Come ogni anno, anche lo scorso 24 marzo si è commemorato l’anniversario dell’eccidio compiuto nel 1944 dai nazisti alle Fosse Ardeatine. Una data resa indelebile dal sangue, appartenente a pieno titolo a quel “calendario civile” che giustamente viene ritenuto fondativo della nostra comunità nazionale.
La polemica di quest’anno – ce n’è sempre una ogni anno, per ognuna delle date del suddetto calendario, il che spiega tante cose a proposito della nostra identità nazionale – si è incentrata sulla frase a dir poco infelice pronunciata per l’occasione dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, alla quale ha fatto seguito quella, ancora peggiore, di Ignazio La Russa, attuale Presidente del Senato.
E però, il successivo putiferio delle reciproche accuse e perorazioni non dovrebbe impedirci di estendere lo sguardo oltre la scontata annotazione cronachistica delle medesime, giacché mai come ora sarebbe opportuno cercare di trarre qualche utilità e insegnamento da una tragedia criminale che si è fatta storia e come tale patrimonio condiviso di una nazione. O almeno così dovrebbe essere.
Chi ha il vizio di coltivarla la memoria, e non solo sui fatti ma anche sui discorsi intorno a quei fatti, coltivando per di più il vizio di intravedere percorsi e collegamenti possibili, non può fare a meno di correre con la mente al dibattito, politico e culturale, che per decenni ha riguardato la vicenda che si svolse nella Roma del 23 e 24 marzo del 1944.
I fatti sono ampiamente noti e non c’è bisogno di ricordarli se in estrema sintesi. Il 23 marzo l’esplosione di un ordigno posto da un commando partigiano – i Gap, Gruppi di Azione Patriottica – in via Rasella provocava la morte di trentatré militari delle forze d’occupazione germaniche; come “rappresaglia” di tale atto di guerra seguiva il giorno successivo la strage delle Fosse Ardeatine, addirittura ordinata direttamente da Berlino, nella misura di dieci italiani per ogni tedesco rimasto ucciso.
Nel dibattito politico e storiografico sui fatti del 23 e 24 marzo, un punto di non ritorno è considerato unanimemente il bellissimo libro di Alessandro Portelli, dal titolo “L’ordine è già stato eseguito”, pubblicato dall’editore Donzelli nel 1999. Un libro nel quale l’autore – dimostrando rara padronanza dell’uso delle fonti orali – dà direttamente la parola a svariate decine di persone, romani di nascita o d’adozione, chiamati in causa quali protagonisti, diretti o indiretti, sopravvissuti o discendenti di quel terribile dramma. Un libro importante, che come anticipa il titolo – L’ordine è già stato eseguito – dimostra in modo inoppugnabile l’inesistenza di qualsiasi previo annuncio della “rappresaglia” da parte germanica. Che fu infatti prima ordinata ed eseguita, e soltanto dopo annunciata, con tanto di manifesti, a massacro avvenuto.
Se il libro di Portelli costituisce un punto di volta imprescindibile, su quegli stessi fatti ce n’è un altro, assai meno noto ma ugualmente significativo e, se possibile, ancor più attuale e contemporaneo rispetto alle polemiche di questi giorni. Il titolo, evocativo di necessità, è “Via Rasella. La storia mistificata”, pubblicato da Manifestolibri nel 2006. Si tratta di un carteggio tra l’anchorman Bruno Vespa (che da qualche anno ritiene di vestire anche panni palesemente non suoi: quelli dello storico) e un protagonista d’eccezione di quella vicenda: Rosario Bentivegna.
Medico, combattente durante la Resistenza, esponente dei Gap a Roma e poi in montagna, più volte decorato al valore militare, comunista allora e per il resto della sua vita (spentasi nel 2012), Bentivegna fece parte del commando che pose la bomba in via Rasella. Di più: fu colui che, travestito da netturbino, trasportò e fece detonare l’ordigno, nascosto in un carretto, al passaggio dei militari.
