Raccogliendo dati per un saggio che esaminerà la “visione” politica e sociale di alcuni analisti italiani degli anni Trenta del Novecento verso gli Stati Uniti – in un rapporto complesso di amore/odio con il New Dealdi Franklin Delano Roosevelt e più in generale con la società americana, aspetti misurati con il metro di un fascismo oramai maturo – mi sono imbattuto in una ricerca francese molto successiva – è della fine degli anni Sessanta – che esamina lo sviluppo della nazione americana in un confronto con l’Europa.
Il libro è assolutamente affascinante, per cui anche se in apparenza “fuori tema” (ma davvero, solo in apparenza) ne voglio parlare qui, anzi, per adesso non del libro in sé ma di alcuni temi della Prefazioneitaliana.
Si tratta di Le défi américain, curato da Jean-Jacques Servan-Schreiber (Paris, Denoel, 1967), che compare in italiano l’anno successivo, a cura di Vittorio Diamanti (Milano, Etas Kompass, 1968), con il titolo La sfida americana.
È interessante evidenziare, come indicato nel colophon dell’edizione italiana, alla quale faccio riferimento, che quella francese esce a ottobre 1967 e la prima nel nostro paese a febbraio 1968, con un eccezionale tempismo, che porta a fine marzo 1968 già alla stampa della quarta edizione italiana. Dal 1969 il libro è pubblicato da Longanesi, dove rimane in catalogo per alcuni anni.
Jean-Jacques Servan-Schreiber è stata una rilevante figura di ingegnere, giornalista, politico e scrittore (Parigi, 1924 – Fécamp, 2006), esponente del partito radicale francese, nel 1953 fondatore del settimanale “L’Express”, deputato dal 1970 al 1978, brevemente Ministro delle Riforme nel governo di Jacques Chirac (1974), consigliere di François Mitterrand durante la presidenza.
Il libro non è un saggio di scienza politica, è invece una robusta inchiesta di scienza economica (e di storia della tecnologia) – ma siccome le due cose (anzi tre) non sono proprio scindibili, dalla seconda in qualche modo si risale alla prima se così possiamo dire, anzi alle idee dell’autore e al contesto in cui si esprimono – che prende avvio dall’analisi degli investimenti americani in Europa.
L’edizione italiana – il libro è pubblicato in altre 14 lingue – vede la Prefazionedi Ugo La Malfa, datata “Roma, febbraio 1968”, che riletta oggi, 51 anni dopo e alla luce delle ultime elezioni europee (e italiane), è una corposa analisi socio-economico-politica, pur se si sviluppa in sole sette pagine, indicate con numeri romani.
Il volume è completato da un’appendice, Note sulla situazione italiana, curata da Emanuele Ranci Ortigosa (Milano, 1938), economista, docente in varie università, in quegli anni ricercatore sulle politiche sociali e sanitarie, fondatore nel 1971 dell’Istituto per la ricerca sociale, che merita anch’essa una analisi futura.
Se non posso riportare qui la Prefazionenella sua interezza ne presento i passi più significativi, su alcuni temi specifici, passi che confrontati con l’Europa del 2019 ci mostrano la “deviazione” alla quale siamo andati incontro rispetto a un progetto comunitario che l’esponente del Partito Repubblicano aveva chiaro sin dagli anni Cinquanta, progetto rafforzato in un confronto con la realtà federale americana, che La Malfa ben conosceva.
Nel 1968 Ugo La Malfa è segretario del Partito Repubblicano Italiano (dal 1965); per buona parte degli gli anni Sessanta il PRI è forza di governo, prima con il governo Fanfani IV (1962-1963) e poi con quelli Moro dal 1963 al 1968 e con Rumor I e III e Colombo fino al 1972. Nel 1966 La Malfa rivolgendosi a Ingrao e Amendola tenta di stimolare nel PCI un dibattito sul superamento dell’ortodossia, in direzione sovietica, ma i tempi non appaiono maturi per una nuova sinistra se non unitaria almeno allargata.
