A che cosa si riferisce Vladimir Putin quando parla della “madre Russia attaccata dall’Occidente” nel suo discorso del 21 febbraio e di nuovo il 9 maggio nella Festa per la vittoria contro il nazismo? Quali sono le radici di questa idea, cui fa riferimento anche il Patriarca ortodosso moscovita Kirill nella sua stupefacente omelia del 6 marzo? C’è una pagina de L’Idiota di Dostoevskji che forse meglio di qualsiasi altra può spiegarlo. Uno dei protagonisti di questo romanzo datato 1869 (qui attingo dalla traduzione italiana Einaudi, 2014, p. 375), un borghesuccio di Pietroburgo meschino ma dalle convinzioni assai nette, di nome Lébedev, spiega la propria diffidenza nei confronti del progresso civile che viene dall’ovest individuandone una manifestazione nello sviluppo della rete ferroviaria; l’essenza del male, beninteso, non sta nella ferrovia, ma – spiega lo stesso Lébedev – in
“tutto quell’indirizzo a cui le ferrovie possono fornire, per dir così, l’elemento pittoresco, l’espressione artistica. La gente corre, schiamazza, strepita e si affanna per la felicità, così si dice, del genere umano. […] Ma io […] non credo ai carri che portano il pane all’umanità! […] Nel passato c’era un’idea che era più forte di tutte le calamità, delle carestie, delle torture, della peste, della lebbra: di tutto quell’inferno, che l’umanità di allora non avrebbe sopportato senza il pensiero che legava e indirizzava i cuori e fecondava le sorgenti della vita! Mostratemi qualcosa di simile a quella forza nel nostro secolo di vizi e di ferrovie […] Mostratemi un’idea che leghi la presente umanità anche solo con metà della forza che c’era in quei secoli. E osate poi dirmi che le fonti della vita non si sono impoverite, non si sono intorbidate sotto questa “stella”, sotto questa rete che ha inviluppato gli uomini? E non cercate di farmi impressione col vostro benessere, con le vostre ricchezze, con la rarità delle carestie e la rapidità delle vie di comunicazione! C’è più ricchezza, ma meno forza; un’idea che leghi gli uomini non c’è più: tutto è rammollito, tutto è sfatto, tutti sono sfatti. Tutti, tutti, tutti siamo sfatti!…
Ecco, questa è la radice culturale profonda su cui si fonda l’idea – fatta propria dai due capi moscoviti, quello politico e quello religioso – che la “madre Russia” debba essere difesa dalle lusinghe del progresso proveniente da occidente. Certo, è la stessa idea utilizzata di fatto per alimentare le pulsioni imperialiste di cui nell’ultimo ventennio si sono viste le manifestazioni concrete in Abcasia, Ossezia, Cecenia, Georgia, Crimea, Transnistria e ora Ucraina; ma non si può capire ciò su cui il leader politico e il patriarca ortodosso fanno leva se non si mette a fuoco la disponibilità di molti russi a sacrificare, per questa idea, gran parte della loro economia. Se il Lébedev dostoieschiano, per salvaguardare quelle che vedeva come le “sorgenti della vita” e l’essenza della nazione, era disposto a rinunciare alla ricchezza portata dalla ferrovia, oggi si può capire che sullo stesso altare molti suoi epigoni siano disponibili a sacrificare niente meno che un quinto del reddito nazionale: a tanto ammonta, almeno per ora, la riduzione del PIL conseguente all’isolamento economico della Federazione Russa.
In questo modo, però, la Russia di Putin compie una scelta diversissima da quella della Cina di Xi-Jinping: la quale, al contrario, vede salvezza e futuro proprio nel rimanere saldamente inserita nella rete degli scambi commerciali col resto del mondo, assai poco preoccupata di perdere contatto con le vere o presunte sue radici spirituali popolari. Cosicché allo stesso Putin viene meno di fatto – anche se per ora non anche a parole – la sponda fondamentale che solo tre mesi fa era andato a cercare a Pechino e sulla quale aveva fatto grande affidamento.
(Questo articolo, con il consenso dell’autore, è ripreso dal sito www.pietroichino.it ed è stato pubblicato anche sulla Gazzetta di Parma)
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