Al pari di migliaia di avvocati in tutta Italia, ho aderito anch’io alla astensione dalle udienze proclamata dalla Unione delle Camere Penali per protestare contro la legge Bonafede sulla riforma della prescrizione. Una legge sbagliata e ingiusta.
Per i non addetti ai lavori, la prescrizione è una causa di estinzione del reato: vale a dire che un determinato fatto – che ovviamente sul piano storico non si cancella -, non viene più considerato dalla legge come reato una volta che sia trascorso un certo periodo di tempo da quando venne commesso senza che vi sia stata sentenza definitiva che ne abbia accertato la responsabilità.
La disciplina della prescrizione del reato è prevista agli articoli 157 e seguenti del nostro codice penale, ed è stata oggetto negli ultimi quindici anni di tre importanti interventi di riforma, realizzati con la legge n. 251 del 2005 (cosiddetta “legge Cirielli”), la legge n. 103 del 2017 (“legge Orlando”) e, infine, la legge n. 3 del 2019 (“legge spazzacorrotti”).
Non volendo farla troppo lunga, si può dire che la legge non prevede un unico termine valevole per tutti i reati, ma una disciplina alquanto diversificata. In via generale, la durata di questo termine è pari alla misura massima della pena che la legge prevede per quel singolo reato, partendo però da un minimo di sei anni per i reati più gravi (i “delitti”) e di quattro anni per quelli meno gravi (le “contravvenzioni”). Ad esempio, il reato di concussione, punito da sei a dodici anni (art. 317 codice penale), si prescrive nello stesso tempo che il codice prevede per la pena massima: dodici anni; viceversa, una truffa, anche se punita da sei mesi a tre anni (art. 640 c.p.), si prescrive comunque in sei anni, che è la misura minima del termine di prescrizione. Ci sono poi alcuni reati che sono imprescrittibili, cioè quelli per i quali la prescrizione non opera mai, non importa quanto tempo sia trascorso: sono i delitti puniti con l’ergastolo, quindi quelli più gravi in assoluto (omicidio aggravato, strage, attentato alle alte cariche dello Stato, ecc.).
La cosa importante da tenere a mente è che i termini sopra indicati possono allungarsi ulteriormente di un quarto (quindi i sei anni “minimi” per un delitto diventano sette anni e mezzo, i dodici anni diventano quindici anni e mezzo, e via discorrendo) allorquando vengano emessi alcuni atti indicati dalla legge, tra i quali la richiesta di rinvio a giudizio dell’indagato. Basta insomma che la pubblica accusa ritenga di dover processare qualcuno perché questo semplice atto determini, in automatico, che i termini si allunghino nella misura che si è detto. Ulteriore allungamento dei termini è previsto poi per alcune specifiche ipotesi di reato (reati fiscali, reati colposi particolarmente gravi, ecc.) e per i “recidivi”, ossia coloro che risultano già condannati per altri reati.
Si tenga anche a mente che con la riforma Orlando i termini di prescrizione erano stato ulteriormente allungati di diciotto mesi in caso di condanna in primo grado e altri diciotto mesi in caso di condanna in appello. Un allungamento previsto però solo in caso di sentenza di condanna.
Con riforma Bonafede si modifica in modo radicale la disciplina della prescrizione, prevedendo una speciale causa di “interruzione” (in realtà, perenne). Si prevede infatti che con la sentenza di primo grado, qualunque sia l’esito, la prescrizione si interrompa definitivamente. Definitivamente.
In altre parole, dopo la sentenza di primo grado, il processo, nei successivi gradi di giudizio, può durare anche per moltissimi anni perché non vi sarà più un limite oltrepassato il quale il reato si estingue. Insomma, un soggetto, innocente o colpevole che sia, potrà essere processato per una durata indefinita – e potenzialmente…infinita – fino a che non sarà stata pronunciata una sentenza che accerti in modo definitivo la sua situazione processuale.
La riforma Bonafede è una legge sbagliata e ingiusta. La penso esattamente come i tantissimi miei colleghi – ai quali si aggiungono molti magistrati e docenti universitari – che stanno protestando e manifestando in tutta Italia.
Sbagliata, perché non risolve gli annosi problemi di cui è afflitta la macchina giudiziaria, che sono in primo luogo dovuti a carenza di risorse, organizzative e strutturali. Si tenga conto che le statistiche dimostrano come la stragrande maggioranza dei reati si prescriva durante le indagini preliminari, quindi prima ancora che si arrivi a celebrare un processo.
Ingiusta, perché non è ammissibile per il nostro livello di civiltà (giuridica e non) che una persona, innocente o colpevole che sia, possa essere potenzialmente sottoposta all’infinito ad un processo penale. Che è già una pena di per sé, come sa bene chiunque ci sia passato. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva; le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato; i processi devono avere una durata ragionevole: sono principi consacrati nella nostra Carta costituzionale, e tutti cozzano con un processo avente durata potenzialmente infinita.
Si dice spesso che l’Italia sia la culla del diritto. È vero anche nel diritto penale, grazie alla imperitura opera di Cesare Beccaria, il quale secoli fa ebbe a scrivere: «Il processo medesimo dev’essere finito nel più breve tempo possibile. Qual più crudele contrasto che l’indolenza di un giudice e le angosce d’un reo? I comodi e i piaceri di un insensibile magistrato da una parte e dall’altra le lagrime, lo squallore d’un prigioniero? […] Ma le leggi devono fissare un certo spazio di tempo, sì alla difesa del reo che alle prove de’ delitti, e il giudice diverrebbe legislatore se egli dovesse decidere del tempo necessario per provare un delitto». Era il 1763. Per fortuna, da allora ad oggi i giudici sono diversi e di passi in avanti ne abbiamo fatti.
Come diceva un grande studioso di storia del diritto, Mario Sbriccoli, la storia del diritto penale può essere letta come una lunga e faticosa fuoriuscita dalla vendetta; allo stesso modo, la storia del processo penale può essere letta come una lunga e altrettanto faticosa vicenda dell’affermarsi di protezioni e garanzie disposte intorno all’accusato e ai suoi diritti. La giustizia contro la vendetta, la ragione contro l’arbitrio. Un’impresa secolare e non da poco. Di passi in avanti ne abbiamo fatti, non c’è proprio alcuna ragione o necessità di tornare indietro.
Ecco perché anch’io sono sceso (simbolicamente) in piazza contro questa riforma. Spero davvero che il mio partito, il Partito Democratico, faccia tutto il possibile per correggere questa stortura e ristabilire quei principi così mirabilmente espressi più di 250 anni fa. È una questione di giustizia e di civiltà. Non ci può essere l’una senza l’altra.
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Maurizio Bozzaotre è avvocato cassazionista, iscritto alla Camera Penale di Pistoia. Docente di diritto e procedura penale presso la Scuola di specializzazione delle Professioni Legali dell’Università di Siena. Dal 2017 è segretario comunale del Pd Pistoia e membro della direzione regionale del Pd Toscana.
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