Questa estrema sintesi accenna a temi che si trovano tutti nella Prefazione, con una particolare enfasi verso un rinnovamento della sinistra italiana:
«Ma vi è questa sinistra? Due uomini, a mio giudizio, sono oggi sulla scena dell’Europa e ne rappresentano, ciascuno, il diverso destino: sono De Gaulle e Wilson. L’uno ne rappresenta l’assoluto passato, l’altro il futuro, l’uno è il generale della ricca ma morta tradizione europea, e l’altro è il laburista, l’uomo di sinistra, educato nelle università inglesi. L’uno miete o crede di mietere successi, col suo orgoglio nazionale e il suo antiamericanismo, e l’altro, volendo guardare al futuro, non fa che raccogliere insuccessi. L’uno costringe la nuova tecnologia, la scienza, il potere politico nell’angusto ambito nazionale, l’altro vuole costruire, da sinistra, la nuova società tecnologicamente avanzata della Gran Bretagna e contribuire a costruire la nuova società europea. L’uno fa un giuoco nazionale di potenza, e l’altro, nonostante la gloriosa e pesante eredità imperiale, rifiuta tale giuoco e tenta di proiettarsi nel futuro. Ma incredibile a dirsi, la sinistra europea è divisa fra i due uomini e, sotto la spinta comunista, mostra di amare più De Gaulle che Wilson, l’antiamericanismo acritico e impotentemente contestativo del primo, invece che la visione del futuro britannico ed europeo del secondo. Dimentica, parte della sinistra, che la sfida americana si può accettare soltanto sul terreno tracciato da Servan-Schreiber, della costruzione di una civiltà dai grandi spazi, competitiva con quella americana, e non sul terreno della contestazione che un cinghiale può rispetto ad un elefante. Una parte notevole della sinistra europea preferisce, oggi, contestare, accanto a De Gaulle, che tentare di costruire accanto a Wilson. L’antiamericanismo, il Vietnam, Cuba, i paesi arabi, contano di più che la costruzione dell’Europa, e la sinistra cosi dimentica che l’atlantismo diventa strumentale e transitorio rispetto a una Europa che si fa e cresce, diventa dato permanente e insostituibile per un’Europa che rimane divisa. Le scelte immediate e inutili di politica internazionale attuale fanno premio su una costruzione che finalmente potrà dare una politica internazionale all’Europa. L’antiamericanismo di De Gaulle, la sua lotta contro il dollaro e la sterlina, sono accettati e applauditi; la prudenza su questi due temi di Wilson, la sua politica di austerità e di sacrifici attuali per il bene futuro, per avere i mezzi per costruire la nuova società tecnologica, sono respinte.
Finché l’Europa, finché la sinistra europea non avranno risolto questo dissidio, e non l’avranno risolto nel senso indicato da uomini moderni di sinistra, non vi sarà avvenire per il nostro continente. La sorte dei Balcani, avanti la Prima guerra mondiale, compresi fra potenze tedesche e potenza slava, l’attende.» (pp. XIV-XV)
Queste sono le conclusioni di La Malfa, ma le riporto per prime perché ci danno una significativa traccia per alcune riflessioni più generali.
I riferimenti a James Wilson (Primo ministro inglese dal 1964 al 1970) sono interessanti, nella misura in cui la sua politica di stampo antieuropeista aveva anche una forte componente di rafforzamento dello “stato sociale”, ad esempio con una concertazione dei salari con i sindacati. Questi aspetti, velatamente, per La Malfa appaiono significativi e innovativi per una maggiore stabilità politico-sociale, più di uno Charles de Gaulle che presidente dal 1959 al 1969 è ugualmente antieuropeista ma anche antiamericano, anzi, antinglese, dato che è contrario all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità europea: tuttavia come evidenzia La Malfa la sua politica d’attacco è gradita a una sinistra in qualche modo anti “mercato”, ben più delle sofferte riforme di Wilson, che porteranno rapidamente al tracollo dei laburisti oltre che della Gran Bretagna.
Servan-Schreiber evidenzia come di fatto sia stato proprio il New Deal che abbia rafforzato il sistema economico americano, quel New Dealdal quale autori come Delfino Cinelli e Gaetano Ciocca (sui quali sto lavorando) erano magneticamente attratti nelle loro analisi sull’America degli anni Trenta.
