Di Maurizio Bozzaotre*
* Segretario Comunale PD di Pistoia.
Nel 1715 il grande filosofo e matematico Gottfried Leibniz elaborò un progetto di costituzione europea che avrebbe dovuto garantire la pace tra le nazioni europee, ponendo così fine alla lunga scia di guerre e devastazioni che avevano caratterizzato la storia del Vecchio Continente. Leibniz era consapevole che per realizzare davvero lo scopo fosse indispensabile introdurre un elemento di garanzia che in qualche modo “imponesse” una cooperazione pacifica fra le nazioni, obbligandole a sottostare ad una legge comune. Per questo, riteneva che l’unico modo fosse quello di istituire una «Banca d’Europa», nelle cui casse ogni nazione avrebbe dovuto depositare (ciascuna in proporzione) una parte delle proprie ricchezze, primo passo per giungere poi alla istituzione di una moneta unica europea.
Leibniz viene perciò ricordato come il primo grande pensatore che abbia concepito l’idea di un’Europa unita, le cui nazioni avrebbero potuto riunirsi e cooperare senza per questo rinunziare alla loro sovranità; il primo a immaginare una sorta di “Stati Uniti d’Europa” come via necessaria per garantire pace e stabilità; il primo a comprendere che il miglior viatico fosse rappresentato dalla leva economico-monetaria. Anche per questa geniale intuizione merita certamente di essere ricordato nei libri di storia e di filosofia.
Purtroppo, il grande Leibniz era troppo “avanti” rispetto al suo tempo, e altri secoli di guerre sanguinose furono necessari perché quella visione venisse ripresa e divenisse realtà. Oggi, noi abbiamo la fortuna di vivere da decenni in un continente europeo dove pace e libertà sembrano essere caratteristiche ormai acquisite in modo irrevocabile. Ma è davvero così?
Prima di tutto, non dovremmo mai dimenticare che questa nostra “fortuna” non è certo frutto del caso. Come ha scritto di recente l’economista Gianmarco Ottaviano, «L’Unione Europea è figlia della guerra e madre della pace. È il risultato di una visione rivoluzionaria delle relazioni internazionali, che non ha precedenti nella storia dell’umanità: di fronte alle rovine della Seconda guerra mondiale e successivamente del socialismo reale, un numero crescente di paesi democratici, dopo secoli di conflitti e violenze belliche, spontaneamente decidono di dire basta e di anteporre la pace, l’unità e la prosperità del continente agli egoismi nazionali, alle mire espansionistiche dei paesi più forti e alle diffidenze di quelle più deboli».
Questa visione (autenticamente) rivoluzionaria si è imposta grazie alla volontà e alla tenacia di figure che abbiamo il dovere di ricordare, come il tedesco Konrad Adenauer, l’italiano Alcide De Gasperi, l’inglese Winston Churchill, i francesi Jean Monnet e Robert Schuman, il lussemburghese Joseph Bech, l’olandese Johan Willem Beyen, il belga Paul-Henri Spaak, e molti altri, senza ovviamente dimenticare il nostro Altiero Spinelli, instancabile missionario del progetto di una Europa politica e federale.
Ma pace e libertà non sono mai acquisite in modo definitivo, sono sempre a rischio di fronte alle tentazioni della prepotenza e dell’isolazionismo. Esattamente le tentazioni che, oggi, stanno minando le fondamenta della costruzione europea.
Di fronte a queste tentazioni la nostra Europa si trova su un piano inclinato. Non possiamo permetterci di rimanere fermi, e l’unico modo per evitare di regredire all’indietro è spingere in avanti nella costruzione di un progetto politico che negli ultimi anni si è drammaticamente arrestato. Mentre eravamo concentrati nella regolazione puntuale e minuta su aspetti (anche fondamentali, certo) della vita dei cittadini e delle imprese, abbiamo però perso di vista la vera “missione” che portò alla nascita di quell’architettura, via via sempre più complessa e articolata, che oggi va sotto il nome di Unione europea: la missione dell’integrazione degli Stati d’Europa.
Un’integrazione la cui piena realizzazione diventa oggi sempre più necessaria, alla luce dei processi di globalizzazione economica e innovazione tecnologica in corso nonché degli attuati assetti geopolitici internazionali.
Infatti, la costruzione di un’Europa realmente unita sarebbe innanzi tutto una formidabile occasione di sviluppo e di progresso. Tutti gli studiosi sono concordi nel ritenere che noi europei non abbiamo nulla da invidiare ad altri in termini di capitali, tecnologia, cultura; che noi disponiamo di un potenziale umano, economico e scientifico tale da competere con le altre potenze mondiali; che l’attuale debolezza dell’Europa risieda non nelle sue risorse bensì nella mancanza di un sistema maggiormente integrato a livello sovranazionale.
