Gli italiani chiedono certezze, sconvolti da una pandemia che ha minato la pretesa di immortalità cui pensavano di aver diritto, dal ritorno in scena della morte alla quale con tutta la sua sapienza l’uomo ancora deve soccombere. Come si è giunti a questa pretesa di certezza?
In parte per ragioni psicologiche, in parte per ragioni culturali. L’avversione all’incertezza è insita nella psicologia umana e può essere superata solo con la conoscenza, con la capacità di valutare l’informazione e con lo spirito critico, che al momento non sono al centro del nostro sistema educativo, sempre più centrato su una malintesa “professionalizzazione”. Più siamo ignoranti (e il tasso di analfabetismo funzionale continua a crescere) più abbiamo bisogno di certezze. E d’altra parte Internet, eliminando le forme di intermediazione culturale tradizionali e mettendoci di fronte a una enorme quantità di notizie e di opinioni contrastanti, aumenta il livello di incertezza, genera confusione e, alla fine, porta a una sfiducia generalizzata nelle istituzioni e nella cultura stessa.
In una recente intervista Lei ha affermato che il rischio è scomparso con l’avvento delle assicurazioni che coprono i danni per eventi avversi: ci rientrano anche le assicurazioni sociali ed il moderno welfare il cui programma è prendersi cura della persona dalla culla alla tomba?
Sì. Il welfare state ci ha consentito di raggiungere, in Occidente almeno, livelli di benessere e di tranquillità impensabili in passato. Il che ovviamente è positivo e auspicabile, ma ha i suoi effetti indesiderati. La tendenza ad assicurarsi contro ogni possibile avversità, compresi gli errori che possono verificarsi nella vita professionale, ha prodotto una cultura del “rischio zero” che si scontra con la realtà, in cui l’errore e il rischio sono ineliminabili. Ma ha anche tolto il “gusto” del rischio, che è un elemento fondamentale dell’innovazione scientifica e della capacità imprenditoriale. La ricerca ossessiva della sicurezza – parola chiave del nostro tempo – è una operazione politica di normalizzazione della società che, in un mondo complesso, caotico e incerto come quello prodotto dalla globalizzazione, ci trova del tutto impreparati agli inevitabili cambiamenti (e pericoli) che la globalizzazione comporta e di cui l’attuale pandemia non è che un primo esempio.
Come scienziata che studia la teoria delle decisioni razionali, come giudica la strategia – in una cacofonia impressionante tra diversi livelli istituzionali e tra esperti o presunti tali – dei governi che si sono succeduti : chiudere tutto, dispositivi di protezione individuale e distanziamento e isolamento dei contagiati ( ovvero la risposta alla pestilenza dalla notte dei tempi) e diavolo l’economia ed il lavoro, al diavolo i ragazzi e la scuola e via ogni forma di relazione sociale: davvero la risposta poteva essere solo alzare una linea Maginot ? non potevano essere studiate strategie con l’ assunzione di un rischio calcolato? D’altronde è stato scritto che la pandemia è un dilemma del prigioniero ripetuto più volte.
A me sembra abbastanza normale che istituzioni pensate e costruite per gestire situazioni ordinarie si trovino in difficoltà nel gestire situazioni straordinarie. Se poi aggiungiamo le scelte che sono state fatte nella sanità e dalle industrie farmaceutiche – principalmente dettate da interessi economici e non dall’interesse per un bene pubblico importante qual è la salute – non vedo come si sarebbe potuto fare meglio. Quel che trovo davvero strano è che nessuno sembra rendersi conto che stiamo entrando in un’epoca in cui le situazioni straordinarie saranno all’ordine del giorno – Ulrich Beck ha parlato di “società del rischio” – e che richiedono cambiamenti decisivi nelle istituzioni e nei meccanismi decisionali. Questo desiderio onnipresente di “ritorno alla normalità”, senza analizzare le cause che ci hanno portati alla “cacofonia istituzionale” a cui lei accenna e senza introdurre i necessari cambiamenti (che non possono essere che “sperimentali” e incerti, dato che si tratta di una condizione a cui non siamo abituati) mi sembra molto più pericoloso e molto meno giustificabile delle strategie a volte contraddittorie dei governi di fronte alla pandemia. Non imparare dagli errori mi sembra molto più grave che commetterli.
Nella definizione della strategia ci si è affidati a scienziati, di sicuro valore e prestigio, ma solo delle discipline coinvolte direttamente. In un grande esperimento sociale come è stato definito il lockdown non sarebbe stato utile prevedere una sorta di Comitato etico con altre competenze con l’incarico di “garantire la tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere dei soggetti della sperimentazione e di fornire pubblica garanzia di questa tutela”?
La tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere è molto difficile nelle situazioni di emergenza che, per molti aspetti, ricordano la guerra. Quello che a me sembra fondamentale tutelare è che qualsiasi violazione dei diritti sia resa necessaria da una emergenza sia giustificata e temporanea. Io continuo a pensare che il contact tracing adottato nei paesi asiatici sia l’unico strumento che ci consente di superare il dilemma etico che contrappone la difesa della salute alla difesa dell’economia. Ma un sistema di contact tracing può essere progettato in modo più o meno rispettoso del diritto alla privacy e dovrebbe fornire garanzie di essere una misura temporanea. E questo non può essere fatto senza affrontare una volta per tutte il problema della proprietà dei dati e del rispetto della privacy, che va ben oltre le misure temporanee che potrebbero essere richieste per tenere la pandemia sotto controllo.
In questi giorni ricorre una affermazione che pare accontentare tutti “Decideremo in base ai dati”. Ma cosa significa questa frase? Sui dati, hanno scritto Corbellini e Mingardi in un recente articolo, non s’inciampa per caso, essi rispondono a una domanda di ricerca, formulata con una a ipotesi in mente? Cosa mi può dire in proposito?
È una frase che, concordo con Corbellini e Mingardi, non vuol dire niente se non sono assolutamente trasparenti le regole e i criteri con cui i dati sono stati raccolti. Basta per esempio definire in modo diverso i “decessi per Covid” per alterare completamente la percezione della situazione. Per non parlare dei tanti altri modi in cui, con i dati, si può “mentire dicendo la verità”. Ma, appunto, ricorrere ai dati – che tutti ritengono “oggettivi” anche se di fatto è facile che non lo siano – tranquillizza tutti.
“Servono avventurieri. È un momento di passaggio dove non possiamo fare previsioni, dove dobbiamo continuamente confrontarci con situazioni incerte. C’è bisogno di coraggiosi, non di paurosi. Di persone che amino rischiare. Certezze non ce ne sono. Ma ci sono opportunità”. Così ha recentemente risposto ad una domanda. Le chiedo: vede avventurieri nell’Italia di oggi? Nella politica come nell’economia e dentro la società?
Sì, credo che ci siano avventurieri (nel senso positivo di “persone coraggiose che amano rischiare” e rompere schemi e abitudini). Temo però che non ci sia una cultura politica, economica e istituzionale che li sostenga e li incoraggi ad andare avanti. Al contrario, nella maggior parte delle istituzioni – università compresa – è premiata la normalità e il conformismo. L’innovazione che è oggi necessaria e che è ovunque invocata – richiede il coraggio delle persone, ma anche il coraggio delle istituzioni.
Lascia un commento