«Nelle pagine finali del libro si possono trovare profonde ed acute osservazioni a proposito della crisi grave ed estesa, nella quale oggi versa la sinistra europea, dal pensiero radicale al comunismo. Ma vi si trova, soprattutto, un’affermazione che farà inorridire e gridare allo scandalo, gran parte della sinistra europea. È l’affermazione secondo la quale l’America attuale è prodotto della azione innovatrice esercitata dal Partito Democratico americano a partire dal 1932, da un partito senza dogmi, senza ideologie astratte, senza falsi miti, ma capace di guardare ai problemi della società e di risolverli, in una proiezione vasta, politicamente e tecnicamente fondata, nel futuro.» (p. XIII)
L’America di Roosevelt attraeva anche Mussolini, non solo i “filotecnici” come quelli citati (l’espressione “filotecnico” è dell’ingegner Filippo Tajani, figura rilevante di “scienziato sociale”, cfr. Filippo Tajani, Le Ferrovie, a cura di Simone Fagioli e Andrea Giuntini, Pistoia, Settegiorni, 2017), per la creazione di nuovi modelli sociali, in qualche modo come evidenzia La Malfa liberi da vincoli ideologici.
La Malfa tuttavia, con Servan-Schreiber, sottolinea un altro passaggio chiave, anche questo cardine del pensiero degli ingegneri-politici italiani degli anni Trenta:
«Non che gli Stati Uniti non abbiano i loro problemi, ed in primo luogo il problema razziale, ma se l’Europa è più avanti per alcune di queste specifiche espressioni di civiltà, essa è incredibilmente indietro nei campi in cui una società umana può assumere nuove dimensioni tecnologiche, scientifiche e industriali e, attraverso ciò, creare le premesse per risolvere i problemi di una maggiore giustizia umana. Potere federale europeo e sinistra che si semplifica, si rinnova e si mette all’opera, in una visione attuale e futura dei grandi problemi, che sono dinanzi alla società europea. Sinistra europea che guarda, con spirito critico e senza pregiudizio o false ideologie, le esperienze reali degli Stati Uniti d’America, della Russia sovietica, del Giappone, della Svezia. Sinistra europea che finalmente comincia ad operare invece di contestare semplicemente e farsi mettere fuori dalla storia. Sinistra europea che finalmente si accorge di dover vivere in Europa e non negli Stati Uniti d’America, ma neanche in Russia o in Cina. Sinistra europea che prenda l’eredità di una grande tradizione e la sappia portare avanti, inserendola pienamente nel mondo moderno.» (pp. XIII-XIV)
La frase di Lenin (vera o presunta) del 1920 “Il comunismo è il potere sovietico più l’elettrificazione di tutto il paese”ha in sé una valenza ideologica non marginale, che tuttavia solo i “filotecnici” potevano comprendere.
Non è possibile affermare che la “sinistra” egemone italiana degli anni Sessanta del Novecento fosse “luddista”, si tratta di una etichetta troppo categorica (sulla quale tuttavia invito a riflettere), certamente le posizioni antiamericane non giovavano a una visione più matura di un paese “moderno”. La Malfa fa un appello corale alla necessità di un rinnovamento che unisca umanisti e filotecnici (lo scrivo adesso senza virgolette come categoria politica):
«Ma quale sinistra? Quella che oggi si esprime, e così come si esprime in Europa? Quella che oggi conosciamo per i suoi tabù ideologici, per le sue idiosincrasie, per le sopravvivenze concettuali in cui continua a mantener fede, come se nulla fosse occorso di veramente rivoluzionario oggi nel mondo? Quella che sembra vivere con le sue aspirazioni e rivendicazioni, fuori della società nella quale dovrebbe operare? Anche qui le pagine di Servan-Schreiber raggiungono la forza e l’efficacia critica, non ironica, delle pagine contro il nazionalismo. […] La sinistra deve rifiutare la società così com’è, ma, nello stesso tempo, essa non più negarla. Un tempo le prospettive di una rivoluzione semplificavano tutto. A partire dal momento nel quale la rivoluzione – almeno nei paesi altamente industrializzati – diviene irrealizzabile e inopportuna, il compito della sinistra si complica. La sinistra deve essere, nello stesso tempo, nel 1968 e nel 1988, dove muoversi tra la realtà e l’utopia. Quando tale dialettica non giuoca più, la sinistra si snatura e diviene conservatrice, cessa essere un fatto mutamento. La sinistra si è lasciata squilibrare a causa della contestazione. La sua critica giustificata del capitalismo è degenerata in culto della burocrazia (quante polemiche non ho fatto io stesso in proposito, con la sinistra italiana?). Il suo processo giustificato all’autoritarismo l’ha portata all’apologia del potere debole. Il suo messianismo l’ha allontanata dal mondo presente e dai nostri problemi.» (pp. XII-XIII).
La parole di La Malfa sono drammatiche: il “1988” non è un errore di stampa, è una proiezione non ideologica o ideologizzata della scienza politica, è un invito a lavorare in prospettiva.