Nel libro-strenna del Natale 2005, dal titolo altisonante “Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi”, Vespa, dedicando alcune righe alla vicenda, aveva rimproverato al partigiano di «non essersi consegnato» dopo l’attentato di via Rasella, «nonostante l’avvertimento scritto sui manifesti fatti affiggere dal comando tedesco», che minacciavano una durissima rappresaglia. Nel prendere carta e penna e scrivere al giornalista, Bentivegna, menzionando le risultanze del libro di Portelli (oltre che le sentenze processuali sulla vicenda), aveva ricordato a Vespa che quella dei manifesti affissi dai tedeschi prima della strage era null’altro che una leggenda. Avendo Vespa risposto alla missiva, provocando la controreplica di Bentivenga, ne era nato appunto un carteggio che, con il consenso di entrambi, era stato pubblicato nel corpo del libro “Via Rasella. La storia mistificata”, corredato di una splendida introduzione dello storico Sergio Luzzatto.
Una lettura utilissima anche oggi, ben oltre la comprensione dei punti di vista che nell’occasione contrappongono l’anchorman al vecchio partigiano, assumendo quella specifica tenzone una valenza culturale di ordine generale. Accade infatti che Vespa, nel tentare di replicare alle puntuali osservazioni dell’ex-gappista, vada a scoperchiare tutta una serie di argomenti e retoriche di una vulgata anti-resistenziale (c’è stata e c’è anche quella), a cominciare dalla terminologia utilizzata: ad esempio, la definizione di «rappresaglie» nel qualificare gli eccidi perpetrati dai nazifascisti nell’Italia del 1944 (non solo Roma ma anche Marzabotto, Civitella in Val di Chiana, Sant’Anna di Stazzema); ovvero una surrettizia operazione che, utilizzando il lessico degli aguzzini, valga ad insinuare una sorta di attenuazione (quanto meno sul piano storico) dei crimini commessi dai nazisti e dai fascisti, addossando la “vera” responsabilità delle stragi ai partigiani (che “sapevano benissimo a quali conseguenze avrebbero esposto le inermi popolazioni civili con le loro azioni di guerriglia”: ecco la sintesi della vulgata). «Come se davvero – commenta Luzzatto nell’introduzione al volume -, per qualificare tali eventi, non esistessero altre parole che quelle tratte dal vocabolario dei carnefici. E come se impiegare la terminologia degli aguzzini non rischiasse di legittimarne la logica, suggerendo l’esistenza di una correlazione diretta fra l’attentato quale causa efficiente e l’eccidio quale risposta necessaria».
Ma ancor più significativa, in quanto maggiormente funzionale alle finalità di cui si è detto, appare un’altra mistificazione lemmatica (anch’essa ripresa da Vespa nel carteggio con Bentivegna): l’uso del termine «vittime» con riferimento ai 335 caduti delle Fosse Ardeatine. In apparenza innocente e pietoso, l’uso indiscriminato del vocabolo costituisce anch’esso un tradimento della memoria, dunque della storia. Perché una buona parte dei trucidati, a parte gli ebrei scelti per la loro condizione, erano – esattamente come Bentivegna e i suoi compagni partigiani – dei resistenti, incarcerati in quanto nemici combattenti dell’occupante nazista. E dunque suona falsa la contrapposizione, nel nome di una scivolosa solidarietà compassionevole, tra le 335 “vittime innocenti” e coloro che vengono in qualche modo additati come i “veri” responsabili della loro sorte tragica, ossia i partigiani, transitando disinvoltamente e per saltum dal piano della meccanica causa-effetto (che indubbiamente ci fu: senza via Rasella non ci sarebbero state le Fosse Ardeatine) al piano della colpevolezza politica e storica, che è tutt’altra cosa.
