La retorica del friendshoring spesso non è che un travestimento nuovo della guerra ideologica contro il libero scambio. Che la globalizzazione sia finita è ormai una specie di luogo comune. Per questo ha sorpreso molto l’intervista del Financial Times con il numero uno di Maersk, Søren Skou, per cui “Il commercio internazionale sta dove sta. Può crescere più o meno a seconda di come va il Pil. Non ci sono ulteriori liberalizzazioni in vista, quindi non vedremo ancora più crescita. Ma non sta neppure entrando in crisi”.
L’esperienza della seconda compagnia di shipping al mondo conferma che, a dispetto delle tante profezie di sventura, le imprese hanno ancora ben chiare le ragioni per cui gli scambi internazionali nel corso degli anni si sono fatti sempre più fitti. “Non vediamo i nostri clienti rimpatriare le produzioni verso l’Europa – aggiunge Skou – È molto difficile che nel breve termine, o anche nel medio, ci sarà un vasto cambiamento nel modo in cui il mondo produce i beni di consumo”.
In questo momento tutti denunciano la fragilità delle catene globali del valore, perché gli eventi degli ultimi anni (dal Covid-19 alla guerra in Ucraina) non possono che mettere in discussione gli scambi internazionali. L’idea di Stato nazionale è talmente sedimentata nella nostra cultura politica che essa diventa il proverbiale porto sicuro nella tempesta, mentre i mercati internazionali sono associati all’incertezza e alle fragilità della società aperta. La quale fragile lo è senz’altro, ma forse un po’ meno che nella retorica di quei politici i quali ne disegnano a parole il cambiamento, perché segretamente ne bramano la dissoluzione.
Non è solo questione di quell’inerzia che pure sempre hanno le cose. È che il modo in cui si sono organizzati, negli anni, mercati e catene di fornitura non corrisponde a un “capriccio” dei liberisti ma ha ragioni forti. È proprio grazie all’efficienza dei mercati globali se, nonostante tutto, abbiamo ancora accesso regolare a tutto ciò che ci serve. Di più: è grazie soprattutto alla globalizzazione se le imprese riescono a rispondere con l’innovazione tecnologica, in tempi rapidissimi, a sfide enormi. Il caso del vaccino anti-Covid ne è, forse, l’esempio più clamoroso.
Se tutto questo è vero, allora viene da chiedersi che senso abbia dedicare tanta parte del dibattito pubblico (invocando continuamente l’intervento dello Stato) a questioni come il rimpatrio delle produzioni. I paesi che dovessero imbarcarsi su questa strada, anche al netto delle enormi difficoltà pratiche, si troverebbero a sostenere costi proibitivi, sacrificando così la crescita futura. D’altronde, non si capisce perché paesi sviluppati come quelli europei dovrebbero sforzarsi di attrarre produzioni che sono state delocalizzate a causa del loro basso contenuto di valore aggiunto. Sarebbe una sorta di dichiarazione di resa di fronte all’economia mondiale: quando invece il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di porci alla frontiera del progresso tecnologico e cercare di trarre vantaggio dall’efficienza economica resa possibile dalla globalizzazione.
La realtà è che la retorica del friendshoring spesso non è che un travestimento nuovo della guerra ideologica contro il libero scambio. Una guerra che è dettata spesso dalla incomprensione di come i mercati possano produrre ricchezza pur senza l’azione ordinatrice di un grande cervello centrale. Ma che ancora più spesso deriva dalla presunzione di chi pretende di essere proprio quel “grande cervello centrale” e vuole pianificare le vite degli altri, costi (agli altri) quel che costi.
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