Non penso sia storiograficamente scorretto affermare che quando Roosevelt nel 1932 si impegnò nella politica del New Deal, durante l’accettazione della candidatura democratica (Chicago, 2 luglio 1932) non pensasse a una “Seconda guerra mondiale” – Hitler arriverà nel 1934 e in qualche modo gli equilibri mondiali erano ancora chiari – ma senza quella politica gli Stati Uniti non avrebbero retto l’urto bellico mondiale.
Mi pare che la Prefazione di Ugo La Malfa sia in qualche modo il tentativo di progettare un New Dealeuropeo, per porre le forze che aveva a cuore (non sono eretico se dico l’intero schieramento della sinistra italiana) di fronte ad una scelta, misurando con il libro di Servan-Schreiber il ritardo e gli errori maturati sin dagli anni Cinquanta:
«E qui mi sia permesso ricordare la fondamentale critica che io rivolsi alla Camera italiana, ai Trattati di Roma, quando, nel 1957, essi furono presentati per l’approvazione. L’abbandono di ogni principio immediato di potere federale o sovrannazionalità, mi parve, allora, un grave cedimento rispetto alle precedenti più logiche e coerenti impostazioni. Coloro che avevano accettato ed approvato questo regresso, speravano che, cedendo subito ed attendendo migliori condizioni, si sarebbe potuto riprendere la marcia verso il potere federale. I successivi avvenimenti hanno dimostrato che quella marcia non si è più fatta e si sono anzi avuti sensibili regressi, ciò che dà ragione alla valutazione alquanto pessimistica dell’americano Kahn. Tuttavia il libro, la sua lettura, e un rinnovato impegno degli europeisti servono, appunto, per riprendere la battaglia.» (pp. XI-XII)
Mi pare sia chiaro come La Malfa fosse europeista e americanista, in un confronto e non in uno scontro tra i modelli sociali, politici, culturali.
Quanto a Herman Kahn (Bayonne, 1922 – Chappaqua, 1983) va detto che era un fisico, ma prestato allo studio delle strategie sociali e militari e anche “futurologo”, nel 1961 aveva fondato l’Hudson Institute, che pubblica rilevanti saggi sullo sviluppo economico, come quello sul Giappone (Herman Kahn, The Emerging Japanese Superstate. Challenge and Response,Englewood Cliffs, Prentice‐Hall 1970) e sullo sviluppo futuro (Herman Kahn – Anthony J. Wiener, The Year 2000. A Framework for Speculation on the Next Thirty-Three Years, London, MacMillan, 1967), studio questo accuratamente citato da Servan-Schreiber. È di Kahn poi la teoria dell’ordigno “Fine del mondo” ripresa da Stanley Kubrik in Il dottor Stranamore.
Per concludere queste note e come ulteriore spunto di riflessione riporto l’inizio della Prefazione, che in apparenza pare contraddire quanto visto sino ad ora, ma senza ovviamente che ciò sia vero:
«Poco più poco meno di 60 anni fa, l’Europa, con la sua scienza, la sua tecnica, la sua economia, la sua cultura, con la sua grande potenza politica, dominava la scena del mondo, dominava attraverso quello che avevano saputo costruire, ciascuno col proprio genio, la Gran Bretagna, la Germania, la Francia, nazioni minori come il Belgio e l’Olanda, la stessa Italia, di più giovane formazione nazionale. Sono bastati pochi decenni di storia terribile e di altrettanti terribili errori, perché quella civiltà perdesse quasi tutte le caratteristiche di una civiltà dominante e cedesse lo scettro a quelli che si possono chiamare i paesi dei grandi spazi. Nella storia del mondo, non si è mai o quasi mai assistito alla decadenza di una civiltà nel giro di così ristretto numero di anni. Le grandi civiltà dell’Oriente, la civiltà greca, quella romana, la stessa creazione britannica in sé considerata, hanno visto il declino, dal momento del loro massimo splendore, dopo un assai più lungo periodo di quanto non sia avvenuto per l’Europa. Due guerre assurde hanno impresso un ritmo vertiginoso al processo di decadimento della civiltà europea.
Una constatazione di questo genere comporta, come conseguenza, un giudizio assolutamente negativo sulle classi dirigenti che hanno governato l’Europa in tutti quegli anni. E dà, quindi, poche speranze che si costituiscano le condizioni per un rovesciamento della situazione.» (p. IX)
Lascia un commento