Nel glossare il carteggio, Sergio Luzzatto individua un momento in cui la «diversità «esistenziale» tra i due corrispondenti si manifesta nettamente, ed è allorquando Vespa – ritenendo di catturare la benevolenza del suo contraddittore – riconosce che l’attentato di via Rasella non fu l’atto di un singolo ma il risultato di un’operazione collettiva, che aveva avuto impulso da un alto dirigente nazionale del Pci, Giorgio Amendola, al cui livello politico e militare andrebbe pertanto “addossato” – secondo l’anchorman – il “peso” di quanto poi avvenuto nella successiva concatenazione causale degli eventi. La risposta di Bentivenga merita di essere riportata, anche per le attualissime implicazioni che se ne possono trarre:
Caro Dottor Vespa, evidentemente non siamo fatti per intenderci. […] Io ero in via Rasella perché volevo esserci e sono orgoglioso di esserci stato, sono i fascisti e i nazisti a nascondersi dietro il dito degli ordini ricevuti. […] L’attacco di via Rasella non è stato realizzato da un «cane sciolto» ma dal più agguerrito ed efficiente reparto militare della Resistenza romana, i gap centrali garibaldini sotto la guida di Giorgio Amendola, della Giunta militare del Cln, di Carlo Salinari, Antonello Trombadori e Franco Calamandrei. Abbiamo riportato perdite gravissime (90 per cento degli effettivi) ma, dall’ottobre 1943 alla fine dell’aprile 1944, quando per un tradimento quasi tutti i membri dell’organizzazione furono catturati, abbiamo inflitto perdite pesanti ai nazisti tedeschi e ai collaborazionisti italiani. E vuole che non sia orgoglioso di aver fatto parte di questa vicenda? Ma se lei parla di «gesto di Bentivegna» ogni cosa si trasforma in una confusa narrazione degli eventi.
A commento di questo scambio, Sergio Luzzatto, da storico di razza qual è, traccia un parallelo altamente evocativo e ancor più illuminante e gravido di conseguenze (come vedremo). Scrive lo storico: “non capita spesso di assistere, nell’Italia del XXI secolo, a uno spettacolo altrettanto illustrativo della posta che è in gioco quando si discute della nostra storia novecentesca. Ecco qui un vecchio partigiano, ormai fra gli ultimi sopravvissuti della guerra di Liberazione, che leva la voce per contestare a un figlio della Repubblica «nata dalla Resistenza» il diritto di denunciarlo come un irresponsabile bombarolo (anzi, come un consapevole terrorista). Ecco un eroe della guerra civile il quale, rifiutando l’invito a cospargersi il capo con la cenere, apertamente difende la funzione storica della violenza come levatrice di progresso. E chi legge – se appena appena possiede una qualche familiarità con la storia francese di metà Ottocento – fatica a non confrontare tale scena con un’altra: quella dei vecchi giacobini accusati di terrorismo dalla generazione stessa dei loro figli. Uomini stanchi ma alteri, che raccoglievano le forze residue per ricordare ai posteri come la libertà da questi goduta fosse stata conquistata a carissimo prezzo: rischiando la vita e facendola rischiare, uccidendo i nemici della Repubblica e rimanendone uccisi”.
