Al di là delle cause interne (procedura di impeachment, calo dei consensi e l’imminenza delle elezioni presidenziali) che molti hanno addotto a vere motivazioni dell’operazione, il raid USA che ha portato all’uccisione del generale Qassem Soleimani: abile stratega del regime iraniano, ha un valore geopolitico e geostrategico enorme.
Con una mossa a sorpresa (ma tutt’altro che improvvisata o scriteriata), Donald Trump ha riportato gli Stati Uniti al centro della scena globale. Un colpo a suo modo “raffinato”, per gran parte simbolico, ma dal significato politico inequivocabile: l’America è ancora il fulcro del potere mondiale.
Anche la metodologia assai spicciola, ruvida, pericolosa, sfrontata, dal vago sapore “imperialista”, utilizzata dall’inquilino della Casa Bianca conferma e se possibile accentua il significato “di rottura” dell’operazione iraniana ribandendone la portata politica: gli USA comandano il mondo al di là di ogni Istituzione internazionale e nonostante ognuna di esse. L’ America non deve chiedere il permesso a nessuno né informare nessuno (alleati, NATO o quant’altri) per difendere i propri interessi e quelli dell’Occidente.
La questione va ben oltre il galateo istituzionale, la cortesia politica o il “disprezzo” delle formalità diplomatiche su cui molti commentatori si sono soffermati. La posta in gioco riguarda la sfera emotiva e il simbolismo politico. La “nuova” America ha bisogno non solo di comandare ma di apparire “il dominus” del mondo.
“America first”, appunto!
Quello slogan ritenuto sbrigativamente e semplicisticamente un ideologico invito al voto dell’esaltato di turno, con l’operazione Soleiman sembra svelare la sua autentica valenza ideale e politica. “America first” è la versione 2.0 del “sogno americano” internamente sostenuto con l’esaltazione e la protezione del «made in USA» ed a livello globale “imposto” con il rilancio dell’egemonia cultural-militare americana.
Anche lo svincolamento dagli organi internazionali NATO, ONU, UNESCO sovente letta come “ignoranza democratica” appare invece funzionale alla riconquista e alla riaffermazione di quella supremazia geopolitica che, soprattutto sotto la presidenza Clinton (1993-2001), si era talmente svilita da offrire il fianco agli attacchi terroristici dell’indimenticabile ed indimenticato 11 settembre 2001 con i quali il “gigante” a stelle e strisce mostrò al mondo i suoi piedi d’argilla.
Un’onta che l’orgoglio USA non ha mai accettato e che, spesso con eccessi insopportabili, insostenibili e talvolta irrazionali, sembra trovare riscatto nell’offerta di rivincita economico-culturale (e non solo militare come vorrebbe la tradizione repubblicana) trampiana.
Quel nuovo sogno americano con cui, nonostante tutto, la politica americana dovrà fare i conti anche il prossimo 20 novembre.
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