L’idea di dar vita ad un’iniziativa che riprenda gli intenti alla base della Biennale del dissenso del 1977 e profondamente li aggiorni in riferimento alle trasformazioni epocali intervenute, è un sollecitante invito. Il ragionamento che svolge Carlo Rubini è ben condivisibile. Non per darmi a ricordi personali che non interesserebbero nessuno, ma per evocare un clima vissuto in prima persona, non posso fare a meno di rammentare per sommi capi la missione che insieme all’assessore regionale alla cultura Luigi Tassinari fummo incaricati di compiere dalla giunta – ne ero membro – presieduta da Lelio Lagorio. Ci incontrammo a Venezia con Carlo Ripa di Meana per verificare se a Firenze era possibile dislocare una sorta di sezione dell’esposizione che stava suscitando tanto scalpore e molti mugugni e attacchi nella sinistra. Volevamo prender parte all’impresa per render chiara la visione di un’altra sinistra e di un città che ai dialoghi internazionali aveva dato, in modo particolare con La Pira, un risalto eccezionale. Quasi spronando il Comune ad assumere il ruolo di un soggetto in grado di coniugare tradizioni civiche e sguardo sul mondo. Ripensando ad un calendario fitto di feconde occasioni si può oggi affermare, e non per avanzare perplessità col senno di poi, che il respiro teologico della geografia che aveva in testa e promuoveva nella sensibilità popolare La Pira produceva indubbi riflessi pratici, ma per vocazione si svolgeva su un piano spirituale, concreto ma votato a non interferire incisivamente nella rispettosa rete dei rapporti tra Stati e nelle funzioni dei poteri locali. Il dialogo per sua natura interviene tra realtà che restano distinte, entrambe gelose della loro autonomia e delle loro cosiddette identità. Le strategie ora sono cambiate. Non sempre imboccano la via più efficace. Il Pci di allora, non certo per bocca di Elio Gabbuggiani, non poteva – non voleva – oltrepassare prudenze imposte da una collocazione internazionale che, per quanto critica, era frenata dallo spingersi fino a rompere storici legami. Vi furono animatissime discussioni. Non furono pochi coloro che rimproveravano a chi si adoperava per un attivo sostegno ai dissenzienti di non tener conto che un Comune o una Regione erano istituzioni, articolazioni di uno Stato e che il fervore di chi esaltava il dissenso all’Est e lavorava per appoggiarlo pubblicamente avrebbe potuto creare guai e non aiutare i rapporti, i gemellaggi e gli scambi in essere. Le ragioni della diplomazia sovrastavano quelle della verità. Da fior di intellettuali di sinistra e no non mancarono attacchi contro una linea additata come ingenua e velleitaria. Oltreché “strumentalizzabile”. Il fatto è che l’area che si rifaceva al Pci e ai suoi simpatizzanti era organicamente dentro un marcato internazionalismo; era componente, insomma, di una vicenda che aveva una dimensione internazionale da non tradire. Semmai da correggere, integrare, addolcire. I saggi che Silvio Pons ha dedicato a differenze / convergenze tra i comunisti italiani e gli altri sono per me pagine storiografiche definitive e mi astengo dal citarle. Il tentativo avviato non andò a buon fine. E oggi? Quali forme in età di populismi ribelli o reazionari ha assunto il dissenso? Dissenso da chi e da che cosa? La caduta del Muro che separava due mondi ha dato luogo ad una tale diversità di situazioni che ogni impostazione dualistica o manichea tra mondo presunto libero e Europa kidnappée (come allora si diceva) è irricevibile. Si tratta di lottare per una libertà di espressione e una tensione di creatività che favoriscano esperienze non solo tra Ovest e Est, ma in una condivisione che associ davvero protagonisti di altre parti di mondo dove o con sottili stratagemmi persuasivi o con violenza mascherata da legalità si ostacolano o si reprimono con durezza voci e persone. È urgente difendere la libertà del più vigoroso dissenso o di una motivata attitudine critica e attivare collaborazioni tra culture e sensibilità. Irenici dialoghi e attento ascolto non bastano. Il requisito da richiedere universalmente è la tolleranza reciproca. Voltaire non ha mai pronunciato l’aforisma che sovente gli viene attribuito: “Io combatto la tua idea, che è diversa dalla mia, ma sono pronto a battermi fino al prezzo della mia vita perché tu, la tua idea, possa esprimere liberamente”. Charles Wirz, conservatore dell’ Institut et Musée Voltaire di Ginevra, ricordò nel 1994 che Miss Evelyn Beatrice Hall in The Friends of Voltaire (1906!) , mise, a torto, tra virgolette questa citazione in due opere da lei dedicate all’autore di Candide, e riconobbe che la citazione non era autografa di Voltaire: “The phrase ‘I disapprove of what you say, but I will defend to the death your right to say it’ which you have found in my book is my own expression and should not have been put in inverted commas. Please accept my apologies for having, quite unintentionally, misled you into thinking I was quoting a sentence used by Voltaire (or anyone else but myself).”
Quella Biennale del 1977 – anno cruciale nelle lotte politiche italiane – resta un episodio luminoso che non si seppe allora accogliere con la passione necessaria. Oggi che la babele si è fatta infernale, il disegno da costruire è assai più difficile. Le insidie sono più nascoste e più accortamente mimetizzate. Le linee di separazione non così nette. Globale è la dinamica che porta al dominio mutilante di “imperi senza nome”, per usare un’angosciata immagine impiegata da Papa Francesco. Vale la pena mettersi al lavoro in nome della libertà di dissenso e di critica ovunque. Per la piena libertà delle idee e per assicurare a tutti in egual misura condizioni materiali che permettano alle idee di farsi consapevolmente carne. “La libertà – scrisse Rosa Luxemburg – è sempre soltanto libertà di chi la pensa diversamente”.
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