A differenza dello storico improvvisato Vespa, Luzzatto sa bene di cosa parla, essendosi lungamente e magistralmente occupato sia delle vicende tumultuose della Francia dell’Ottantanove che di quelle tortuose dell’Italia contemporanea. Egli possiede dunque tutti i titoli, non solo accademici, per ricordare a noi tutti una lezione che la storia non cessa di insegnare a chi voglia e sappia ascoltare, lungo un filo che collega non solo Furore rivoluzionario e Resistenza partigiana ma in realtà attraversa ogni epoca. Una lezione in base alla quale la strada della libertà e della giustizia non sempre può essere (anzi, quasi mai è) pacifica e lineare, e di certo non quando vi si frappone una violenza criminale figlia di una prepotenza indomabile (che di volta in volta può assumere i contorni storici dell’assolutismo, dello schiavismo, del razzismo, del totalitarismo, del nazionalismo); e vi sono momenti in cui anche persone rette e altrimenti pacifiche possono essere chiamate (dalla loro stessa rettitudine, innanzi tutto) a compiere atti assai poco pacifici perché la giustizia possa trionfare e la sopraffazione essere sconfitta. E visto che è anche grazie a quei combattenti che noi oggi possiamo comodamente permetterci la libertà di giudicare gli atti e di esprimerci sulle “colpe”, dovremmo almeno riconoscere loro il diritto di pretendere conoscenza e comprensione con riguardo al loro operato e alle circostanze – terribili e inimmaginabili – in cui vennero costretti ad agire e chiamati a resistere. A costo non solo di essere uccisi, ma anche di togliere la vita ad altri esseri umani.
Questa lezione – purtroppo – non ha perso di validità. Il filo di cui si diceva non si è mai interrotto e oggi lo ritroviamo di nuovo ai confini dell’Europa, nella guerra scatenata dalla Russia nei confronti dell’Ucraina. Una guerra in cui un popolo, a costo della vita, sta coraggiosamente difendendo la propria libertà e sovranità rispetto ad un atto di aggressione privo di alcuna giustificazione pratica o ideale; un popolo che, proprio nel nome di quella libertà e giustizia solennemente proclamate nelle nostre Costituzioni e figlie del sangue versato nelle guerre di Liberazione, chiede disperatamente il nostro aiuto. Per resistere.
Ora, questi essendo i fatti terribili e inimmaginabili che oggi abbiamo davanti agli occhi, è davvero curioso assistere al bizzarro (a dir poco) dibattito politico e culturale nostrano sul tema, in cui si registra una sorta di corto circuito di cui è davvero difficile individuare una sia pure obliqua coerenza.
Eh sì, perché coloro che per decenni hanno sempre fatto mostra di incrollabili certezze sui fatti e misfatti di quella guerra civile che insanguinò l’Italia nel biennio 1943-45; che non hanno mai nutrito dubbio alcuno sulle responsabilità intorno a quei fatti (le colpe delle stragi? esclusivamente di chi le ha commesse, ossia nazisti e fascisti, non certo dei partigiani, che anzi vanno acclamati quali eroi, senza se e senza ma); coloro sempre pronti ad insorgere contro le mefitiche gramigne “revisioniste”, reputate colpevoli di accomunare indebitamente, in un’unica fascina il cui nome è “vittime”, sia il sangue dei vincitori che quello dei vinti, tacendo o sorvolando sulla incolmabile diversità delle rispettive motivazioni (libertà da una parte, dittatura dall’altra); ecco, costoro sono in gran parte gli stessi che, nella vicenda ucraina, si scoprono improvvisamente esperti nella non sempre nobile disciplina della “tetrapiloctomia comparata” (ossia l’arte dello spaccare il capello in quattro, da applicare beninteso solo agli “altri” e mai ai “nostri”). E quindi assistiamo allo stendere di un velo assai poco pietoso, o meglio di una coltre nebbiosa di distinguo e garbugli vari su stragi, torture, stupri, deportazioni, le cui responsabilità – in nome di quegli stessi criteri d’imputazione poco sopra ricordati, a carico di SS e repubblichini – dovrebbero essere chiare e indiscutibili, e cioè da addossare pienamente ed esclusivamente a chi quei crimini ebbe a ordinarli a monte e chi ebbe a eseguirli a valle. E, di converso, non dovrebbe essere granché difficile attribuire la patente legittimista di “resistenti” ai coraggiosi ucraini che, in trincea sotto le bombe o nelle loro case (ugualmente sotto le bombe), combattono per la loro libertà opponendosi strenuamente al “barbaro invasore”.