La stessa storia del Vecchio Continente dovrebbe insegnarci qualcosa. Se si guarda alle vicende che portarono al declino delle – a lungo floridissime – Repubbliche di Genova e Venezia, si vedrà che questi “Stati-azienda” vennero spazzati via a causa del formarsi dei grandi Stati nazionali, di modo che divenne troppo elevata la “massa critica” necessaria per reggerne il peso competitivo e garantire la propria sopravvivenza. Insomma, l’attuale conformazione degli assetti geopolitici internazionali dovrebbe spingere verso una maggiore integrazione, giacché non è certo pensabile che i singoli Stati nazionali europei possano competere con realtà del calibro di Stati Uniti, Cina, Russia.
Ma le ragioni dell’integrazione non sono solo di natura economica, non attengono solo ad un saldo tra costi e benefici: esse hanno molto a che fare con la realizzazione di una società più giusta sul piano sociale e delle disuguaglianze.
La natura ormai globale del mercato tende, infatti, a sottrarre la decisione economica alla regolazione politico-normativa degli Stati. Come ha lucidamente osservato uno dei grandi protagonisti del dibattito culturale e politico del nostro tempo, il filosofo Jurgen Habermas, il carattere più significativo della globalizzazione sta proprio nella sua capacità di “sconfinamento” rispetto al dominio nazionale; pertanto, se si vuol conservare – ammesso che lo si voglia davvero – la possibilità per la politica di intervenire nel governo di tale processo, l’unica risposta sta nella costruzione di organismi sovranazionali, democraticamente legittimati, che abbiano la reale capacità di correggere i difetti del mercato globale e indirizzarlo a fini sociali. Ma qui non si tratta – scrive Habermas – “solo” di salvare lo Stato sociale, ma di far “riguadagnare terreno” alla stessa politica rispetto ad un’economia che le è sfuggita di mano, nel tentativo di evitare che perda terreno la stessa forma democratica nazionale.
L’Unione europea si è “legittimata” agli occhi dei cittadini per i grandi risultati che ha conseguito sul piano della pace, della stabilità e dello sviluppo economico e sociale. Oggi tutto ciò che è stato faticosamente costruito è in pericolo, non solo a causa di meccanismi comunicativi (fake news e quant’altro) abilmente sfruttati da “ingegneri del caos” (cito da Giuliano Da Empoli), ma anche e soprattutto a causa di una rabbia popolare fondata su cause economiche e sociali che poco hanno di immaginario. E però, la soluzione non sta nella regressione all’indietro e nella chiusura dei confini, come vorrebbero le spinte sovraniste e nazionaliste tornate sulla scena, ma in una coraggiosa proposta riformista che può avere soltanto la tenace volontà di chi crede nella “missione”, riprendendo lo spirito dei “padri fondatori” citati poco fa.
Dovrà essere, prima di ogni altra cosa, una spinta coraggiosamente riformatrice degli assetti istituzionali. Da un lato, noi oggi abbiamo istituzioni “genuinamente” europee come la Commissione, la Banca Centrale e la Corte di Giustizia, che però non sono democraticamente legittimate; dall’altro abbiamo il Consiglio europeo dei Ministri, composto sì di capi di Stato e di governo democraticamente legittimati, ma che ormai è ridotto ad essere null’altro che stanza di compensazione dei vari interessi nazionali (lo si vede bene, a tacer d’altro, sulla questione migranti!). In questo assetto toccherebbe al Parlamento europeo essere canale di collegamento tra interessi nazionali e decisioni adottate in sede europea. E questo è il ruolo che esso dovrà rivendicare con maggior forza nella ripresa del cammino verso l’integrazione. La riforma dell’Europa e delle sue regole non può che partire dal suo Parlamento. Ecco perché è di vitale importanza il nostro voto di domenica prossima, perché la composizione del Parlamento europeo dei prossimi cinque anni determinerà il futuro dei prossimi cinquanta.
Quasi vent’anni fa il politologo Yves Meny scriveva «Noi europei tendiamo ad esagerare le nostre differenze e a sottovalutare ciò che ci unisce. Sottolineiamo la diversità delle lingue, delle culture, delle storie, delle tradizioni che, è vero, sono differenti, ma c’è qualcosa che ci unisce, ed è questo che fa la diversità dell’Europa: una coscienza europea che si tramanda in strutture, istituzioni, valori che non sono condivisi (o non lo sono allo stesso modo) dagli altri paesi. Per esempio: i diritti umani fondamentali. Anche se gli europei sono stati tra coloro che li hanno violati di più, sono anche coloro che li hanno inventati, estesi e poi protetti e, pur avendo fatto molti danni in nome della religione o dello stato, oggi hanno adottato verso questi diritti un atteggiamento diverso da quello americano, asiatico o africano. Insomma, l’Europa esiste, ma spesso gli europei non lo sanno».
Sì, oggi l’Europa esiste, ma domani? Ecco, domani 26 maggio saremo tutti chiamati a rispondere a questa domanda, e dalla risposta dipenderà il nostro destino, il destino dei popoli europei. Mai come stavolta quel destino è nelle nostre mani.
Gianfranco
Complimenti. Lucido e pieno di contenuto.
roberto-pt
l’analisi è lucida e condivisibile, manca la proposta di come procedere concretamente verso una maggiore integrazione.