La montagna sembra che stia davvero partorendo un topolino, per quanto riguarda la molto attesta (quantomeno dagli autentici liberali) riforma della Giustizia. Lo ha scritto chiaramente sul Riformista il penalista Gian Domenico Caiazza, noto garantista, spiegando che l’introduzione a campione dei test psico-attitudinali per i magistrati è un pannicello caldo e non servirà praticamente a niente; e che, al massimo, avrebbe avuto qualche senso per i magistrati arrivati già alla piena maturità. Il fatto poi che il ministro Nordio, dopo i gridi di allarme lanciati dal procuratore di Napoli Nicola Grattieri e da altri suoi illustri colleghi, abbia dichiarato che “sarà tutto gestito dal Consiglio superiore della magistratura, quindi non ci sarà alcuna interferenza governativa” non ci rassicura affatto, ma per le opposte ragioni a quelle dei magistrati: lasciare tutto il potere di controllo al CSM è come calarsi letteralmente le braghe davanti al tradizionale strapotere della casta giudiziaria, l’unica rimasta veramente operativa in Italia da quando la politica si arrese ai pm di Mani Pulite.
E così, mentre infuria la polemica su una misura con effetti insignificanti, ci si dimentica la vera questione che costituirebbe, invece, una riforma vera e propria: la separazione delle carriere dei magistrati in base alle funzioni giudicanti e requirenti. Di questa rivoluzione copernicana Nordio, il quale in passato si è sempre detto favorevole, che ha intenzione di fare? Procedere a testa bassa nonostante i veti della casta o rinviare alle calende greche come di fatto sta facendo? L’altra domanda che viene spontaneo farsi è se dietro questo scarso impegno del Ministro ci sia una riluttanza della presidente Meloni, le cui ascendenze giustizialiste sono ben note.
Il problema dell’attuale alleanza governativa di centrodestra o meglio di destracentro è e sarà sempre questo: per quanto europeista e atlantista la leader di Fratelli d’Italia possa sinceramente dichiararsi, resta sempre attivo in lei (e in Fratelli d’Italia) quello zoccolo duro fondato sulla cultura forcaiola, penitenziaria e illiberale che non si smonta semplicemente grazie agli abbracci calorosi con Biden piuttosto che la Von der Layen. La prova provata è che Giorgia Meloni (e tutto il suo cerchio magico) è un’alleata in Europa nonché amica personale di Viktor Orban, il primo ministro di quel Paese dove, giusto per fare un esempio di questi giorni, l’imputata italiana Ilaria Salis viene condotta in tribunale incatenata e tenuta praticamente al guinzaglio, e rischia quindici anni di carcere per una aggressione che, fortunatamente, non ha provocato nessuna vittima.
Verrebbe forse da pensare: meglio un’amica di Orban come Giorgia Meloni che un aperto filo-putiniano come Matteo Salvini. Eh sì, è proprio vero che, come dice quel vecchio proverbio, al peggio non c’è fine.
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