E invece no, perché, in nome di una molto male intesa “complessità”, si giunge fino a negare o attenuare (che dal punto di vista delle vittime, anzi dei resistenti, è lo stesso) le responsabilità della Russia, tirando in ballo eventi e argomenti più disparati. Si va dalle colpe altrui (in primis la Nato e gli Usa, c’è da specificarlo?), che è sempre facile trovare e distribuire: basta allargare lo sguardo a tutte le epoche dell’orbe terracqueo e qualche misfatto si troverà sempre per tutti e per ognuno; fino alle colpe degli stessi “aggrediti” (il virgolettato appare d’obbligo per dare un’idea del tono): ma, insomma, che si credevano di essere questi ucraini, con la loro assurda pretesa di voler entrare nella UE e nella Nato senza curarsi del dispiacere che avrebbero inflitto al loro secolare e fraterno vicino? Un po’ di comprensione!
Il tutto condito anche da una forma di parossismo, quello di chi solennemente proclama la propria “tristezza”, o addirittura “sofferenza”, per tutta questa “violenza”, per l’uso indiscriminato delle “armi” (ah, un mondo senza armi!), accomunando in un fascio unico resistenti e torturatori, e tutto ovviamente in nome delle “vittime”, che ci sono “da una parte e dall’altra”.
Cioè – ecco dunque il corto circuito di cui sopra – utilizzando proprio l’identico armamentario (è il caso di dire) della retorica anti-resistenziale e anti-antifascista, esemplarmente tratteggiata dal succitato carteggio Bentivegna-Vespa. Una piegatura inaccettabile, che diviene poi insopportabile in quanto proveniente dagli stessi che, nella apparente placidità del dopoguerra “Freddo”, lanciavano i loro osanna a guerriglieri di varia latitudine, dalle giungle del sud-est asiatico alle spiagge dell’America latina, esaltandosi per le immagini sorridenti dei vari Giap o Fidel, per nulla turbati (allora) alla vista delle mimetiche indossate o dei mitra imbracciati; gli stessi che, magari inconfessabilmente, si esaltavano alle immagini delle parate militari sulla Piazza Rossa, dove sfilavano marzialmente, sotto lo sguardo compiaciuto della trimurti Marx-Engels-Lenin, centinaia di carri armati e missili (puntati, ora come allora, sull’Occidente, se è concessa la pedanteria); gli stessi che, ancora oggi, si commuovono volgendo la loro mente all’Ottobre, convertendo all’istante la loro “tristezza” in indifferenza per i massacri e per il sangue versato dai bolscevichi; gli stessi che per decenni hanno predicato che «per fare una frittata è necessario rompere qualche uovo» dimenticando sempre di farcela vedere, ‘sta benedetta frittata. Del resto, è lecito supporre che chi ha fatto della doppiezza la cifra di tutto il suo agire politico e del suo immaginario intellettuale non trovi troppo difficile sbandierare oggi, con la stessa ostentata convinzione, tristezza tinta di arcobaleno e indifferenza tinta di rosso (sangue).
Ma qui di veramente triste c’è l’autunno di ipocrisia in cui sta mestamente affondando una generazione, dopo una primavera veleggiata nelle acque della retorica con lo sguardo all’avvenire. Che tristezza, davvero. E quale scarto, quale distanza dai Bentivegna, dai convenzionali francesi in esilio, dai resistenti e combattenti di ogni epoca che, con la forza del loro esempio e con la fierezza delle loro parole, si sono opposti e si opporranno sempre alla banalizzazione ipocrita delle ragioni e dei torti, delle guerre ingiuste perché criminali e di quelle giuste perché necessarie. Fino a quando il loro esempio e le loro parole troveranno spazio nella nostra memoria, potremo trovare la ragione, e coltivare la fiducia, di opporci all’ipocrisia.
Pasquale
Gent. dott. Bozzaotre. Complimenti per il suo articolo: come in una equazione a più incognite è riuscito ad aprire tante parentesi, fino a chiuderle tutte in un unico comun denominatore: la libertà.