spazio autonomo, sociale, per i singoli e per la collettività. Le tecnologie possono aiutare questi percorsi. Solo che vengano pensate per aumentare la libertà dei cittadini e non il livello di sudditanza verso il moloch pubblico.
Qualcuno potrebbe obiettare: ma se devi rispondere alla contendibilità del centrodestra perché devi “sposare” alcune loro posizioni? Non è meglio rinverdire e ritrovare i “nostri valori” di sinistra? Ecco nell’uno né l’altro. Né cedere culturalmente al centrodestra né ritirarsi nel guscio protettivo della sinistra tradizionale. Ma interpretare, a sinistra, uno dei valori centrali del pensiero socialista, troppo spesso tralasciato e abbandonato, che è quello della libertà degli individui. Libertà dal meccanismo economico prevaricante, dalla supremazia dei più forti sui più deboli ma anche dallo Stato burocratico che si presenta con il piglio del padrone e non con il sostegno di un amico.
Insomma, un centrosinistra più innovativo per battere un centrodestra che al momento sembra agitare solo alcune paure senza confrontarsi minimamente sul da farsi per il rilancio della Toscana
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